Era l'alba. E la sveglia già cantava. Non avrebbe smesso per alcun motivo. Quindi il suo padrone dovette alzarsi dal letto.
Sulle bianche pareti della stanza, ampia e ariosa, rimbombavano le urla della radiosveglia, furibonda. Non si sentiva ascoltata. Quindi alzava la voce.
La camera disponeva di un'immensa vetrata, che rubava posto a due interi muri, formando uno spigolo, rivolto verso Est. E il giornalista era ancora impegnato nel tentativo si svegliarsi, seduto sul letto, mentre il Sole apparve da dietro una collina, scogliosa e rugosa. Allora tutto il cielo, limpido e privo di nubi, si macchiò di giallo e rosso, assumendo un vivace arancione che ricordava il colore dei mandarini.
Era Primavera, la fine di marzo per l'esattezza. Quindi il cortile, sotto il condominio, si era da poco spogliato delle candide vesti invernali, tornando a dipingersi di verde. Il giornalista finalmente prese il coraggio di cui aveva bisogno, zittì l'insistente sveglia, e nel silenzio corse in doccia, da cui uscì pochi minuti più tardi. Mise camicia, giacca e cravatta. Quest'ultima era azzurra, e rifletteva i colori del suo ridente sguardo, evidenziandone la profondità. Si pettinò, trangugiò in fretta un caffè e salì in auto.
Fin da quando era alto poco più di un comodino andava farneticando del suo grande sogno, il suo unico, inarrivabile obiettivo.
Era nato da una famiglia di contadini. Sua madre accudiva le bestie, suo padre arava la terra e curava l'orto. Vivevano con poco, prevalentemente con quanto riuscivano a ricavare dalla loro fattoria e con il sudore delle loro mani, in una regione lontana dal progresso e dalla civiltà, in cui l'avanzata della storia si sentiva appena.
In quel paesino, sperduto tra le campagne, suo nonno gli insegnò molte cose. Infatti, il vecchio padrone di casa era un amante del sapere antico, seppure avesse imparato a leggere solo in tarda età, dopo aver ereditato un'immensa biblioteca da un caro amico, morto senza una famiglia a cui lasciare i suoi averi.
- Cos'è questo, nonno?
- È un libro, tesoro mio. Vedi, nel passato c'erano tanti dotti che amavano lasciare il loro pensiero scritto sulla carta.
- E perché?
- Non lo so. Forse non avevano di meglio da fare.-
E mentre i suoi fratelli imparavano come gestire la vita di campagna, il ragazzino si lasciò catturare dalle passionali letture dell'anziano signore.
- Che significa questo?
- Che vivranno per sempre.
- E come, nonno?
- Con la loro poesia!
- Non capisco.
- È facile. I secoli passano. E gli uomini muoiono. È naturale! È il ciclo che fa andare avanti questa terra. Ma la poesia accorcia il passare del tempo, avvicinando ere lontane. Noi ancora ci ricordiamo di loro! Loro vivono!
- E dove?
- Nella nostra memoria!-
E negli anni il bambino imparò a trascorrere le sue ore libere tra quelle carte ingiallite e polverose, spulciando bene ogni riga, ogni pagina. Quei libri, poesie o romanzi che racchiudessero, lo crebbero, mostrandogli il mondo, e non solo il nostro, ma un'infinità di realtà e di possibili combinazioni tra terra e acqua, cielo e nubi, odori e colori. In quelle opere il bambino scorse i segreti dell'universo, di questo e di molti altri, si addentò nell'esplorazione di giungle, di oceani sterminati, di intere galassie racchiuse in una bottiglia, di antri bui in cui l'uomo perdeva il senno, lanciandolo sulla Luna per non volerlo più vedere. Lì, conobbe eroi, tanto potenti da far tremare i monti con lo sguardo o con un grido, cavalieri che inseguivano i loro amori errando e perdendosi nella selva, re che si cibavano della loro stessa curiosità, poeti in grado di riportare in vita un defunti con le loro lacrime.
E nella sua mente affiorò presto il desiderio di essere come quegli autori, di essere ricordato per l'invenzione di quei reami, incredibili, indescrivibili con poche parole, ma comunque vivi nello sguardo di chi legge.
- Nonno, posso diventare immortale pure io?
- Certo! Ma non è un cammino semplice.
- No, dici?
- Tu non preoccuparti. Non guardare quanto ripida sia la strada. Punta alla vetta! Fai del tuo meglio.
- E se fallissi?
- Non temere la sconfitta. Nel fallimento non c'è l'umiliazione, ma la gloria di aver provato. Non è da tutti affrontare la paura e fare un tentativo. Buttati, lanciati alla ricerca del tuo sogno! -
E tanto fece. Inventò i suoi mondi. Scrisse di ciò che vedeva quando chiudeva gli occhi ed errava.
Ma alla critica non piacque. Per quanto elegante potesse suonare, nelle orecchie del neonato scrittore, ogni commento diventava un insulto.
O forse sapeva solo leggere tra le righe.
- Troppo infantile!
- Irrealizzabile!
- Ma chi ti ha messo in testa queste cazzate?
- Immondo!
- E tu vorresti essere immortale? Ma non farmi ridere! Saresti un'offesa per i maestri del passato!
- Vattene!
- Rinuncia!
- Sei pedante! Impara la leggerezza!
- Chi pensi che sarebbe entusiasta di leggere storie tanto strampalate?
- Corri a piangere nell'angolino, da bravo!
- Tornatene in campagna, bifolco!
- Sei ridicolo!
- Mi fai ridere!
- Sei un'eresia per la letteratura!
- Persino i tuoi libri ti rigettano, pur essendo orrori partoriti da un'inferno in cui neppure Satana vorrebbe stare! -
Fu bastonato dai lettori e dal pubblico. Quindi si ritirò nella carriera giornalistica, adottando un falso nome e vivendo nella speranza di non essere mai riconosciuto.
E come aveva appreso da suo nonno, non rimpianse mai di aver lanciato la rete in mare. Il pescecane gliel'aveva strappata a morsi, ma lui ora aveva tra le mani un'alternativa. Era di recente stato assunto da un importante mensile. I capi redattori notarono del carattere nel suo sguardo, durante il colloquio. Credevano in lui. Credevano nelle sue capacità. Forse tanto quanto lui stesso. Tanto quanto il nonno.
Quella mattina si stava proprio recando negli uffici della rivista. Aveva programmato la sveglia per quell'ora scellerata, semplicemente perché la scadenza si avvicinava e lui ancora non era riuscito a concludere il saggio che gli era stato chiesto di produrre.
In realtà ne aveva sfornati diversi, tutti di grande fattura, incentrati su tematiche attuali e spesso dibattute sulle pagine di altri periodici o nei telegiornali. Ai caporedattori sarebbero piaciuti quelli articoli, tanto da impazzire. Ma a lui no.
Non riusciva più ad apprezzare il suo stile, la sua scrittura. Qualunque cosa sgorgasse giù da una sua penna gli creava dubbi, ansie, gli metteva tutta la mente a soqquadro con delle semplici insicurezze.
Tuttavia non si sarebbe mai tirato indietro. Era una promessa.
- Che c'è, nonno?
- Promettimelo!
- Cosa?
- Te l'ho già detto, non è una via retta, spianata fino al traguardo, quella che tu vuoi imboccare. Anzi, è impervia, ricca di insidie e trappole. Presto lo scoprirai con le tue mani, temo. Ma mi devi giurare, mi devi promettere che non ti arrenderai. Fallo!
- D'accordo, nonno. -
Quindi, in quegli ultimi due o tre giorni a sua disposizione, il giornalista stava dando fondo alla sua galleria di idee e pensieri. Giunto in ufficio si sedette alla sua scrivania e si mise a lavorare, a testa bassa. E rimase lì chino tutta la giornata. Ma non c'era verso. Non andava. Anche oggi niente da fare. Anche oggi tornò a casa deluso da se stesso.
Si posò sul letto, dopo essersi infilato il pigiama. Ed era sul punto di crollare, di cedere al sonno, di sprofondare nelle sue paure, dove i suoi peggiori incubi lo avrebbero trovato e tormentato. La mattina dopo non avrebbe ascoltato la sveglia.
Quindi si tirò su, si mise in piedi e andò, barcollante, verso la scrivania, qualche passo a destra del letto. Lì sopra, accanto alla lampada a torre, lunga e affusolata, giacevano arenati tanti, innumerevoli libri e fogli di carta, accatastati in alte pile.
Il giornalista, con lo sguardo accecato dal sonno e dal peso di una giornata interminabile, dal peso di quella scadenza, dal peso di quel primo tentativo andato in fumo, prese a buttare parole sulla carta, a macchiarla, a imbrattarla con le sue frasi. E le lettere fluivano da sole sul foglio. E una mano si muoveva da sola, avanti e indietro sul rigo, danzando assieme alla penna, mentre l'altra sfogliava quei tomi, vi rovistava alla smaniosa ricerca di qualche golosa informazione da estrapolare e sfruttare. Poi, quando qualcosa si rivelava superfluo, inutile, veniva lanciato via, dove l'occhio non riusciva più a scorgerlo, e piombava nel buio. Così facendo, senza neppure accorgersene, il giornalista aveva riarredato la stanza all'insegna del caos e del disordine, tant'è che gli parve addirittura di vedere la carta fluttuare attorno a sé, galleggiando sui suoi pensieri. I libri gli cantavano intorno, volavano, quasi come se avessero avuto le ali. Cinguettavano e tubavano, a zonzo per la camera, qualcuno sulla mensola, o sull'armadio, qualcun altro sul comodino. E al giornalista non sembrava nulla di strano. A lui i libri avevano sempre parlato.
In quel trambusto, in quel confusionario dialogare tra le idee e i fogli, il giornalista si tolse gli occhiali, con uno straccio di carta appallottolato tra le dita alzò le braccia al cielo e si mise a gridare, con i polmoni colmi di gioia. Al suo tonante urlo tutti ammutolirono e i libri, zittiti impetuosamente, si bloccarono, fermi a mezz'aria. Aveva finito. E ne era finalmente soddisfatto. Non temeva il risultato. Non più. Non ne aveva le forze. Si era adoperato con ogni sua energia. Ed era quindi disposto ad accettare il suo destino, qualunque esso fosse. Aveva lottato al meglio delle sue capacità. Ne era fiero.
- Non conta la vittoria, non quanto l'impegno! Vero, nonno? -
Tutto cadde in terra. La lampada si spense. La stanza fu abbracciata dal silenzio, avvolta nel buio. E finalmente il pover'uomo poté addormentarsi.
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