Una strana sensazione
Burald non sorrideva mai ma, se decideva di farlo, solo a me come fosse un dono esclusivo, i suoi occhi diventavano lucidi. Quando i nostri sguardi si intrecciavano sembrava così vivo... Eppure solo mentre sorrideva le sue iridi, come pianeti di giada, brillavano sopra ogni limite.
Le labbra si sollevavano appena, infatti a una persona distratta non sembrava neanche che sorridesse, tuttavia eravamo legati da un filo invisibile e ogni più piccolo movimento assumeva un significato preciso. Avevamo un segreto e un modo di comunicare tutto nostro, forse perché le persone strane si comprendono bene tra loro, o forse perché noi non eravamo due persone strane qualunque, noi eravamo legati anche da qualcos'altro di speciale. Dovevo solo scoprire cosa.
Gli angoli della bocca si alzavano un po', mi fissava e, quando capiva di possedere la mia totale attenzione, fioriva in un sorriso ampio. Imparai a riconoscere il suo profumo: era una fragranza decisa ma raffinata, legnosa, con una dolce nota di vaniglia. Negli istanti in cui Burald restava in silenzio mi bastava il suo odore avvolgente: gli stavo vicino anche solo per respirarlo e godermi il piacere. Si spostava in fretta, troppo in fretta, così tanto che non facevo in tempo a sbattere le ciglia e lui era già sparito, in silenzio, senza permettermi di sentire il rumore dei suoi passi. Non sembrava neanche sfiorare il pavimento, fluttuava come un fantasma, però i suoi piedi non si alzavano da terra.
Non importava quanto le suole delle scarpe fossero sporche o bagnate per colpa della pioggia: non lasciava tracce. Riuscivo a risalire al suo passaggio solo grazie al suo profumo, con cui tracciava una scia invisibile che si dissolveva solo dopo parecchio tempo.
Alcuni giorni era più spento che mai, come un fantasma che si lasciava trascinare dalla forza del vento o da uno spirito esterno, mentre altri giorni i suoi movimenti erano guidati da una sorta di energia negativa, quindi si sedeva, si alzava e spariva con bruschi scatti. Se ne stava spesso in disparte e si chiudeva nel suo mondo infestato da mille demoni, si accovacciava contro la parete e fissava un punto nel vuoto per ore. Sospirava, scuoteva il capo... Pensava e ripensava, a volte così tanto da farsi venire il mal di testa.
I muscoli diventavano rigidi, le vene sul braccio spesse ed evidenti, appoggiava la fronte alla mano, socchiudeva gli occhi per qualche secondo. E i suoi comportamenti mi aggrovigliavano lo stomaco e mi aprivano una voragine nel petto, in parte perché non riuscivo a spiegarmeli, in parte perché il malumore mi contagiava facilmente. ▪️▪️❤️▪️▪️
Durante la ricreazione rimase seduto al banco. Appoggiò i gomiti al tavolo, si portò le dita alle tempie e chiuse gli occhi: forse aveva una tremenda emicrania o, forse, qualcosa di tremendo gli stava spremendo il cervello come un limone. Alice gli fece mille domande e gli prese la mano in segno di comprensione, ma Burald non la degnò nemmeno di un'occhiata. Era troppo immerso nelle sue tenebre, che oggi non sembravano più il suo rifugio, ma una prigione da cui non poteva fuggire. Lei si morse le labbra carnose e inclinò la testa di qualche grado per vederlo da una prospettiva diversa e, chissà, magari per girare una chiave nella serratura inaccessibile del suo cuore. Mi avvicinai e le lanciai un'occhiataccia.
Alice finse di sorridere, lasciandosi apparire sulle guance delle deliziose fossette, prese il mascara dall'astuccio e sparì fuori. In cerca di uno specchio? Probabile. Beh, in ogni caso mi lasciò via libera e mi sedetti su uno sgabello vicino a Burald.
-Cos' hai?
Non rispose. Mi sporsi per trovare il suo sguardo, gli posai i polpastrelli sul braccio, ma poi rimasi lì, immobile, a sfiorare la sua pelle. -So che non mi darai mai una spiegazione, ma... almeno un indizio?
Nulla. Il suo respiro si fece più pesante, come trascinato da tanti sospiri. - Guarda, - mormorai. - se non la smetti di trattarmi come hai trattato Alice, mi convincerò che ci tieni a me quanto a lei. E non sarebbe una cosa positiva.
Fece una risatina forzata, con gli occhi chiusi. -Cosa ti fa dubitare che io tenga a lei, Cassie?
-Non sono proprio cieca, sai?
Espirò con uno scatto. Si infilò le dita tra le ciocche di capelli e girò il viso verso di me. -Ti preferivo quando eri gelosa.
Sorrisi. -Allora? Che ti succede?
-Niente. - Contrasse la mandibola. - È normale... per uno come me.
-Perché? Tu come saresti? - Anch'io feci scivolare un gomito sul banco e mi ressi la guancia sul pugno chiuso. - A parte strano, misterioso, spaventoso e frequentatore di cimiteri, intendo.
Era la seconda volta che lo definivo strano: forse mi piaceva sottolineare di avere un punto in comune con lui. Ma il suono di quella parola era cambiato così tanto, rispetto a quando ero l'unica che i miei compagni definissero così...
-Sarei uno a cui non piace parlare. - Serrò le labbra con forza. Si drizzò di scatto e allontanò la sua sedia dal banco, spingendosi con le braccia. Uno stridio spezzò il silenzio che si era appena creato tra noi.
Burald rimase immobile per un paio di istanti. - Però questo non vuol dire... - Tornò ad appoggiarsi al banco. - Sì, insomma. Non vuol dire che con te sia lo stesso.
Era pallido. Sì, aveva delle creature raccapriccianti nella mente che lo stavano devastando, ma i suoi occhi erano già due lame argentate, due spade affilate pronte alla battaglia. I suoi muscoli erano tesi. -Okay... Allora adesso me ne vado e ti lascio in pace.
-Resta pure, se ti va. Tanto devo uscire.
Gli lanciai un'occhiata confusa. Se ne stava andando, così, di nuovo, all'improvviso? Si alzò e si diresse verso la porta, dove mi lanciò il suo sguardo come fosse una freccia con cui colpirmi nel petto. Lo presi al volo: adesso era lacerante, una vera e propria arma da taglio.
Una fitta mi scese nel petto: veniva da lui, di sicuro. Era come se per i suoi occhi l'unico modo di riempirsi ed esternare qualcosa fosse condividerlo con me, proiettarmelo dentro come se mi fosse appartenuto, trasmettermelo dritto nel cuore. Io avevo un potere speciale su di lui, come se lo animassi, e ogni volta che mi osservava Burald aveva un'espressione così seria, così solenne... Anche quando rideva. Era come se stesse rinnovando un giuramento.
Spezzò il nostro collegamento, uscì dall'aula e si chiuse alle spalle la porta. Iniziai a mangiarmi le unghie. C'era qualcosa che mi prudeva dentro, come una crosta che ti tormenta fino a quando non te la strappi via dalla pelle e la ferita ricomincia a sanguinare.
La campanella stillò e segnò l'inizio di una nuova lezione. -Posso andare in bagno?
L'insegnante mi diede il suo consenso. Uscii e iniziai ad avanzare quatta quatta, parecchi metri dietro a Burald, sgattaiolando nel corridoio con il cuore che mi esplodeva nel torace. Sembrava che volesse balzare fuori. "Se mi scopre è la fine." Iniziai a tremare... Avevo le orecchie protese, per accorgermi del rumore delle mie suole e riuscire ad attutirlo prima che anche Burald lo notasse. Sfioravo appena il pavimento con le punte dei piedi.
Burald, alla fine dell'atrio, girò l'angolo. Accelerai per non perderlo di vista: non potevo contare sul rumore dei suoi passi, ma il suo profumo mi avrebbe guidata.
Svoltai a destra come lui poco prima, ma Burald stava già scendendo le scale dirette al pianterreno. Lì sotto si trovava un altro corridoio che collegava a un sacco di stanze poco utilizzate, come l'aula dei fossili, il laboratorio di scienze, gli spogliatoi, la biblioteca...
"Cosa sta andando a fare? Forse dovrei rivalutare l'ipotesi che sia un ladro. " Quando arrivai al piano di sotto, lui si stava infilando nella stanza di arte. "È un pittore segreto, forse? "
Burald entrò e lasciò la porta socchiusa. Mi avvicinai e sbirciai dalla fessura: si diresse verso il finestrone, attraverso cui si poteva ammirare il labirinto di rami di un albero e le pennellate verdi delle foglie, che si sommavano in un tripudio di colore. Quelle tonalità accese, però, ferivano i colori pallidi della stanza.
La finestra era un confine netto: da una parte rimanevano il grigio, il nero e il bianco, mentre dall'altra la natura frizzava vivace. Burald era proprio in mezzo, con la testa e le spalle ancora abbracciate dall'oscurità e la luce dell'esterno che gli avvolgeva il viso e i capelli. Avrei voluto dirgli di lasciarsi scoprire per intero, di entrare nel mondo colorato.
Ma aveva ancora le mani sulle tempie e la fronte corrugata. Si allontanò le dita dalla pelle, e io mi aggrappai alla maniglia: Burald stava tremando. Continuò a fissare oltre il vetro, ma i suoi occhi luccicavano, pieni di lacrime traballanti.
Quell'albero era cresciuto contro alla finestra, e ora faceva da tapparella. Sul tronco erano incisi i disegni degli alunni, le loro iniziali, faccine tristi e sorridenti, omini stilizzati, opere in cui il prof di arte avrebbe di certo trovato un fondo artistico.
Burald posò una mano sul vetro e i suoi polpastrelli parvero sfiorare il tronco. La pelle si accostò alla superficie quanto bastava per percepirla, ma era preparato a ritrarre la mano alla velocità della luce, come se il vetro scottasse, come se nelle scanalature del legno scorresse lava incandescente.
-Non sono fatto per stare qui. - mormorò tra i denti. - Meglio non lasciare il segno.
Il vento passò tra le foglie ed emise un fruscio, spostò i rami, e la vegetazione producesse tante piccole ombre circolari sul suo viso, un mosaico di spicchi di sole ed eclissi lunari: per qualche istante le tenebre e la luce rimasero insieme sulla sua pelle, fianco a fianco, si accarezzarono, si scontrarono e infine trovarono un equilibrio, accostandosi l'una vicino all'altra. Sgranai gli occhi. Il suo viso era sempre spettrale, però allo stesso tempo era vivo, apparteneva al mio mondo di colori.
Ma gli sfuggì un gemito. Esalò il fiato dal naso, con uno scatto, e, con un guizzo, un angolo della sua bocca salì in un'espressione amara. Una gocciolina scese con uno scintillio sulla sua guancia, ma durò solo un istante, perché lui se l'asciugò subito. Continuò a sfregare il solco che le occhiaie avevano scavato sul suo viso: non smise fino a quando la sua pelle non diventò tutta rossa e irritata.
Abbassò la tapparella e lasciò la stanza avvolta nella penombra.
Il mio cuore batteva forte, sciolto dalla vista di quella lotta che Burald aveva combattuto di fronte ai miei occhi. Iniziò a camminare avanti e indietro. -Smettila subito di parlare... Mi stai facendo scoppiare la testa.
Sussurrò di nuovo, ma questa volta tanto piano che non compresi cosa disse."Con chi sta parlando? Non c'è nessuno con lui!"
-Lo so, lo so... è da giorni che mi supplichi.
"Ma è impazzito?" Appoggiai l'orecchio alla porta. -Sì, so quanto lo vorresti, quanto è importante per te... Ma non posso.
Avanti. Indietro. Avanti. Indietro. Avanti. Indietro. Proprio non riusciva a calmarsi.
-Sarebbe troppo pericoloso, capisci? Stiamo parlando di mettere a rischio il segreto!
Con la mano destra mi asciugai la fronte inumidita dal sudore. Avevo le guance bollenti. Passò un'altra manciata di istanti, il tempo di una risposta, prima che bisbigliasse di nuovo: stava partecipando a una conversazione con botta e risposta.
-Scusa. Mi dispiace, davvero. Mi dispiace un sacco. Farei qualsiasi cosa per farti felice, ma non questo. Non hai un'altra richiesta?
Dopo tre secondi esatti scosse il capo e si passò le dita tra le ciocche di capelli, districando i ricci.
-No... Non è pronta. Non credo di poterle rivelare tutto... Tanto meno ora.
Mi strinsi forte la treccia e la spremetti, come se dai capelli si potesse estrarre del succo, o meglio, delle risposte. Era asciutta, ma ogni volta la comprimevo, convinta nel mio inconscio che fosse inzuppata di una sostanza liquida, che contenesse quello di cui avevo bisogno o volevo liberarmi.
Tolsi l'orecchio dalla porta e mi allontanai. Respiravo a fatica: non stava lottando contro un semplice complesso adolescenziale. Era contro un istinto che stava combattendo, contro l'istinto di rivelare a qualcuno qualche suo mistero.
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