Capitolo 12 - Il piano


12 Febbraio, 1962


«Entra» disse.

La fissava con uno sguardo severo aspettando una reazione. Lei alzò il viso ma non riuscì a distinguere nulla se non una piccola scintilla luminosa all'interno di quegli occhi troppo scuri da confondersi con il soffitto buio. Non ottenne risposta. Di conseguenza, la sua mascella si contrasse e i denti presero a digrignare emettendo un rumore stridulo che fece eco nella cavità orale: sembravano quasi sul punto di frantumarsi.

Poi, attese ancora.

Le pupille di lei erano vuote, ingrigite dalla paura. Smise di fissare quell'essere negli occhi per guardare ciò che le si palesava davanti. Quella porzione di spazio assomigliava tanto a una cella – ad una gabbia per l'esattezza –, delimitata da grate in ferro, sudicia e stretta al punto tale da contenere una brandina fatiscente e un secchio arrugginito nell'angolo. Era poco illuminata e la flebile luce proveniva da una lampada alimentata ad olio appesa al soffitto poco più avanti, così lontana da mettere in penombra il resto del magazzino.

In piedi sull'uscio di quella che stava per diventare la sua triste casa per i mesi a venire, l'assalì un senso di terrore che, mischiato alla temperatura gelida dell'inverno, la costrinse a tremare. Lacrime innocenti presero a colarle sulle guance sporche di terra lasciando, al loro passaggio, una scia calda e dolciastra alla quale avrebbe dovuto fare presto l'abitudine.

«Non farmelo ripetere» insistette la figura accanto a lei. Flora avanzò, a piccoli passetti. Avrebbe voluto urlare, scappare via da li, fuggire a gambe levate gridando a squarciagola il nome della sua mamma con la speranza che qualcuno potesse sentirla e salvarla. Ma nulla di tutto questo accadde. Infatti, non appena ebbe varcato la soglia di quella galera oscura, l'imposta in ferro si serrò dietro di lei, mentre i suoi capelli castani si mossero sotto l'alito di vento generato dal rapido movimento della porta. Rimase immobile, le palpebre asserragliate: non voleva vedere un particolare di più del luogo in cui si trovava, era atterrita e non ricordava nemmeno in che modo era arrivata in quel posto spaventoso.

Le sue piccole braccine nude erano strette intorno al corpo, sentiva freddo e i piedi scalzi sul pavimento umido e gelido erano poco d'aiuto. In lontananza, improvvisamente, sentì un tonfo sordo e trasalì, non sapeva cos'altro aspettarsi. Restò in silenzio per cercare di capire cosa stesse succedendo intorno a lei e si obbligò anche a smettere di tremare, il rumore dei denti le monopolizzava le orecchie. Per fortuna, nei secondi successivi non udì nessun altro rumore e il forte boato di qualche minuto prima le fece capire che qualcuno, probabilmente, era uscito da quel magazzino cadente, lasciandola sola nel cuore della notte.

Flora si voltò e si sedette su quello che all'apparenza doveva essere un materasso usato, probabilmente raccattato da qualche cassonetto della spazzatura. Emanava un odore nauseante, uno di quelli che si attaccano alle pareti dello stomaco e non se ne staccano più, nemmeno ingurgitando dell'acido. Quel che rimaneva del tessuto, al tatto, era ruvido e sembrava quasi bagnato, presumibilmente dovuto all'aria umida che permeava tra le celle. La piccola, ancora in preda alle lacrime, si guardò intorno ma niente le ricordava casa. Non aveva alcun punto di riferimento, non vi era alcun oggetto che le trasmettesse tranquillità. Temeva che, da un momento all'altro, qualcosa non sarebbe andata per il verso giusto o che qualcuno avesse potuto farle del male.

Le viscere si erano immobilizzate nel suo piccolo ventre e la pesante contrazione, dovuta alla paura e all'agitazione, le causò un forte dolore alla pancia. Si piegò dallo spasimo e strizzò nuovamente gli occhi, quelle dannate fitte erano lancinanti. Si accasciò sul letto e, in posizione fetale, cadde in un sonno profondo e raccapricciante.

***

«Pss...» un bisbiglio echeggiò nel buio.

«Pss...» ancora un altro, ma senza risposta.

«Ehi, sto parlando con te!» il tono di quella voce senza un apparente proprietario si fece più alta. Flora dormiva ancora e si agitava sulla sua brandina. Il senso di freddo e le vicende delle ultime ore, quasi sicuramente, la portarono a fare sogni orribili, tetri e inquietanti. Ma, arrivata nel luogo più spaventoso della sua mente, il bisbiglio di quella voce la trascinò fuori da quell'incubo. La prese per le caviglie e, di peso, la scaraventò nella realtà facendole sbattere il naso per terra. La piccola aprì gli occhi e si ritrovò con la faccia sul pavimento e una forte fitta, in prossimità del dorso nasale, iniziò a pulsare. Si sedette con le spalle poggiate al materiale freddo della brandina, si portò entrambe le mani al piccolo nasino, come per difenderlo da altri attacchi e sentì colare uno strano liquido fino a sotto il mento. Sapeva di ferro, un sapore metallico che altre volte le era capitato sentire. Spostò le mani e si guardò i palmi ormai intrisi di sangue ma non si spaventò. Tante altre volte era caduta dalla sua bicicletta bianca e rosa sbucciandosi le ginocchia o i gomiti e, puntualmente, aveva sempre avuto la prontezza di rialzarsi, strofinarsi le ferite e, in men che non si dica, tornare sulla sella di quel bellissimo regalo per sfrecciare da una parte all'altra del vialetto.

In quell'istante fece esattamente lo stesso: si passò le manine sporche sui pantaloni scuri della tuta e col dorso della mano destra cercò, poi, di ripulire al meglio il suo viso. Ma, così facendo, ottenne un risultato esattamente opposto a quello sperato.

«Pss...» si sentì, «Ti sei fatta male?» chiese ancora quella voce proveniente dal buio. Flora interruppe ciò che stava facendo e iniziò a fissare l'oscurità dalla quale proveniva quel verso. Socchiuse gli occhi, come per ripulirli dalla luce fioca della lampada e, pian piano, le sue pupille iniziarono ad abituarsi alla mancanza di luminosità. Dalla cella di fronte alla sua, una sagoma scura stava agitando le braccia per attirare la sua attenzione e, quando i suoi occhi riuscirono a distinguere i contorni, la vide.

Una ragazzina dai castani occhi grandi, poco più matura di lei, aveva preso forma nell'altro cubicolo. Era seduta nell'angolo vicino alla porta della sua gabbia con il viso rivolto verso Flora. Il suo esile corpo ormai tradiva anni di prigionia e pasti scadenti, sporca e con uno sguardo che agognava silenziosamente la libertà ormai troppo lontana.

«Chi... Chi sei?» chiese Flora con voce tremolante. La ragazzina dall'altro lato della parete abbassò lo sguardo e sorrise: per un attimo temette di averlo dimenticato. Poi, tornò a fissare la piccola che, non avendo ancora avuto risposta, chiese allora: «Che ci fai qui?». L'altra sospirò. Per tutti quegli anni era esattamente la domanda che si era ripetuta costantemente e alla quale non aveva mai trovato una degna risposta.

«Sei una bambina molto sveglia, vero?» chiese alla fine la sua interlocutrice. Flora non capiva perché non avesse ancora risposto alle sue domande e, dal canto suo, decise di non dire un'altra parola finché non avesse ottenuto le sue risposte. La giovane, dall'altro lato della stanza, comprese l'atteggiamento di rivalsa della sua piccola amica e così confessò: «E va bene» fece una pausa. «Mi chiamo Paula Brenson. Non so cosa ci faccio qui» concluse. Ciascuna parola pareva più inquietante di quella pronunciata precedentemente.

Flora sbarrò gli occhi e non poté credere alle sue orecchie. Per anni i suoi genitori l'avevano messa al corrente di questa storia ma fino a quel momento non aveva voluto crederci, pensava semplicemente fossero tante leggende nate dalla fantasia degli adulti per tenere buoni i bambini. Non poté credere che Paula Brenson, la ragazzina scomparsa esattamente cinque anni prima, fosse lì di fronte a lei, viva e vegeta. Ma, se da un lato questa notizia l'aveva rincuorata, dall'altro prese maggior consapevolezza del fatto che, in qualsiasi modo lei avesse tentato, non sarebbe mai stata in grado di fuggire da quel posto.

I suoi occhi si appannarono per le lacrime che, ancora una volta, iniziarono a colarle sul volto. Tirò su col naso e si costrinse a reagire: non voleva già darsi per vinta. Avrebbe tentato di tornare a casa con qualsiasi mezzo a sua disposizione e, ancora una volta, chiese: «Non hai mai provato a scappare?» aveva bisogno di idee per evadere. Il sorriso di Paula si fece più grande, tanto da coprirle buona parte del viso, pareva quasi divertita: «Certo!» disse poi con un tono troppo alto, al punto tale che le parole rimbalzarono sulle spoglie pareti olivastre. In fine, aggiunse: «In cinque anni, ogni giorno sarebbe stato un giorno giusto per scappare, ma per quanto io ci abbia provato, non sono mai riuscita ad andare oltre la staccionata qui fuori» terminò con la voce tradita dalla delusione indicando con il dito indice la direzione dell'uscita. Poi, sussurrò qualcosa di poco comprensibile, sembrava vaneggiare, come se parlasse con qualcuno all'interno di quella maledetta cella e, quando ebbe terminato, finì col fissare la piccola di fronte a lei. Flora si sentì a disagio: quegli occhi spenti della sua inaspettata coinquilina, che era costretta a guardare, la inquietavano.

«Vuoi andare via da qui?» chiese la più grande. Flora non sapeva cosa avrebbe comportato dare una risposta a quella domanda ma la sua voglia di tornare a casa prevalse e la spinse ad annuire con la testa senza proferire alcuna parola. «Bene» aggiunse Paula. La bambina sentì il cuore salirle in gola, ebbe la sensazione che a breve lo avrebbe potuto vomitare sul pavimento.

«Avvicinati» la invitò la ragazza, «Così tispiego cosa devi fare».

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