CAPITOLO 12 - NEW ORLEANS

New Orleans

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«Io giuro solennemente che adempirò con lealtà ai doveri di Presidente degli Stati Confederati d'America e al meglio delle mie abilità preserverò, proteggerò e difenderò la Costituzione. Che Dio mi aiuti.»

Alexander iniziò il suo discorso alla Louisiana State University citando il giuramento solenne che Jefferson Davis pronunciò il 18 febbraio del 1861 al Campidoglio dell'Alabama, la sede, all'epoca, del congresso confederato.

Ormai era giunto alla fine dei suoi comizi e quella era l'ultima tappa di un lungo viaggio iniziato quasi un anno prima. Fino a quel momento era andato tutto come se l'era immaginato e la sua voce aveva fatto breccia negli animi dei giovani accademici che, spinti dall'ardore patriottico, lo avevano seguito sempre più numerosi.

La miccia era ormai accesa e il fuoco della rivolta sarebbe ben presto divampato dilagando in tutto il Paese.

Poteva ritenersi soddisfatto.

In un certo senso stava realmente facendo la storia e, forse, sarebbe anche riuscito nell'impresa che centocinquanta anni prima era miseramente fallita dopo quattro dolorosi anni di guerra.

Guardò fiero davanti a sé, come a voler abbracciare con lo sguardo ogni singola persona che lo stava ascoltando, poi riprese a parlare con voce ferma e risoluta mentre il vento gli scompigliava i capelli e un pallido sole pomeridiano cercava di farsi strada attraverso un cielo striato di nuvole biancastre.

«La nostra scelta illustra l'idea Americana che i governi si poggiano sul consenso dei governati e che è diritto del popolo modificare o abolire i governi quando essi diventano distruttivi per i fini per i quali sono stati istituiti.»

Uno scroscio di applausi lo costrinse a interrompere il discorso. Quelle superbe parole, che inquadravano perfettamente la logica liberale grazie alla quale quegli uomini valorosi erano riusciti a prendere una decisione coraggiosa e difficile, riecheggiate dagli altoparlanti, vennero sospinte dal vento fino agli angoli più lontani del campus, arrivando a toccare i cuori delle centinaia di astanti.

«Lo scopo dichiarato del patto di Unione da cui ci siamo ritirati» riprese Alexander dopo un istante, infervorato dal suo stesso fuoco interiore, «era di stabilire la giustizia, assicurare la tranquillità domestica, provvedere alla difesa comune, promuovere il benessere generale e garantire la benedizione della libertà per noi stessi e i nostri posteri.

E quando, a giudizio degli Stati Sovrani che ora compongono questa Confederazione, esso è stato allontanato dai propositi per cui fu creato, un appello pacifico alle urne ha decretato che quel governo doveva cessare di esistere.»

Si fermò di nuovo cercando, stavolta, di spiegare con concetti semplici le motivazioni che avevano portato, all'epoca, a quelle scelte, soffermandosi principalmente sui concetti di libertà e autogoverno. Infine, si focalizzò sulle ragioni di un possibile e analogo cambiamento sociale e politico nel mondo odierno, analizzandone le conseguenze in termini di crescita, visibilità e redditività degli Stati coinvolti.

Tutti ascoltavano rapiti, come se fossero tornati al 1861 e si stessero beando delle accalorate parole del presidente Davis.

Alexander continuò a citare il discorso di Jefferson.

«Il verdetto imparziale e illuminato dell'umanità rivendicherà la rettitudine della nostra condotta e Colui che conosce i cuori degli uomini potrà giudicare la sincerità con la quale ci siamo affannati per preservare il Governo dei nostri Padri nel suo spirito.

Il diritto proclamato solennemente alla nascita degli Stati, e che è stato affermato e riaffermato nella Carta dei Diritti, innegabilmente riconosce al popolo il potere di riprendere l'autorità delegata allo scopo di governare. Così gli Stati Sovrani, qui rappresentati, hanno proceduto a formare questa Confederazione, ed è per un abuso del linguaggio che il loro atto è stato denominato una rivoluzione.»

Un nuovo scroscio di applausi sancì ancora una volta il successo delle sue parole. Adesso, non gli rimaneva che concludere il comizio. Fissò la folla di persone assiepata di fronte al palco e lungo tutto il perimetro dei giardini del campus, alzò una mano a richiamare la loro attenzione e quando calò il silenzio, interrotto solamente dal frusciare del vento fra le fronde delle maestose querce, recitò a occhi chiusi l'ultima frase, la stessa, peraltro, con la quale Jefferson Davis aveva chiuso il suo discorso inaugurale nel febbraio del 1861.

«Vedrete in me molti errori da perdonare, molte carenze da tollerare, ma non troverete in me nessuna mancanza di zelo o fedeltà alla causa, che è per me la più grande speranza e il più grande e duraturo affetto.

La vostra generosità mi ha concesso un onore immeritato. Sulla continuazione di quel sentimento e alla vostra saggezza e patriottismo mi affido, affinché mi dirigiate e sosteniate nel compimento del dovere che avete riposto nelle mie mani.»

***

Il senatore Gregory Perry si fece largo fra la folla stringendo mani e dispensando sorrisi fino a che non raggiunse la base del palco dove Alexander stava ancora discutendo con un paio di persone. Per non disturbarlo, attese in disparte fino a quando il Senatore, voltandosi, non incrociò il suo sguardo. A quel punto gli fece un leggero cenno con la testa come a indicargli che era pronto e che lo avrebbe atteso un po' più in là, lontano dal caos. Si spostò quindi verso l'edificio principale del campus fermandosi a ridosso del tronco di una quercia centenaria.

Due minuti più tardi Lee lo raggiunse.

«Volevi vedermi?» gli chiese parlando a voce bassa.

«Sì. Ho bisogno che tu faccia venire qui, subito, un paio di Cavalieri. Io ti raggiungerò al massimo fra un'ora. Solito posto.»

«Problemi?»

«Spero di no. Adesso però va', il tempo stringe e io devo ancora concludere un paio di trattative. Non farne parola con nessuno, è importante.»

Greg annuì e sparì confondendosi fra la folla.

***

Quaranta minuti più tardi, Lee entrò nell'atrio dell'Università e a passo rapido iniziò a percorrere il lungo corridoio semibuio. In giro non c'era nessuno dato che l'intero edificio era stato chiuso proprio in vista del suo comizio, per cui avanzò senza preoccuparsi più di tanto della sicurezza. Del resto, erano poche le persone che possedevano le chiavi di quella struttura e che avevano il permesso di potersi muovere liberamente a qualsiasi orario e in qualunque giorno, ma il rettore era un suo vecchio amico, e ciò gli garantiva un margine di segretezza decisamente elevato.

Ma non solo.

Ashton Finley era anche uno dei suoi più fervidi sostenitori, filantropo della città nonché grande finanziatore del partito e della sua causa. Alexander doveva a lui molti dei propri successi elettorali, oltre, in quel caso, alla preziosa collaborazione nel riportare alla luce uno dei tanti cunicoli segreti scavati sotto la città negli anni della guerra civile. La ferrovia sotterranea, come era stata definita in seguito, non aveva però nulla a che vedere con i treni o le stazioni, ma si trattava bensì di una reta intricata di passaggi, cunicoli, itinerari e luoghi sicuri che durante il conflitto era stata progettata per permettere agli schiavi del Sud di fuggire verso la libertà. Lui ne aveva sentito parlare diverse volte nelle storie locali della sua città, ma non aveva mai pensato che potesse assumere un ruolo così importante per la causa fino a quando non era stato trovato proprio uno di quei passaggi nei sotterranei della Louisiana University che lui aveva poi prontamente adibito a ritrovo segreto per le riunioni dei Cavalieri del Cerchio d'Oro.

Giunto in fondo al corridoio aprì una pesante porta di metallo sulla quale c'era scritto RISERVATO AL PERSONALE e la richiuse subito dietro di sé. Accese la luce e scese per un paio di rampe fino a sbucare in un'ampia sala ricolma di scaffalature di legno piene di ogni sorta di libro. Senza perdere tempo si portò a ridosso della parete destra e scostando un volume sulla vita di Jefferson Davis rivelò un tastierino numerico incassato nel muro. Digitò un codice segreto e quando sentì un leggero clic, mosse la scaffalatura in avanti aprendo una porzione della parete. Entrò e come sempre richiuse tutto dietro di sé.

Gregory era già lì, seduto su una panca di legno in mezzo a una sala circolare dal fondo della quale partiva un cunicolo buio come la notte. Accanto a lui due uomini.

Lee si avvicinò e dette loro la mano usando la stretta dell'Ordine, poi si sedette a sua volta.

«Fratelli, ben arrivati» esordì fissandoli negli occhi. «Questa non è una riunione formale del Cerchio d'Oro, ma una convocazione straordinaria e urgente. Dovete portare a termine una missione che richiede la massima riservatezza.»

Nessuno dei due parlò. Rimasero impassibili in attesa che il Senatore continuasse.

«Dovete recarvi ad Arlington House, oggi stesso. Ho bisogno che facciate una ricerca su un documento denominato Protocollo Virginia. Si tratta di un vecchio accordo tra Jefferson Davis e il Vaticano. Sinceramente non so nemmeno se esista ancora, ma credo che la residenza del Generale sia comunque un ottimo punto di partenza per scoprire se invece ne è rimasta qualche traccia. Nessuna domanda sulle motivazioni. Obbedite e basta.»

«E se dovessimo incappare in qualcosa?» chiese uno dei due.

«In quel caso siete autorizzati a seguire ogni pista. Se il Protocollo è stato realmente nascosto, allora dovete fare in modo di recuperarlo, a qualunque costo. Eliminate pure gli ostacoli, ma non lasciate niente che possa far risalire a voi.»

Annuirono chinando il capo, poi silenziosi come ombre sparirono nel buio del tunnel.

Subito dopo Greg si alzò e si portò vicino a Lee. «Che razza di storia è questa Alexander? Perché non ne sapevo nulla?»

«Perché non era nemmeno nei miei piani, almeno fino a qualche giorno fa.»

«Ti sta forse minacciando qualcuno?»

Alex mise una mano sulla spalla dell'amico e gli sorrise. «Tutt'altro. Credimi, se mai dovessimo trovarlo, quel documento, ne avremmo solo da guadagnare.»

«Lo sai che con me puoi parlare liberamente.»

Lui annuì.

«Ebbene? Cosa sta succedendo?»

«Il Vaticano sembra essere alquanto interessato a quell'accordo» gli spiegò Alexander alzandosi in piedi. «Sono stato contattato da una persona, un pezzo grosso. La scoperta della corazzata deve avergli fatto rizzare le antenne e lui mi ha promesso un appoggio incondizionato alla nostra causa se lo aiutiamo a recuperarlo. Sai cosa vorrebbe dire, no?»

«Certo. Avere la Chiesa dalla nostra parte sarebbe un vantaggio enorme» commentò Greg pensieroso. «Perché però non mandare Rus? Una missione del genere sarebbe stata pane per i suoi denti.»

«Al momento è impegnato su un altro fronte, per noi assai più importante e per il quale le sue doti di Ranger sono senz'altro meglio apprezzate.»

«Stai parlando dell'Oro della Confederazione, giusto?»

Lui annuì. «Non appena prenderà possesso del disco di bronzo passeremo alla fase due.»

«Capisco. Nel frattempo, posso esserti d'aiuto in qualcos'altro? Non sono bravo con i codici, ma nelle ricerche me la cavo.»

«Lascia stare, ho in serbo per te un altro compito. Poche ore fa ho spedito la proposta di legge alle Camere ed ho bisogno che tu ti assicuri che sia interpretata nel modo corretto, se intendi ciò che voglio dire.»

«Certamente. Ma se qualcuno dovesse comunque avere ancora dei dubbi?»

«Allora prendi pure tutte le precauzioni del caso.»

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