Capitolo 7 - Darlene Goodwinn



3 Febbraio, 1963

«E' la verità!».

Il puzzo misto tra sigaretta e sudore aveva impregnato la piccola stanzetta dove Darlene Goodwinn era stata fatta accomodare per essere interrogata dagli agenti.

«Signora Goodwinn, si calmi. Per favore» la intimò l'agente Loid. Il suo fisico asciutto e spigoloso nascondeva malamente le numerose botte inflittele dal marito e dalle quali non aveva il coraggio di scappare. Tremava, gli occhi infossati dalla stanchezza e dalle lacrime che senza fatica le bagnavano costantemente il volto. Si accese un'altra sigaretta.

«Io sono calma, agente. Ma non ho altro da dirle» disse espirando un alito di fumo. Tremava. Loid era evidentemente esausto ma non demorse, aveva bisogno di risposte e i coniugi Goodwinn erano gli unici a poter fornire le informazioni che servivano per poter scovare quell'uomo.

«Va bene. Le credo» disse Loid tentando di calmarla. «Ha bisogno di acqua?» le chiese. La donna fece cenno di si col capo mentre il suo sguardo cercava di non confondersi con quello del suo inquisitore. La signora Goodwinn non sapeva nulla riguardo al caso, era stata solo fortunata a svegliarsi non appena la figlia ebbe varcato la porta di casa dando l'allarme in tempo, ma nulla vide di quell'uomo. Né come fosse fatto, né che auto possedesse, né chi stesse insieme a lui. Nulla. Il terrore della donna celava solo le continue vessazioni del marito che non sarebbero dovute trapelare. Lei aveva bisogno di quell'uomo tanto quanto quell'uomo avesse bisogno di punirla per ogni suo errore. Se qualcosa fosse uscito fuori se la sarebbe vista brutta e di certo non sarebbe stata la prima volta.

Loid tornò col bicchiere d'acqua mentre Darlene aveva terminato di aspirare un'altra sigaretta, come se fosse ossigeno dal quale dipendere per la propria sopravvivenza. «Allora, ricominciamo. Con calma. Non ho alcuna intenzione di farle del male, Signora. Il mio obiettivo è quello di aiutare lei e sua figlia. Ma se lei non mi fornisce le informazioni che ci servono, io non posso aiutarla. Lo capisce?» disse l'agente. Darlene fece di nuovo cenno con la testa, ma non si era ancora convinta a voler parlare.

«Bene. Perché lei e Jvonne vi siete addormentate sul divano? Perché non siete andate in camera?» chiese l'agente. Fece, però, una domanda un po' fuori dagli schemi, come se conoscesse già la storia e stesse cercando di portare la donna a parlare – a confessare – della situazione coniugale.

«Io e Jvonne avevamo deciso di guardare un po' di TV prima di andare a dormire» rispose. Una risposta alquanto ovvia, infatti. «Quindi ci siamo addormentate senza rendercene conto» aggiunse facendo cadere i residui della sigaretta nel posacenere in vetro.

Loid sembrava con le spalle al muro, perciò decise di concentrarsi sulla bambina ponendo le domande inerenti al caso, magari Darlene si sarebbe tradita da sola. O almeno, questo era ciò che Loid si aspettava che facesse.

«Quando ha chiamato la polizia?» domandò con tono piatto.

«Avevo iniziato a sentire freddo e ho aperto gli occhi. Mi sono accorta che Jvonne non era più insieme a me...» iniziò a raccontare con le parole spezzate dal pianto, ma resistette, si sforzò per non versare alcuna lacrima. «L'ho chiamata ad alta voce, avevo ancora la vista annebbiata dal sonno, ma non appena ho notato la porta di casa aperta sono corsa in strada ma non ho visto nessuno. Credevo che se ne fosse andata da tempo e, così, ho pensato di chiamare il 911» concluse con aria colpevole mentre tirava su col naso.

«E suo marito dov'era?» la voce dell'agente si fece più dura.

«Lui dormiva in camera da letto, al piano di sopra. Non ha sentito nulla, ha un sonno molto pesante quindi lui non c'entra» tagliò corto Darlene come per difendersi anticipatamente dalle eventuali accuse che l'agente avrebbe potuto muovere contro l'uomo della sua vita.

«L'ha visto in faccia?» domandò l'altro agente presente nella stanza che fino a quel momento era rimasto in silenzio, poggiato con la spalla nell'angolo al buio.

«Chi?» chiese Darlene spaesata.

«Il rapitore!! Chi se no?!» ironizzò l'agente con atteggiamento sprezzante.

La donna lo guardò di sottecchi, non le era piaciuto il tono con il quale l'uomo si era rivolta a lei. "Solo mio marito ha il diritto di farlo" pensò in silenzio e con occhi bassi, come se fosse consapevole del fatto che questo non era del tutto lecito. «No. Non ho visto nessuno» aggiunse poi con fare deciso picchiettando il mozzicone della Winston rossa nell'apposito recipiente.

«Le ho già detto che non mi sono per nulla affacciata in giardino. Credevo che mia figlia se ne fosse andata da un pezzo. Non ho ritenuto necessario farlo!» il suo tono di voce iniziò ad alzarsi e a diventare più insistente e meno controllato. Era evidentemente a disagio e non voleva più restare lì dentro. I denti stretti, gli occhi stanchi ma irritati e il cuore che aveva preso a martellarle nel petto con una violenza estenuante. Era così forte che pareva quasi che i due agenti presenti in camera con lei potessero sentirlo pompare sangue più del dovuto. 

Loid la guardò, aveva cambiato colore in volto, Darlene era diventata pallida, rigida e sembrava stesse trattenendo il respiro. L'agente prese ad alzarsi, con calma, qualcosa stava andando storto, qualcosa stava per accadere. Darlene mise le mani magre e deboli sul tavolo, fece forza per alzarsi ma non appena ebbe dato la spinta per sollevarsi dalla sedia, svenne. L'agente nell'angolo la prese al volo prima che potesse sbattere la testa sul pavimento mentre Loid, in preda al panico, si lanciò fuori dalla sala per poter chiedere aiuto e chiamare i soccorsi prima che fosse troppo tardi.

L'agente, rimasto insieme a Darlene, le mise la sua giacca sotto la testa per farla stare più comoda mentre tentò di rammentare le prime manovre del pronto soccorso. La posizionò e le alzò la testa per liberarle le vie aeree; decise poi di aprirle la camicetta per evitare che qualcosa le comprimesse il petto per iniziare a fare il massaggio cardiaco, prima che fosse troppo tardi. Iniziò a sbottonarle la blusa celestina ma, arrivato al quarto bottoncino bianco, notò un evidente livido sul petto, probabilmente la causa del malessere della Signora Goodwinn. Tentò di comprimerle la cassa toracica, ma non appena prese a contare, decise di fermarsi. Aveva paura, quasi terrore, nel poterle infliggere ancora dolore mentre cercava di aiutarla a respirare. 

L'ematoma era più grande di un melograno e per una donna con il fisico di Darlene era troppo grave; pareva che la botta avesse compromesso anche qualcuno degli organi interni. Una contusione che era stata provocata da un tiro troppo forte, ma dato con una energia tale da poter accusare il colpo solo un paio d'ore più tardi dall'accaduto. L'agente non sapeva cosa fare, pareva proprio che la giovane gli stesse morendo tra le mani. Pareva che Darlene Goodwinn stesse esalando l'ultimo respiro. 

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