Prologo
‼️Se non l'avete fatto, leggete la premessa‼️
San Diego, California, 9 agosto 2012
Amavo l'estate di San Diego. Amavo le spiagge bianche e infinite, l'oceano che rifletteva il blu del cielo e le conchiglie cosparse lungo il litorale.
Ma, più di ogni altra cosa, amavo sfidare Danny a una gara di castelli di sabbia. Era la mia specialità. Avevo sempre avuto una passione smisurata per tutto ciò che si poteva costruire e demolire, e già all'età di dodici anni sapevo che sarei diventata un architetto, da grande.
O, meglio, credevo di sapere.
Vincevo ogni gara, complice il fatto che mio fratello detestava sporcarsi le mani e aveva un pessimo senso pratico. Forse era per questo che mi divertivo così tanto. Almeno, finché un'onda non divorava la mia creazione e la mia vittoria non diventava nulla.
L'ho sempre trovata affascinante, la fragilità che unisce i singoli granelli in una figura compatta. Un filo sottile che si spezza alla minima vibrazione.
Osservavo quasi incantata il mare che sfondava le pareti del castello e lo trascinava via con sé, lasciando solo un mucchio di sabbia bagnata e alghe verdi.
I castelli di sabbia sono destinati a crollare, riflettevo. È inevitabile.
Quello che non avrei mai immaginato era che anche la mia vita fosse come un castello di sabbia.
Fragile. Destinata a sbriciolarsi.
Non avrei mai immaginato che uno tsunami di potenza devastante mi avrebbe rovinato l'esistenza.
Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui quell'onda anomala mi ha travolta, riducendomi in polvere. Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui è andato tutto a puttane.
Era l'ora di cena. Io e Danny stavamo litigando per accaparrarci le ultime patatine fritte nel piatto, mentre papà seguiva una partita di tennis dalla TV e mamma leggeva le ultime notizie sul suo cellulare preistorico.
Normalità.
Un'altra parola da aggiungere alla lista delle cose più friabili e mutevoli dell'universo.
Non ci prestai molta attenzione, quando il telefono fisso cominciò a suonare e papà si alzò per andare a rispondere, dopo varie imprecazioni che si illudeva non avessimo sentito. Io e Danny eravamo due spugne per le parolacce.
Allungai la mano per afferrare un'altra patatina, ma mio fratello la spinse via. Fu più veloce di me e svuotò il piatto, riempiendosi la bocca.
«Danny!» urlai, infastidita dal suo comportamento. Aveva dieci anni ma si comportava come se ne avesse avuti la metà. «Mamma, digli qualcosa!»
Lei spostò gli occhi dallo schermo del telefono a noi due. Le sue iridi erano di un bel verde scuro, come le foglie del cespuglio di more che avevamo in giardino. Quando assottigliava lo sguardo, però, mi spaventavano sempre.
«Smettetela, ragazzi. Siete grandi, ormai» ricominciò con la solita predica. «May, fa' da esempio per tuo fratello.»
«Ma lui...»
Mi lanciò uno sguardo ammonitore e capii che sarebbe stato meglio tacere. Danny non riuscì a soffocare un risolino e la mamma dedicò una delle sue occhiate letali anche a lui, troncando il suo divertimento. Sorrisi compiaciuta, tra me e me: una piccola soddisfazione.
«Porca puttana, Ronald, che cazzo significa che stanno arrivando?» sentii papà sbraitare dalla stanza accanto.
Io e Danny ci guardammo confusi, pensando alla stessa cosa. Papà non gridava mai in quel modo arrabbiato e, soprattutto, non osava mai dire parole del genere ad alta voce, non in nostra presenza.
Spostai l'attenzione da mio fratello a mia madre, aspettandomi di trovare un'espressione furiosa sul suo volto.
Mi sbagliavo. Improvvisamente, i suoi lineamenti delicati si erano increspati in una smorfia di puro terrore.
«Stanno arrivando» ripeté sotto voce le parole di papà, come a volerne capire il significato. Poi sgranò le palpebre. «No, no, no...»
Si alzò di scatto, facendo stridere le gambe della sedia sul parquet. Ci rimproverava ogni volta che eravamo noi a farlo, ma adesso sembrava non importarle più del pavimento.
Nello stesso istante, papà tornò in soggiorno. Aveva la stessa espressione della mamma, con gli occhi cerulei che avevano assunto una sfumatura di azzurro così scura da sembrare nera.
«Lauren,» la chiamò, imprigionando le sue spalle sottili tra le dita, «nascondili e prendi la pistola.»
Pistola?
«Mi avevi detto che ci sarebbe stato più tempo. Che non ci avrebbero trovati» ribatté lei, la voce che si infranse sull'ultima sillaba.
«Qualcuno ci ha traditi. Tra poco saranno qui. Porta i ragazzi di sopra.»
Una lacrima graffiò la guancia della mamma. «Promettimi che andrà tutto bene.»
Papà non lo promise, ma la baciò e le mormorò un ti amo. Un secondo dopo ci lasciò, dirigendosi verso il suo studio.
Nostra madre si asciugò le lacrime e si avvicinò a noi. Eravamo ancora seduti al tavolo, perplessi di fronte a quella scena che sapeva tanto di addio.
«Andiamo di sopra, va bene?» ci chiese in tono dolce, prendendoci le mani. «Vi faccio vedere una cosa.»
Danny non protestò, ma io rimasi ferma al mio posto. «Cosa succede, mamma?»
«Adesso non c'è tempo, May. Andiamo.»
La mia indole testarda scalpitava per contestare, almeno finché non avrebbe ottenuto una risposta, ma quando incrociai il suo sguardo disperato si ritrasse. Mi stava pregando silenziosamente di obbedire, ed ero abbastanza sveglia da rendermi conto che ascoltarla sarebbe stata la scelta migliore.
Lei non ce lo voleva dire e non l'avrebbe mai fatto, ma capii che quella sera stava succedendo qualcosa di grave. Qualcosa che ci avrebbe segnati.
Con le mani strette nelle sue, la seguimmo su per la rampa di scale di marmo, fino alla porta della sua camera. La mamma la aprì, si avvicinò alla cassettiera di legno scuro che affiancava il letto e spostò il mobile.
Sulla parete retrostante, tra le macchie di muffa, spiccavano i bordi di quella che sembrava una porticina. Si inginocchiò per aprire il pannello, rivelando l'ingresso di un cunicolo stretto e buio, scavato nel muro.
«Dovete nascondervi qui e non uscire per nessuna ragione al mondo, intesi?»
«È una stanza segreta?» domandò mio fratello, curioso.
La mamma annuì e fece cenno a Danny di entrare nel cunicolo. La sua curiosità si trasformò ben presto in paura, quando scoprì che era buio pesto.
«Non mi piace» piagnucolò. «Voglio andare da papà.»
«Ho bisogno che mi ascoltiate, ragazzi. Stanno arrivando delle persone cattive, e io e papà dobbiamo mandarle via. Ma non possiamo farlo sapendo che non siete al sicuro.»
Non l'avevo mai sentita parlare così, con quel misto di terrore e disperazione nella voce e negli occhi. E forse fu proprio questo pensiero che mi convinse a infilarmi nel vano scavato nella parete, insieme a mio fratello.
«Ci penso io» dichiarai, stringendo Danny a me. «Va' ad aiutare papà.»
Lei mi sorrise, uno di quei sorrisi che ti fanno venire voglia di scoppiare a piangere quando li ricevi, così colmi di amore e tristezza. «Sei forte, May. Non scordarlo mai. Proteggi tuo fratello e conta sempre e solo suo tuo istinto. Me lo prometti?»
Annuii, decisa, senza sapere che quella promessa mi avrebbe ossessionato per i prossimi anni. Senza sapere che mi avrebbe disintegrata, pezzo dopo pezzo.
Granello di sabbia dopo granello di sabbia.
«Io e papà vi vogliamo bene» aggiunse. Prima che potessimo rispondere, chiuse lo sportello, e l'oscurità ci riempì gli occhi.
«May,» Danny tremò tra le mie braccia, «voglio uscire.»
Gli accarezzai i capelli, riconoscendone il profumo. «Dobbiamo resistere solo un po'.»
Lo sentii emettere un singhiozzo e le sue lacrime mi bagnarono il dorso della mano. Rafforzai la presa intorno alla sua vita magra, schiacciandomelo contro lo sterno, e continuai a lambirgli con le dita i capelli arruffati.
«Tra poco mamma tornerà» gli assicuravo, ma i rumori che provenivano dal piano inferiore - come di mobili ribaltati, vetri infranti, voci profonde e autoritarie che urlavano alla ricerca di qualcuno - mi facevano rabbrividire nel piccolo cunicolo.
Quando arrivò lo sparo, il mio cuore si fermò per un istante. Non avevo mai sentito un colpo di pistola prima d'ora, non dal vivo, eppure non avevo dubbi.
Un botto secco. Assordante. Un rimbombo. Poi, un grido disumano.
Era la voce della mamma.
«Cos'era?» mi domandò Danny. Lo spavento aveva fermato il pianto. «May, cos'era?»
Non gli risposi. La mia mente era divisa tra il riverbero dello sparo e le urla della mamma, un'accozzaglia di parole che non riuscivo ad afferrare. Tranne una, che mi arrivò limpida e letale all'orecchio.
David.
Il nome di mio padre.
Le ipotesi che il mio cervello iniziava a partorire erano una peggiore dell'altra. Avevo bisogno di verificarle. Anzi, di smentirle. Se avessi aspettato un secondo di più, sarei impazzita.
Conta sempre e solo suo tuo istinto.
E così feci.
Mollai Danny e spinsi i palmi contro lo sportello. Si schiuse di pochi centimetri, poi lo spigolo impattò contro la cassettiera che celava il nascondiglio. Mi ci buttai contro di peso, utilizzando ogni muscolo del corpo per rimuovere l'ostacolo che bloccava l'uscita.
Lo scontro mi ammaccò la spalla. Probabilmente mi sarebbe spuntato un livido, ma in quel momento non me ne importava. Ero riuscita a smuovere la cassettiera quel tanto che bastava per sgusciare fuori dal nascondiglio.
«Dove vai?» mi domandò Danny, lo spavento e l'ansia che oscuravano i suoi occhi cangianti.
«Resta qui, va bene? Vado a vedere cosa succede e torno.»
Vedevo chiaramente che era sul punto di scoppiare di nuovo a piangere, ma non si lamentò e rimase all'interno del cunicolo. Ringraziai i miei genitori per aver dato al mondo un fratello ubbidiente e intelligente come il mio. Mi sarebbe stato solo d'intralcio, e non volevo che corresse rischi inutili.
«Ti lascio la porta socchiusa, così entra un po' di luce. Farò in fretta» gli dissi ancora, per tranquillizzarlo.
Annuì intimidito e i capelli biondo scuro gli finirono davanti al viso. Glieli spostai con una carezza e gli stampai un bacio sulla testa, stringendolo un'ultima volta. Poi mi alzai, socchiusi lo sportello e misi il mobile al suo posto, per coprirlo.
Prima di scendere al piano inferiore, mi guardai intorno alla ricerca di qualche oggetto affilato. Scavai tra i gioielli della mamma e trovai un fermaglio per capelli a forma di bastoncino. Non era molto, ma meglio che andare a mani vuote.
Lo impugnai e uscii dalla camera dei miei genitori, per raggiungere il pianerottolo delle scale. Mi affacciai cauta dalla ringhiera, ma da quella posizione non vedevo niente. Sentivo solo dei suoni sinistri, come se qualcuno stesse provando a urlare ma avesse avuto la bocca tappata.
E delle risate, e dei gemiti.
«Togliti dal cazzo. Tocca a me» dichiarò una voce maschile e arrogante.
«Taci, stronzo. Non ho ancora finito» replicò un altro, e la sua affermazione fu seguita da un verso di piacere.
«Ho detto togliti dal...»
«Khvatit!» li zittì un terza voce. Era molto più grave e autoritaria delle altre due, e parlò in una lingua che non riconobbi. «Naydite dokumenty i unichtozh'te ikh.»
«Po tvoyemu prikazu, vory» rispose il primo, dopodiché udii dei passi che si allontanavano.
Credendo scioccamente di avere via libera, mi azzardai a scendere qualche gradino, fino a metà della rampa. Mi arrestai sui miei passi quando la voce appartenente al terzo uomo, quella più rigida, risuonò nuovamente nell'aria, stavolta parlando in inglese.
«Mi dispiace quasi per te, Lauren. Ma ti avevo avvertita. Eri in tempo ad abbandonare la caccia alle streghe iniziata da David e scappare con i tuoi figli. Invece, hai voluto fare di testa tua, ed ecco cos'è successo.»
Dal punto che avevo raggiunto, attraverso le sbarre della ringhiera metallica, riuscivo a scorgere il profilo della figura che aveva occupato il nostro salotto.
Si trattava di un uomo molto alto e dalla corporatura slanciata, con la barba curata e i capelli castani in perfetto ordine. Indossava un completo grigio chiaro e, nella mano destra, teneva una pistola. Al polso portava un appariscente orologio di diamanti e sul dorso della mano si espandeva un disegno intricato. Un tatuaggio, realizzai.
La mia attenzione fu attratta dalla seconda figura, quella di mia madre, e la nausea mi serrò la gola.
Mia madre era legata con le braccia a una sedia e un pezzo di nastro adesivo le sigillava le labbra. I capelli neri, di solito sempre lisci e dalla piega perfetta, erano un ammasso di ciocche scombinate, alcune incollate alla fronte. Doveva aver pianto, e parecchio, perché scorsi le palpebre gonfie e le ciglia grondanti di acqua e trucco da lassù.
Notai anche un taglio che segnava uno zigomo e un alone violaceo intorno a un occhio. La cosa che mi preoccupò maggiormente, però, era che non indossava più i vestiti.
Era completamente nuda, con i pantaloncini e la biancheria calati fino ai piedi e la maglietta accartocciata poco lontano sul pavimento. Chiazze e segni di ematomi rossi le tappezzavano il corpo.
Vederla in quello stato mi sconvolse. Ebbi la tremenda sensazione di violare la sua intimità, e intuii che era proprio ciò che quegli uomini avevano fatto. A quella constatazione, le lacrime mi inondarono gli occhi.
Nonostante tutto, mia madre mantenne lo sguardo fisso in quello dell'impostore, senza rinunciare alla dignità. Perché lei era così: una delle migliori detective del suo campo, ostinata e combattiva, che non sfuggiva mai alle situazioni di pericolo che il suo lavoro comportava.
«Non voglio uccidere anche te, sai?» proclamò l'uomo sconosciuto. «Ma se i miei sicari non troveranno quei documenti e ti rifiuterai di aiutarci... be', mi vedrò costretto a farlo. Capisci, vero?»
Parlava con una cadenza fintamente dolce. Il suo tono era viscido, ripugnante. Imparai a odiarlo in quel preciso momento, mentre faceva scorrere le dita sul collo di mia madre e le ripeteva quanto fosse rammaricato.
Bugiardo. Schifoso bugiardo.
Se veramente fosse stato dispiaciuto per lei, non avrebbe avuto quel ghigno malato in faccia, guardando l'espressione sofferente della mamma legata e imbavagliata.
«Non abbiamo trovato niente, vory.»
Erano tornati gli altri due. Adesso potevo vederli per intero: erano energumeni ben piazzati, vestiti più umilmente dell'uomo che dedussi fosse il loro capo e con le braccia ricoperte da tatuaggi svariati. Anche loro erano armati, ma invece di una semplice pistola avevano dei fucili.
«Cosa facciamo con lei?» chiese uno, indicando mia madre. Le riservò un'occhiata famelica che mi contorse lo stomaco.
Il cosiddetto capo strappò il nastro adesivo dalla sua bocca e la mamma liberò un sospiro affannato. «Allora, Lauren? Dove sono i documenti con le prove?»
Lei alzò il mento, gli rivolse uno sguardo di sfida e sigillò le labbra in una linea dura.
«Ma come, ti sei già scordata delle nostra chiacchierata? Ricordi cosa succede, se non parli?» Scosse la pistola come se fosse stata un giocattolo.
«Fallo, stronzo» pronunciò la mamma, quasi divertita. «Uccidimi.»
Uno dei due energumeni le strinse i capelli nel pugno, tirando la sua testa verso di sé. «Parla, stupida troia, o ti facciamo fare la fine di tuo marito.»
Venni invasa dal panico, udendo quelle ultime parole. Cosa significava? Cosa avevano fatto a papà?
Mamma non era spaventata. Continuava a sorridere. Frammenti di follia sporcavano i suoi occhi annacquati dalle lacrime. «Mi fareste un favore.»
Avvenne velocemente. La prima onda anomala che si schiantava sulle pareti troppo gracili della mia anima.
L'uomo tatuato sistemò il fucile tra le braccia, spinse la canna contro la sua fronte e schiacciò il grilletto.
Un boato. Un foro da cui sgorgavano litri di sangue. La testa di mia madre che ciondolava verso il basso. Il corpo che si afflosciava sullo schienale della sedia, senza vita.
Trattenni un urlo, ma il passo indietro che feci istintivamente mi tradì. Posizionai male la suola del piede e inciampai. Non scivolai per tutta la rampa solo perché ebbi la prontezza di riflessi di aggrapparmi alle sbarre della ringhiera.
Produssi però un rumore secco, quando le mie ginocchia impattarono contro uno scalino, e loro si girarono.
In quel momento, capii di essere spacciata.
Per una fazione di secondo, incrociai gli occhi del loro capo. Erano di un marrone caldo e lucente. Li avrei trovati rassicuranti, se non fossi stata disgustata da lui e terrorizzata per la mia vita.
Se non lo avessi odiato dal primo momento in cui l'avevo sentito parlare.
«Vory?» lo chiamò colui che aveva assassinato mia madre, usando un termine strano. Forse era il suo nome. «Uccido anche lei?»
«Io le riserverei lo stesso trattamento della mammina» sghignazzò l'altro, scrutandomi come un predatore.
Ma l'unica cosa che il loro capo disse fu: «Portatemela».
La consapevolezza di cosa mi sarebbe successo da lì a poco mi attraversò come un fulmine. Guardai il cadavere della mamma. Una parte di me voleva soltanto rannicchiarsi e piangere fino a soffocare nelle mie stesse lacrime.
L'altra parte, però, pensò a Danny e alla promessa che avevo fatto a nostra madre.
Dovevo proteggerlo. Dovevo essere forte, per lui.
Balzai in piedi e corsi sui gradini, senza temere di cadere com'era successo tre anni prima, quando mi ero rotta una caviglia. Da quel giorno ero stata estremamente attenta a come mi muovevo sulle scale, ma adesso non contava più niente. Il mio unico pensiero era che dovevo raggiungere Danny, subito, e scappare.
Sentii alle mie spalle i passi dei due scagnozzi, che partirono con qualche secondo di ritardo. Aumentai la velocità della corsa e mi precipitai in camera. Danny si era già affacciato dal nascondiglio; mi osservava confuso e spaventato.
«Vieni,» gli porsi la mano e lo aiutai a tirarsi in piedi, «dobbiamo andare.»
«Mamma e papà?» mi chiese, ingenuamente.
Ignorai la sua domanda e strinsi le mie dita intorno alle sue, poi lo trascinai verso la nostra cameretta. Chiusi la porta e girai la chiave prima che quei mostri tatuati ci raggiungessero. I loro pugni risuonano contro il legno.
«Non puoi scappare, bambina» esclamò uno. «Non hai nessuna via di fuga.»
Oh, stupidi, ce l'ho eccome.
«Chi sono quelle persone, May?» Mio fratello continuava con le domande. «Cosa vogliono?»
Non risposi. Ancora. Come potevo spiegargli ciò che era successo? Avrei perso il controllo, sarei esplosa, e ci avrei messi entrambi in pericolo.
Non potevo rompermi.
Forse fu in quell'istante che imparai a sopprimere le mie emozioni.
Mi avvicinai all'imboccatura dello scivolo che papà ci aveva costruito tempo addietro. Finiva nel suo studio, che prima era una stanza dei giochi. Non aveva mai voluto chiudere il passaggio, neanche se i nostri schiamazzi lo distraevano dal lavoro.
«Scendiamo» ordinai. «Stammi dietro, va bene?»
Mi sedetti sul bordo dello scivolo. Danny mi circondò la vita con le braccia e, dopo essermi assicurata che fosse ben saldo, mi spinsi giù.
La discesa fu breve ma ripida. Non utilizzavo quella scappatoia da mesi e mi ero scordata quando fosse brusca la fermata. Venimmo sbalzati in avanti, contro le assi di legno del pavimento.
Aprii le palpebre che non mi ero accorta di aver chiuso e, prima di tutto, guardai mio fratello. «Stai bene?»
Lui aveva gli occhi di una cupa sfumatura di azzurro, puntati davanti a sé. Intercettai la direzione del suo sguardo e... no, per favore...
Il corpo di un uomo giaceva riverso davanti alla scrivania dello studio, una macchia rossa che si espandeva sotto di lui. Avrei voluto non riconoscere immediatamente i capelli biondo cenere e i vestiti che indossava. Innanzitutto, però, vidi la pistola gettata per terra, quella argentata con l'iniziale del nostro cognome incisa sopra, un pezzo d'antiquariato che non lasciava mai incustodito.
«May... papà...»
Danny tremava così forte che temetti potesse svenire. O forse ero io. Non avrei saputo dirlo. Vedevo tutto a chiazze nere e il cuore mi martellava troppo velocemente nel petto.
«Sta bene, vero? Vero, May?» Mi strattonò una manica. «Va' a vedere. Ti prego...»
Detestai mio fratello, più di quando mi rubava le patatine, più di quando mi tirava i capelli, più di quando mi incolpava per le sue marachelle. Perché stavo collassando sotto al peso dello shock e del dolore e lui mi spingeva verso il corpo di nostro padre.
Ma, soprattutto, lo detestai perché accese una fiammella di speranza.
La speranza. Un'illusione così dolce che, quando si infrange, le schegge ti trafiggono l'anima fino a ucciderti.
Scossi il braccio di papà. Lo chiamai una, due, tre volte. Non si mosse. Forse era svenuto, mi dissi cercando di ignorare tutto quel sangue. Era ovunque e aveva un odore insopportabile.
Alla fine, girai la sua testa e lo guardai in faccia. Mi morì il respiro. Aveva gli occhi sgranati e spenti, l'iride cerulea coperta da un velo sporco. Le labbra erano bianche, come le guance. Sembrava un fantasma.
Era morto. Era morto anche lui.
Alle mie spalle, Danny urlò. Poi pianse. Pianse forte, tra grida e singhiozzi, ma non riuscivo a dirgli di smettere. Volevo soltanto che quell'incubo finisse. Che tornasse tutto come prima. Che il cuore non mi facesse così male e le retine non bruciassero come corrose dall'acido.
Non ci feci quasi caso, quando l'uomo in giacca e cravatta entrò nello studio. Squadrò prima me e in seguito mio fratello. E sorrise.
Era un sorriso quasi affettuoso. Trattenni l'impulso di vomitare.
«Non piangete. Doveva andare così» si finse in pena per noi. Il suo accento straniero marcava ogni sillaba. «I vostri genitori non hanno voluto aiutare un loro caro amico e hanno ricevuto la punizione che meritavano.»
Scattò qualcosa in me, sentendo quelle parole. Amico. Punizione. Meritavano.
Un sentimento sconosciuto mi sciolse il sangue. Bruciava come l'inferno. Lo percepivo nel petto, tra le costole, come stilettate roventi. Era puro fuoco, e io ero benzina che si incendiava.
Con uno scatto che il mio cervello non aveva ordinato, raccolsi la pistola di papà e la puntai contro l'uomo. Contro il capo. Le mani mi tremavano con violenza ed ero sicura di non apparire neanche un po' minacciosa, ma non ragionavo più. Ero guidata da quell'oscurità che mi sfrigolava nelle vene.
Sicuramente non mi sarei aspettata di terrorizzarlo, ma neanche che fosse scoppiato a ridere. «Sei proprio figlia dei tuoi genitori, piccola Maybelle.»
Non mi chiesi come potesse conoscere il mio nome. Da come aveva precedentemente parlato di mamma e papà, era chiaro che possedeva numerose informazioni sulla nostra famiglia.
La nostra famiglia ormai andata in pezzi, perché eravamo rimasti solo io, Danny e un dolore atroce che ci avrebbe accompagnati per il resto della vita.
«Non avvicinarti,» trovai il coraggio di ringhiare, «o sparo.»
Non era vero. Non sarei mai riuscita a schiacciare il grilletto. Non sapevo neanche come si impugnasse correttamente una pistola, cazzo.
«Non ce ne sarà bisogno, tranquilla. Non voglio farvi del male.» Estrasse una ricetrasmittente dalla tasca del giacca e, credo rivolgendosi ai suoi sicari, pronunciò parole incomprensibili: «Ya nashel ikh. Spuskaysya, ty, nekompetentnyy».
Rimise l'apparecchio in tasca e, subito dopo, udii dei passi che calpestavano i gradini e poi lungo il corridoio. Sulla soglia dello studio comparvero i due uomini tatuati.
«Come sono arrivati qui?» esclamò quello che aveva ucciso la mamma, sorpreso. «Erano chiusi in quella stanza.»
«La ragazzina è sveglia» rispose il suo capo. «Più di voi incapaci.»
L'altro energumeno si avvicinò e alzai la pistola. «Sta' indietro.»
«Vuoi giocare a fare la poliziotta? Attenta a non farti male» sghignazzò. «Dammi la pistola, bambolina. Coraggio.»
Mi tese la mano e una lampadina si accese nella mia testa. Mi finsi impaurita - non fu difficile, dato che lo ero già - e gli lasciai la pistola di papà.
«Ecco, brava bambina.» Mi strappò l'arma dalle dita. «Non si gioca con il fuoco, non te l'hanno insegnato?»
Per sua sfortuna i miei genitori mi avevano insegnato l'arte dell'improvvisazione nella difesa personale.
Infilai la mano nella tasca dei pantaloncini del pigiama e tirai fuori il fermacapelli della mamma. Senza che qualcuno potesse avere il tempo di accorgersi delle mie intenzioni, caricai il braccio e affondai la punta di metallo nella coscia di quel demonio.
«Mat' tvoyu!» imprecò urlando, con l'oggetto metallico infilzato sopra al ginocchio. Lo sfilò dalla carne; la punta era macchiata di rosso. Mi schiaffeggiò con lo sguardo più rancoroso e furibondo che avessi mai visto, e mi pentii subito del mio gesto. «Ya ub'yu tebya, tupaya suka!»
Non avevo la più pallida idea di cosa mi avesse sbraitato contro, ma supposi niente di bello. Ne ebbi la conferma quando la sua mano mi circondò il collo e mi sollevò da terra, come se fossi stata davvero una bambola. Le dita strinsero forte intorno alla cartilagine e capii che presto sarei morta.
Eppure non ero disperata. Non lottavo per la mia vita. Forse, in fondo, era ciò che volevo: rivedere i miei genitori.
«May!» Fu la voce di Danny a riscuotermi. Mio fratello si arpionò alla gamba dell'uomo e gli graffiò la pelle. «Lascia andare mia sorella, brutto mostro!»
Il sicario tirò un calcio a Danny, che cadde all'indietro, e mollò la presa su di me, facendomi schiantare al suolo.
«Stupidi mocciosi.» Caricò il fucile e lo puntò prima verso di me poi verso mio fratello. «Pronti a raggiungere mammina e papino?»
«Nikon,» lo richiamò il capo, pronunciando quello che credevo fosse il suo nome, «non toccarli.»
«A cosa ti servono, vory? Sono dei testimoni. Dobbiamo sbarazzarci di loro.»
«Io inserirei la bambina nel giro di prostituzione» si intromise l'altro scagnozzo, colui che aveva ucciso nostra madre. Mi si accostò e, con un'espressione vomitevole, prese una delle mie trecce nere tra i polpastrelli. «Ha dei bei capelli. Non sei d'accordo, vory?»
Il capo mi squadrò attentamente. Percorse la mia figura da cima a fondo, lo sguardo neutro ma pensieroso. D'un tratto, spostò le iridi marroni sul fermacapelli della mamma, abbandonato sul pavimento e ancora sporco del sangue del suo sicario.
E le labbra gli scavarono una curva sul volto. «Ho altri programmi, per lei.»
Angolo autrice
Quanto mi era mancato pubblicare e scrivere qui😭😭
Allora, readers, sono ufficialmente tornata. Ho messo in pausa LIDF, perciò per i prossimi mesi mi dedicherò a questa nuova storia, mentre porto avanti la revisione di ISDD.
È un prologo abbastanza lungo e intenso, lo so. Conosciamo May, la nostra protagonista, e assistiamo a un evento traumatico che ha segnato profondamente la sua vita e quella di suo fratello. Qui è solo una ragazzina, ma nel prossimo capitolo la vedremo cresciuta. Cresciuta e psicopatica 💀
Idee su chi siano quegli uomini e sul perché abbiano ucciso i suoi genitori?
In ogni caso, grazie mille a chi si è fermato a leggere, che siate vecchi o nuovi lettori. Se vi va, lasciatemi un'opinione nei commenti 💘
Aggiornerò ogni sabato, salvo imprevisti. Pronti a immergervi in questa nuova avventura? Perché io sono super elettrizzata✨️ Vi ricordo di seguirmi su IG per novità e spoiler: miky03005s.stories
Alla prossima! Xoxo <3
Traduzioni:
1) Khvatit!= È abbastanza!/Smettetela!
2) Naydite dokumenty i unichtozh'te ikh= Trovate i documenti e distruggeteli.
3) Po tvoyemu prikazu, vory= Ai tuoi ordini, capo.
4) Ya nashel ikh. Spuskaysya, ty, nekompetentnyy= Li ho trovati. Scendete, incompetenti.
5) Mat' tvoyu!= Porca puttana!
6) Ya ub'yu tebya, tupaya suka= Ti ucciderò, stupida troia.
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