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Capitolo 5

Novembre 2020

Se si osservasse nel dettaglio la terra calpestata dalle suole che avanzano impavide verso la tua isolata casa, si potrebbe notar com'ella prenda fuoco. Si solleva la polvere, formando nuvolette ai lati delle scarpe, mentre i sassolini scricchiolano impauriti, tremando l'uno contro l'altro nella speranza di non dover sorreggere quel debole e diabolico peso. Un uomo slanciato, ma snello quanto basta per confondersi col tronco di qualche giovane pesco, cammina in una lenta marcia andando in contro alla sua preda. Gli occhi a mandorla fissano la porta d'ingresso posta sotto la grande arcata orientale, anche quando ad un solo passo da ella l'indice va a spingere il tondo pulsante del campanello. E l'uomo attende la sua preda con ferma quiete, preparando la tempesta.

La porta si apre dopo un paio di minuti, dopo aver sfidato la pazienza del giapponese, rivelando la tua bionda chioma e i grandi occhioni blu; il volto pallido di un colorito innaturale, di cui lo spilungone conosce la ragione. E tu fiati, esali un sospiro, un solo alito di sgomento prima che la porta venga chiusa con decisione e panico contro l'insidioso piede del demonio.

La lunga mano asiatica spinge contro il ruvido legno della porta e le tue spalle contrastano l'insistenza appoggiandovisi dall'altro lato. Nessuno dei due accenna ad un esordio di conversazione, il silenzio regna sovrano contornato dalla sola lotta alla sopravvivenza. Vi chiederete dunque dove un debole spilungone dalle mani sottili trovi la forza di combattere. E la risposta è immediata tanto quanto la domanda: motivazione. In quell'uomo urla la disperazione di una fame mai colmata e che solo la preda all'interno di quella casa protetta dalla vegetazione può placare. E per quanto tu provi a contrastare il desiderio del predatore, sai che se sei stata trovata è perché hai lasciato dietro di te briciole affinché ciò avvenisse. Così, quando lo spilungone riesce a spalancare la porta e a farti indietreggiare a mento alto e narici dilatate, nessuno dei due si mostra realmente sorpreso di tale incontro... se non fosse che tu non ti aspettassi quel volto tra tutti.

"Non sei reale." Affermi scuotendo la testa, esibendo un cenno di timore, un fremito che scuote il tuo corpo da capo a piedi. "Ti ho visto morire." prosegui, forse per autoconvincertene, ma tu stessa sai che c'è una differenza ancora tangibile tra un'allucinazione ed un uomo in ossa e carne, anche se la follia negli anni ha cominciato a divorarti.
"Mi hai visto tu stessa?" finalmente rivela la sua calda voce, sottile come quella di un viscido serpente. Si insinua nella tua mente con pungente malinconia, rammentandoti momenti passati di cui tutt'ora provi rancore. "Sei crollato a terra con un coltello nel petto." abbai tu con disgusto.
"Mi hai visto crollare con un coltello nel petto, dunque."
"Hanno detto ch'eri morto."
"Oh, ora te l'hanno detto?" domanda inarcando le nere sopracciglia, puntandoti un lungo dito contro a mo' d'ammonizione. Non è che creda tu stia mentendo, tutt'altro ti conosce come conosce le sue tasche, ma sa quanto testarda tu sia e quanto sia in grado di convincerti dell'impossibile, soprattutto se mossa dalla paura. Perché il predatore sa bene che la preda si è isolata col desiderio d'esser trovata, ma sa ch'ella mai avrebbe immaginato di incontrare un fantasma. "Non mi avevi visto?" insiste lo spilungone, ricevendo in tutta risposta la candida visione di una bianca gola che manda giù l'amaro boccone e un sommesso sussurro. "Ne sono certa."

L'uomo deduce dunque che finalmente ti fidi di qualcuno oltre il tuo miglior amico Josh o che chiunque ti avesse dato quell'informazione sarebbe stato degno di fiducia, purché la notizia potesse rincuorarti. E la sua morte, la morte del suo incubo peggiore, soddisfaceva a sufficienza la richiesta. "Di chi ti fidi tanto?"
"Sōsuke." un nome che non era certo di sentirti pronunciare, il nome di un traditore, di un ragazzino viziato che muove i pedoni a suo piacimento senza il consenso di suo zio. Tale risposta causa un'incontrollabile ilarità nello spilungone, tanto da formare un ghigno sul suo volto ed emettere una vibrante risata tra i denti perfetti. "Sōsuke. Oh sì, ho sempre saputo ci fosse intesa tra voi due. Lui si farebbe calpestare da te. Ma a volte l'amore non è quel sentimento candido e romantico che sembra. A volte è ossessione... e l'ossessione non basta, non è affidabile. Se farebbe di tutto per averti, farebbe di tutto anche per distruggerti. E sappiamo entrambi che tu non sarai mai sua. Distruggerti sarà l'ultima sponda di disperazione."
"Devi andarne molto orgoglioso."
"Trovi mi somigli?"
"Se non può avermi, vuole distruggermi."
"Ma io non voglio distruggerti, non ne ho bisogno a differenza sua." la convinzione che trasuda Gonshiro, riesce a farti indietreggiare di un solo passo. Non è una scelta razionale la tua, nessun comando è partito dal cervello, piuttosto è una carenza improvvisa d'equilibrio, molto simile a quella subìta in vetta alla montagna di cadaveri che avevi scoperto all'interno del tuo inconscio; una sorta di spintone che ti costringe a piazzare un piede dietro di te per non cadere sulle natiche come una poppante. Sei determinata a non dar soddisfazione a quell'allucinazione e a ritrovar lucidità. Così di nuovo sussurri un piccolo mantra, con la speranza di farlo scomparire da lì. 

"Tu non puoi essere vivo." ma a quell'ennesima ripetizione, l'uomo conclude i tuoi sforzi, ponendo fine all'ostinata illusione con un semplice gesto: sfila la mano destra dalla tasca del pantalone in velluto scuro e la fa scontrare con violenta decisione sulla tua guancia, lasciandoti un segno che va man mano arrossandosi. Non esibisci dolore, né indietreggi un passo, ma i tuoi occhi spalancati rivelano più di quanto vorrebbero. "Questo ti sembra abbastanza vivo?" chiede con crudele sarcasmo, riponendo la carnosa arma nella sua fodera.

Rilassato e a suo agio in quell'ambiente che ormai sembra casa tua tanto quanto casa sua, Gonshiro Yokumura muove i primi passi indisturbati come se ne fosse il padrone, osservando attorno a sé ogni orientale dettaglio. Classica dimora giapponese, un tempio per il corpo e per lo spirito, ricolmo ancor di tradizioni seppur situato in un piccolo angolo di paradiso nello stato di New York. Una tana, in cui regna ordine e disciplina a giudicare dalle scarpe ben riposte in fila dinanzi all'entrata. Così gli occhi di Gonshiro scorrono lungo il pavimento legnoso fino a raggiungere i tuoi piedi nudi. Di conseguenza si sollevano sulle gambe coperte da una morbida gonna nera, lasciando all'intuito e all'immaginazione ciò che vi si potrebbe trovare al di sotto. Se Gonshiro ti conosce bene - e così è - allora è quasi certo che tu nasconda dei kunai sotto la debole stoffa.

"Non sei l'unica alla quale hanno mentito, se ti consola. A me dissero che t'eri allontanata dall'oriente, che non volevi averci nulla a che vedere. A giudicare dalla tua dimora direi che hanno preso un bel granchio."
"Nessuno sa dove vivo" ti affretti a precisare, come se la tua affermazione contrastasse il significato delle parole di Gonshiro.
"Io lo so." risponde dunque, assecondando l'argomento da te aperto. "Sōsukesa. Ma forse questo il tuo fidato Sōsukenon te l'ha detto. Come pensi che t'abbia trovata?"
"Seguendo l'odore come un cane randagio?"
Divertente, pensa Gonshiro mentre il ghigno sul suo serpentino viso si accentua e, ancora una volta, il giapponese si trova ad assecondare il tuo cambio di rotta. Non gli reca nemmeno fastidio, lui è felice di parlare di qualunque punto debole tu stia scoprendo, convinta di poterti ancora nascondere dinanzi a colui che meglio conosce i tuoi istinti. "Più briciole che odore. Sei tu ad aver lasciato delle tracce da seguire, figlia mia."
"Non chiamarmi in quel modo." infastidito da quell'imperativo sibilato, Gonshiro storce il ghigno in una smorfia, fingendosi terribilmente ferito. Entrambi ne conoscete l'ironia, ma tu sembri non volerne sapere. Continui dunque imperterrita a cambiare il focus della conversazione altrove, senza mai rispondere alle sue provocazioni ma recando lui, in questo modo, ancor più soddisfazione. "Cosa vuoi da me?" domandi con mano tesa, una mano che Gonshiro sa dov'è diretta. "Non ho più nulla da offrirti. Siamo pari, no?!"
"Non sono qui per pareggiare conti."
"Allora vattene."

Ma non è sufficiente imporre quel volere. Gonshiro, che fino a pochi istanti prima aveva studiato ogni centimetro della stanza, torna a guardarti dritta negli occhi per non perdersi la reazione alla sua richiesta. "Sono qui per vedere mia nipote."

Il gelo ti paralizza in un istante. Un fulmine a ciel sereno che ti colpisce in pieno, portando i tuoi muscoli a irrigidirsi. Non vuoi credere alle tue orecchie; è tornato per lei? Ti sembra di vivere un dejà vu. Ma sebbene tale frase riesca a congelare la tua mano e bloccare quel fremito di tensione in prospettiva della prossima mossa, metti in scena una credibile farsa a cui Gonshiro però non sarebbe mai cascato. "L'hai uccisa tu stesso tre anni fa. Non te l'hanno detto?"
"So che ti sei impegnata a rimpiazzarla." Un insulto tremendo a cui sai che lui nemmeno crede, ma volto senza dubbio al provocare una tua reazione, scalfire la tua fredda armatura. Non ti sembra vero, ma non ti tradisce e mantieni il gelo finché puoi dinanzi alla minaccia. "Merito di incontrarla."
"I tuoi informatori sono peggiori dei miei. Non posso avere figli da quando ho abortito."
"Come ti ho detto... non sono qui per pareggiare conti. Io ho pugnalato te, tu hai indirettamente pugnalato me ed entrambi siamo vivi. Se devo essere proprio onesto, forse sono io ad essere in debito. Ma confido nell'amore di mia figlia. Non mi faresti del male, non ne hai le forze. Nana, mia nipote, non avrà nemmeno il privilegio di toccare un mio dito. Non voglio ferirla."
Conosce il suo nome ed è dunque chiaro ormai che conosca anche ciò di cui parla. Non puoi far altro che gettar la maschera e difender con le unghie e con i denti la tua unica erede. "E che ci vuoi fare? È una bambina... puoi vederne ovunque, sono tutte uguali."
"Voglio solo vederla." una replica rapida, istantanea, così immediata da spiazzarti seppur non abbastanza da farti cedere.
"Dovrai passare sul mio cadavere."
"È un invito?"

In quell'esatto momento la mano reagisce; sollevata la gonna, le dita si insinuano nei manici ad anello dei kunai bianchi e uno di essi si conficca nel muro, sfiorando la tempia di Gonshiro ma senza scalfirlo. In fin dei conti, lui ha ragione: non possiedi la forza di ucciderlo e sai anche che il sentimento non è ricambiato, nonostante l'apparente calma del patrigno. "Siamo sentimentali, vedo." afferma lui prendendo in giro il tuo gesto e, ancor di più, i bianchi kunai che hai gelosamente conservato da quando te li ha regalati. Ed è nel silenzio che lo spilungone reagisce, scagliandosi contro di te con una mano posta in avanti, afferrando la tua mandibola e stringendolo con forza tra le dita, mentre i passi lo conducono con violenza a scontrarsi con il pezzo di mobilio alle tue spalle. Un gemito di dolore graffia le labbra del giapponese, ora ad un soffio dalle tue, quando i tuoi fianchi accusano il colpo e la schiena si tende verso il muro costretta dalla spinta. "Ti ho vista scavare nel petto dilaniato di un uomo, Vasilisa. È quello il più vivido ricordo che ho di te, prima che dessi inizio a questa ridicola caccia. E rammento i tuoi occhi affamati e crudeli, figlia mia, li sogno ogni notte. Credi d'esser migliore di me? Il tuo posto è all'inferno, mia cara, al mio fianco ma fino a quel momento sei destinata alla Yakuza e a nessun altro. Non sei diversa da dieci anni fa; l'oriente, la terra che tanto rinneghi, ti abbraccia e se non lo facessi anche tu saresti già morta. Ma lo fai." la mano sinistra, quella libera, scivola come una letale serpe fin sotto la gonna, trovando riposo sulle lame disposte nel cinturino. Non ti priva delle tue armi, ma le contempla con gusto prima di proseguire in un intimidatorio sussurro. "Oh, tu lo fai costantemente, nascondendo i miei kunai, il mio ricordo, sotto le tue vesti. Chiamando tua figlia col nome più giapponese che ricordi. Riavvicinandoti a Sōsuke e al suo maniacale amore per te. Perché riesci a vederci me. Perché vuoi vederci me, anche se conosci i pericoli."
"Potresti rimanere deluso dal mio avvicinamento a Sōsuke."
Ammetti stupidamente, forse perché tanto è il desiderio di non deludere il caro patrigno, che sei disposta a scavarti la fossa. E te ne rende conto, ma quand'è ormai troppo tardi. "Non ho più bisogno di te, né di una famiglia."
"Fossi in te chiuderei quella bocca. Più neghi e più confermi. Ma ammetto che Joshua sia un ragazzo promettente. Dovresti portarlo in Giappone con te, lui lo vorrebbe." a questo punto non c'è più dubbio su quanti passi sia avanti Gonshiro, ancora una volta. Sa più di quanto tu potresti sapere sulla tua stessa vita, poiché lui ascolta... ascolta in quella tempestosa quiete che si porta dietro ogni singolo movimento delle sue pedine. E tra esse non vi è solo la sua figliastra, ma anche i suoi alleati, persino il suo amico di sempre. "Sai che ha contatti con Sakamoto? Cosa credevi? Che avesse trovato l'amore? No, quel che ha trovato è la speranza: spera tu entri in patti con noi, purché ciò ti riporti ad essere te stessa, purché tu possa tornare ad esser la kitsune bianca di cui divenne amico anni fa, quand'eri fresca d'oriente, dei miei insegnamenti, della tua vera identità." Ma tu questo non lo sapevi e, in effetti, è ben più comprensibile come spiegazione di quella ipotizzata da Matt. Joshua non ha mai espresso i suoi desideri ad alta voce. Non ne ha avuto coraggio, sebbene ne avesse accennato qualcosa, e adesso sai perché. "A quanto pare sono l'unico a non mentirti."

E così è sempre stato. Mai Gonshiro ha osato omettere, mai sono state incerte le sue intenzioni, forse perché sa che lo conosci troppo bene e che mentire non sarebbe saggio, ti farebbe perder la fiducia. Ma non hai ricordo - e questo glielo devi riconoscere - di una sua bugia. I suoi occhi soltanto, parlano più di quanto fanno le sue labbra. Persino ora, sebbene tu abbia insistito per sapere cosa volesse in casa tua, conosci la ragione della sua visita. Difatti azzardi, avanzi tu in difesa rispondendo ad un'inespressa richiesta.

"Non ci torno in Giappone. Sprechi il tuo tempo."
Il sorriso sul suo volto è ora fin troppo evidente, largo e scuro come quello di una creatura dell'orrore. Non servirebbe neanche tornarsene in Giappone: è come se ci fossi già.
"Cielo, se mi sei mancata." Risponde in un sospiro sognante. E glielo leggi negli occhi, non mente nemmeno in questo momento. Non lo ammetterai, ma a te mancava lui, mancava quel suo tono di voce, quello sguardo innamorato e malato che hai rivisto solo in Sōsuke e in nessun altro. Gonshiro indietreggia, ti concede dello spazio tornando ad ambientarsi e mescolarsi all'arredamento della casa: quel tocco orientale gli dona. "Si vocifera ancora di noi. Dovresti sentire cosa dicono: ti temono."

Ti temono. Sentirglielo dire ha un effetto molto intenso sul tuo corpo, colto da brividi piacevoli ti spinge verso i ricordi di un passato dal quale sei sempre scappata a fatica, solo perché è la cosa giusta. "Mi dispiace." Ti dispiace davvero. "Non accadrà. Tanta strada per niente, posso offrirti qualcosa da bere, ma poi dovrai andartene."
"Non farmi arrivare a tanto." La minaccia di chi non prende bene i rifiuti. A cosa non vuole arrivare? Qual è il suo piano B? "Tu sai cosa accadrebbe se dovessi intestardirmi. Sai chi colpirei. E sai potrei arrivarci."
"Dovresti andare avanti. Trovati un'altra kitsune con cui giocare."
"Non esiste! TU! Tu sei la mia kitsune! Fattelo entrare in testa, sei nata per incontrare me, sei nata per vivere al mio fianco. E tua figlia, quel piccolo miracolo del cielo che neanche i dottori credevano possibile, lei... lei è nata per lo stesso motivo."
"Lei non appartiene a te." Puntualizzi con zelo, fulminandolo con lo sguardo. Gonshiro, però, non si sofferma su ciò che dici e piuttosto risponde a ciò che trattieni in un angolo della tua mente. Legger tra le righe è facile per lui, non a caso hai sempre affermato quanto fosse stato accurato il suo lavoro di manipolazione su di te. Ad oggi, ad anni di distanza, riesce a ridere ancora di ciò che non dici.

"Ma su di te non neghi." Suppone dunque mantenendo il sorriso, per poi proseguire in un ultimatum e incamminarsi verso l'uscita. "Facciamo così: ti concedo del tempo per riflettere, ma ora che mi neghi mia nipote la posta in palio sale. Partirai. Tu e Nana, partirete e tornerete a casa, a Tokyo, tra gli Yokumura. Passerò domani, che tu sia pronta o no, mi aspetto una risposta." E con la stessa padronanza della scena, afferra il kunai conficcato al muro per intascarselo. Un simbolo, la privazione di quello che per te ha l'aspetto di un semplice gioco, un gioco che lui stesso ti aveva donato. "Questo lo prendo io; un piccolo pegno."

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