EXTRA - Valerio (parte II)
San Pietroburgo, 18 ottobre 2019
«Perché non mi hai lasciata indietro?»
Il silenzio prolungato fu interrotto dalla voce di Larysa, che parlò per la prima volta da quando eravamo partiti. Mi distrassi per un rapido attimo dalla strada e mi girai a guardarla. Avvolta nel mio cappotto, di taglia decisamente troppo larga per il suo corpo minuto, era appoggiata con la testa al finestrino e i bagliori delle luci della città fendevano il suo viso dai tratti delicati.
Collocai di nuovo l'attenzione sulla guida. «Non voglio che gli sbirri si mettano in mezzo. È una lotta tra noi due.»
«Non mi avevi consigliato di tornare nel Ghetto, poco prima che arrivasse la polizia?» mi ricordò con aria presuntuosa.
«Non posso portarti a Mosca, sarebbe un suicidio. Per colpa del tuo adorato boss sono ricercato in tutto il Paese. Ci nasconderemo fino a domani, poi ognuno prenderà la sua strada.»
«Perciò abbiamo stabilito una tregua?» domandò scettica, tirandomi un'occhiata di traverso. «Chi mi assicura che non cercherai di uccidermi nel sonno?»
«Sei tu l'assassina. Ti ho già detto che non mi interessa niente di questa guerra. Se non ti fidi di me, scendi dalla macchina e trova un rifugio da sola» scrollai le spalle, indifferente alla sua opinione nei miei riguardi e al suo destino.
«D'accordo, tregua» sbuffò tra i denti serrati. «Ma a tuo rischio e pericolo, Valerio. Sono pur sempre un sicario e tu sei il mio nemico principale. Non mi sono dimenticata della missione.»
«Ti sfido a provare di nuovo ad ammazzarmi, biondina, e vedremo chi dei due si ferirà davvero. Non ti conviene istigarmi» dichiarai con calma, ma tra le parole era distinguibile una minaccia velata.
Avevo concesso un armistizio di pace a Larysa, ma ciò non significava che fossimo diventati alleati. Doveva stare attenta a non giocare con il fuoco, perché non si sarebbe solo scottata, ma la avrei completamente distrutta. Se avesse osato ingannarmi una seconda volta, non sarei stato così clemente.
«Non c'è bisogno di essere così stronzo, sai?»
Sogghignai in risposta. «È la mia qualità migliore.»
Attraversai il Palace Bridge, uno dei numerosi ponti che solcava il fiume Neva e collegava il centro di San Pietroburgo all'isola Vasil'evskij. Quest'ultima era un distretto rinomato per la presenza di alcuni edifici di importanza storica e artistica, dei quali però non ne ricordavo mezzo. San Pietroburgo sarà anche stata una città meravigliosa, ma non mi ero mai affezionato a quel luogo, né mi curavo del suo patrimonio culturale. La mia unica casa era Catanzaro, nonostante la mia famiglia mi avesse scacciato come un insetto e non tornassi in Calabria da anni.
Costeggiai la via Tuchkov e mi inoltrai in un quartiere formato da villette a schiera quasi tutte disabitate, in seguito parcheggiai la macchina di fronte a un'abitazione dalle mura scrostate e macchiate di umidità. Affisso al cancello arrugginito, svettava un cartello con la scritta v prodazhe. Larysa storse il naso in una smorfia di disappunto, ma non commentò l'aspetto trasandato della struttura e mi seguì fuori dall'auto. Bussai il pugno sul vetro del bagagliaio, dove sarebbe stato più sicuro per Tolstoj rimanere, e gli promisi che sarei tornato a prenderlo presto.
«Questo posto appartiene alla tua banda?» intuì Larysa, studiandone i dettagli con un cipiglio contrariato.
«Sì, è il luogo migliore in cui potremmo stare. Mi dispiace se non è un hotel di lusso a cinque stelle» mi finsi mortificato, senza però nascondere il tono di scherno. «Comunque non ho le chiavi, quindi dovremmo arrampicarci da quella.»
Indicai la scala metallica a pioli che percorreva l'intera facciata laterale della villetta, a poca distanza dalle cornici delle finestre. Le serrande del secondo piano erano spalancate, l'unico ingresso disponibile.
«Io non ci salgo lì sopra con te» pronunciò un rifiuto categorico. «Piuttosto scassino il portone.»
«Buona fortuna con le catene e il lucchetto» le augurai con evidente sarcasmo. Per quanto mi riguardava, poteva anche restare laggiù a morire di freddo, in attesa di essere prelevata dagli agenti.
Scavalcai il cancello in una mossa agile, poi strinsi le dita intorno allo scheletro gelido della scala e cominciai a salire i pioli. Larysa liberò una sequela di parole in una lingua per me incomprensibile, forse insulti in ungherese, poi decise di imitarmi. Sapeva di non avere altra scelta.
Arrivato all'altezza del secondo piano e sorreggendomi alla scala con le mani, allungai la gamba per posare il piede sul davanzale esterno della finestra. Appoggiai anche l'altro piede e sgusciai con il busto oltre il telaio consumato dalle termiti. Mi ritrovai in una sala buia e polverosa, a cui diedi solo una rapida occhiata, prima di affacciarmi per aiutare Larysa.
«Non ti farò cadere» la tranquillizzai, per poi circondarle la vita tra le braccia e sostenerla mentre scivolava dentro l'abitazione.
Appena le suole dei suoi stivali toccarono il pavimento, mi spinse via. Non potevo decifrare la sua espressione a causa dell'oscurità che permeava la stanza, eppure avrei giurato che mi stesse riservando uno sguardo stizzito. «Non c'è bisogno che ti comporti da cavaliere, quando fino a dieci minuti fa mi tenevi ammanettata al tuo letto.»
«Di solito sono un gentiluomo, ma tu tiri fuori i miei istinti peggiori» ribattei, dedicandole un ghigno ironico.
Tastai le pareti per cercare l'interruttore della luce, sperando che qualcuno pagasse ancora la corrente. Lo trovai e, schiacciandolo, una lampadina spoglia che sbucava dal soffitto illuminò flebilmente quella che si rivelò una sala da pranzo. La superficie dei mobili era rovinata e graffiata, il pavimento sudicio e la tappezzeria a brandelli. Nessuno abitava più in quella villa da anni, a eccezione delle sporadiche visite dei malviventi della città, che sfruttavano l'edificio abbandonato come sosta temporanea.
Compresi che qualcuno mi aveva rubato l'idea nel momento in cui udii il chiacchiericcio prodotto da alcune voci e proveniente dal piano inferiore. Non eravamo da soli, cazzo.
«Resta qui. Vado a controllare di sotto» informai Larysa.
Be', fu fiato sprecato. Uscii dalla porta della sala da pranzo e lei si palesò immediatamente al mio fianco nel corridoio. Al contrario di me sembrava entusiasmata dalla prospettiva di incontrare i miei colleghi, i Lupi di Tambov, nemici secolari del Ghetto Zaffiro. Magari sperava di compiere una carneficina.
Scendemmo una rampa di scale cigolanti e, superato l'atrio, giungemmo dinanzi a una porta socchiusa; il brusio si era intensificato, segno che gli intrusi erano riuniti dietro essa.
«Non aprire bocca, non guardarli in faccia e non dire che lavori per Bayan. Non ci penseranno due volte a fucilarti» la avvisai con serietà mortale.
Larysa si limitò ad annuire seccamente, allora sospirai e spinsi i battenti. Entrammo in un salotto ridotto nelle medesime condizioni della sala da pranzo, danneggiato e sporco, ma stavolta la stanza non era deserta: un capannello di uomini tatuati occupava il divano e le poltrone. Sembravano impegnati in una discussione accesa e sul punto di cominciare una rissa per affermare la loro opinione sulle altre. Non appena facemmo il nostro ingresso, tacquero e posarono le pupille su me e Larysa.
«Critelli,» esalò il vicecapo della banda, Kumarin, un energumeno dalla corporatura di un armadio e gli occhi infossati, «non ricordo di averti invitato. Cosa ci fai qui?»
«Non credevo che la casa fosse occupata. Se disturbiamo, ce ne andiamo subito» risposi con tutta la calma in mio possesso, che era davvero poca.
Kumarin spostò l'attenzione dalla mia figura a quella della ragazza accanto a me. La squadrò da capo a piedi, fissando con un po' troppa insistenza i lembi di pelle scoperta dalla divisa succinta, e passò la lingua sulle labbra imitando un predatore. Risultò istintivo muovere un passo in avanti per celare parzialmente il corpo di Larysa alla vista di quell'animale.
«Chi è la tua amichetta?» si intromise un altro membro della banda. «Perché non ce la presenti, Val? Sai che ci piace condividere le conquiste.»
«Non sono cazzi vostri e non condividerò proprio niente» sbottai. La dose di calma era già finita.
Scoccai uno sguardo a Larysa, i cui lineamenti erano tesi dal nervosismo e dal fastidio, ma seguì il mio consiglio e decise di restare in silenzio. Incassare i commenti senza ribattere era la scelta migliore da prendere, quando erano coinvolti quei bastardi dei Lupi. Non apprezzavano gli atti di ribellione, specialmente da una donna che non era componente del gruppo.
«Va bene, tieni pure il tuo giocattolo. Spero che almeno funzioni bene» ridacchiò il ragazzo che mi aveva provocato.
«Puoi giurarci» mormorai. Invitai Larysa a uscire con un cenno del capo, tuttavia la voce di Kumarin che mi richiamò ci impedì di abbandonare la sala.
«Aspetta, Critelli» mi bloccò. «Stavamo giusto parlando di quanto tu sia diventato poco utile alla nostra causa. Dato che Petrov è stato ucciso da quella puttanella del Ghetto, diventerò io il nuovo vory. Ho intenzione di ripulire la squadra dagli elementi più deboli, capisci?»
«Adesso mi consideri un elemento debole?» ripetei frastornato. «Vi rifornisco di armi da anni. Senza il mio aiuto non sareste andati avanti nelle missioni. Questo è il vostro ringraziamento?» emisi un ringhio furente. «Vaffanculo, non potete cacciarmi così!»
Kumarin si alzò dalla poltrona e camminò a passo lento verso di noi. Degnò Larysa di una misera occhiata, poi si concentrò sul mio volto, le palpebre assottigliate in modo minaccioso. Cogliendomi del tutto alla sprovvista, mi avvolse il collo con la mano ampia e coperta di tatuaggi. Strinse le dita intorno alla mia gola, abbastanza forte da rendermi difficile respirare ma non al punto di soffocarmi.
«Certo che possiamo. Ho trovato un contrabbandiere più rifornito, efficiente e soprattutto affidabile. Petrov ha sbagliato ad allearsi con la 'Ndrangheta, ma io non commetterò lo stesso errore.» Aumentò l'intensità della presa e boccheggiai alla ricerca di ossigeno. «Pensi che non abbia scoperto che ci fotti i soldi da mesi? Per quanto ancora avresti continuato a intascare i guadagni delle vendite senza darci la nostra parte? Avevamo un accordo, pezzo di merda.»
Porca puttana. Mi hanno scoperto.
Ero riuscito a manovrare le cifre dei pagamenti dei clienti e ad accaparrare più soldi di quanti ne avrei dovuti tenere, senza che i miei compagni sospettassero alcunché. Il denaro aggiuntivo finiva dritto a Catanzaro, nel conto bancario dei miei genitori, per colpa dei quali ero finito in quella situazione scomoda. Dovevo smetterla di farmi comandare a bacchetta anche a distanza. Se mi sfruttavano per il loro tornaconto personale era perché glielo avevo sempre permesso: mi mancava il coraggio di disobbedire e ripudiare le mie radici famigliari.
«Vi restituirò... ogni moneta... lo giuro» annaspai e strattonai i polsi spessi di Kumarin, cercando invano di allentare la morsa che mi stava privando dell'aria.
«Non ti credo,» replicò il nuovo boss dei Lupi, «e non voglio un singolo rublo da te.»
Mi liberò dalla trappola mortale delle sue dita e finalmente l'ossigeno tornò a circolare nei polmoni che bruciavano. Tossii convulsamente, battendo la mano sul petto finché non riacquisii la capacità di respirare in modo adeguato. Non appena alzai gli occhi, però, mi ritrovai la canna lucida di una pistola a un paio di centimetri dalla fronte.
«Fa' buon viaggio, Critelli» dichiarò, appoggiando l'indice sul grilletto.
Sigillai le palpebre, pronto a morire in quell'istante e in quel luogo sudicio, che a pensarci era la giusta punizione per un criminale del mio livello. Eppure lo sparo non riecheggiò mai, poiché qualcuno rubò l'arma a Kumarin prima che il proiettile partisse. Aprendo gli occhi, scoprii che la persona così folle da affrontare il capo della banda era stata proprio Larysa. Si era gettata su di lui, aggrappandosi alla schiena come una piovra dai tentacoli di ferro, e adesso impugnava la pistola contro la sua tempia.
«Se c'è qualcuno autorizzato a togliere la vita a Valerio, allora sono io. Ci siamo intesi, coglione?» sibilò Larysa.
Non mi stupii del suo atto di coraggio, dato che avevo già capito che non fosse una ragazza normale e che la sua natura fosse decisamente instabile. A sorprendermi fu il gesto compiuto nei miei confronti: l'assassina incaricata di uccidermi mi aveva appena salvato la vita. Per quale assurda ragione lo aveva fatto? Il suo scopo era ammazzarmi, non proteggermi dagli attacchi dei nemici.
«Staccati, dannata puttana!» latrò Kumarin.
Si dimenò al punto che Larysa mollò la presa e atterrò sul pavimento, perdendo la pistola dalle mani. La raggiunsi immediatamente, guidato da un impulso che mi spingeva a soccorrerla, e la aiutai a risollevarsi da terra. Con la coda dell'occhio notai che gli altri membri della banda avevano impugnato le armi e ci osservavano minacciosi, in attesa di un segnale del loro boss per aggredirci. Non potevamo indugiare ancora; dovevamo muoverci a fuggire dall'abitazione.
«Tienimi la mano e corri» mormorai all'orecchio di Larysa, dopodiché intrecciai le nostre dita e la trascinai con me fuori dal salotto.
Risalimmo al secondo piano con i Lupi di Tambov alle calcagna, inferociti e vendicativi. Quando tornammo nella sala da pranzo, mi impegnai a sbarrare l'ingresso posizionando una vecchia credenza traballante davanti alla porta, sperando che quello stratagemma li rallentasse per alcuni minuti. Indicai a Larysa la finestra dalla quale eravamo entrati in precedenza e lei annuì, per poi calarsi oltre il telaio. La seguii rapidamente giù per la scala a pioli e, nel momento in cui i miei piedi tastarono il pietrisco del vialetto del giardino, emisi un sospiro sollevato.
«Andiamo alla macchina» incitai la ragazza. Rivolsi uno sguardo fugace alla finestra, scorgendo le sagome dei miei - ormai ex - compagni, che giravano per la casa alla nostra ricerca. Eravamo in tempo a scappare dall'isola senza che ci vedessero.
Mi accorsi che la mano di Larysa era ancora stretta nella mia solo quando arrivammo alla vettura. Mi sbrigai a sciogliere il groviglio delle nostre falangi e occupai il posto del guidatore, con la ragazza nel sedile accanto e Tolstoj che scodinzolò e abbaiò, contento che fossi tornato a riprenderlo. Azionai il motore e lasciai il quartiere.
«Perciò non hai più una squadra» esordì Larysa d'un tratto, mentre mi dirigevo verso il ponte che conduceva alla parte continentale di San Pietroburgo.
«A quanto pare sono un reietto, ma me ne farò una ragione» forzai una risata poco divertita, accompagnata da una scrollata di spalle. La verità era che bruciavo di rabbia ed ero indignato dal modo in cui Kumarin mi aveva sbattuto fuori dalla banda, ma non volevo che Larysa assistesse a un mio crollo di debolezza. Ne avrebbe approfittato per tendermi un agguato, da brava serpe qual era. «Non ho bisogno dei Lupi. Anzi, non ho bisogno di questa città del cazzo. Magari è la volta buona che torno in Italia e ci resto per sempre.»
«Sei così fiducioso da credere che ti lascerò vivere, Val?» mi chiese in tono di sfida, pronunciando il mio nomignolo con ilarità.
«Tecnicamente non siamo più nemici. Non faccio più parte dei Lupi» riflettei. «Quale buona motivazione avresti per uccidermi, ora?»
«Egor ti odia e ti vuole vedere morto, anche se ti hanno escluso dalla banda, e ha incaricato me di assassinarti. Ti basta come motivazione?»
«Non è la tua motivazione, biondina, ma è solo quella del tuo capo. Continui a comportarti come la sua schiava, te ne rendi conto?»
Si voltò per rispondermi, l'espressione accigliata e offesa. «È il mio lavoro e sto semplicemente...»
Inchiodai la macchina all'improvviso, mettendo Larysa a tacere e facendola sobbalzare in avanti. Non afferrai l'insulto che mi dedicò, dato che ero troppo preso a fissare la scena che si stava svolgendo dietro al vetro del parabrezza: una schiera di agenti e volanti di polizia aveva invaso il rettilineo del Palace Bridge, disposti di fronte alla mia auto alla stregua di un plotone di esecuzione.
Merda. Questa non ci voleva.
«Sono qui per noi?» domandò Larysa preoccupata, sebbene suonasse più come un'affermazione.
Mi osservai intorno, sperando di trovare una via di fuga da quella situazione tortuosa. Nel mentre uno dei poliziotti stava marciando con irruenza verso la mia auto, sbraitando comandi che non rispettai. Dopo aver perso il posto nell'organizzazione ed essere rimasto senza lavoro, ci mancava solo l'arresto. No, non mi avrebbero segregato in una schifosa prigione russa; la fortuna non mi avrebbe abbandonato proprio quel giorno.
Il mio sguardo strisciò lungo i confini del ponte e si immerse nel letto placido del fiume Neva, che scorreva sotto di noi. Un'idea tanto impulsiva quanto geniale mi attraversò la mente. Non riuscivo a concepire una soluzione migliore, nonostante i pericoli che avrebbe potuto comportare. Era un piano rischioso, ma ero sicuro che avrebbe funzionato. Necessitavo soltanto del giusto tempismo e - cosa più difficile - della collaborazione di Larysa.
«Ti fidi di me?» le domandai con prudenza.
«Per niente» negò. Mi gettò un'occhiata interrogativa e arcuò le sopracciglia chiare. «Cosa sta elaborando il tuo cervello malato?»
«Fidati e basta, va bene? Non può andare peggio di così» la rasserenai con scarso successo. «Al mio segnale, esci dall'auto e raggiungi la banchina del fiume. C'è una pistola sotto al mio sedile, se ti serve. E ricorda di aprire il bagagliaio.»
Non aspettai la sua risposta: spalancai la portiera e scesi dalla vettura, le mani sollevate per non destare sospetti e panico nelle forze dell'ordine. Calibrai i passi e mi allontanai piano dalla macchina, per avvicinarmi all'agente che ora mi stava mirando con la pistola. In realtà il mio obiettivo era la ringhiera del ponte, così da tuffarmi in acqua se la situazione si fosse complicata. Pregai che Larysa non tentasse il mio omicidio, nel frattempo, e che mi ascoltasse.
Fa' che questo piano assurdo funzioni, altrimenti sono fottuto.
«Mani in alto e non muoverti!» urlò il poliziotto, quindi mi immobilizzai sul posto. Dovevo dimostrarmi remissivo e docile.
L'uomo in divisa mi camminò incontro e, appena lo spazio che ci separava si ridusse a un mezzo metro, capii che era il momento ideale per agire. Emisi un fischio prolungato, a cui Tolstoj rispose abbaiando e correndo da me. Riconobbe la fonte del pericolo e si fiondò sull'agente di polizia, travolgendolo con il peso delle sue zampe.
Avevo un secondo a disposizione, poi i suoi colleghi sarebbero intervenuti. Richiamai Tolstoj, mi precipitai alla ringhiera del ponte e, compiendo un salto agile per scavalcarla, mi lanciai nel fiume. La sensazione che precedeva l'impatto con l'acqua era di pura libertà e leggerezza indescrivibile, una manciata di istanti sospesi nel vuoto e animati da una scarica di adrenalina, che culminò con un tuffo perfetto.
Le acque gelide della Neva mi accolsero in un abbraccio che già conoscevo bene, dunque fu semplice per me orientarmi nella massa oscura del fiume. Nuotai in direzione est, lasciandomi guidare dalla corrente, consapevole che Tolstoj mi stesse seguendo grazie all'addestramento a cui lo avevo sottoposto. Con una sequenza di bracciate che fendevano l'acqua, arrancai fino alla banchina dove mi attendeva Larysa.
«Tuffati!» la incalzai. Cominciavo a percepire il freddo e il gruppo di poliziotti stava scendendo in fretta i gradini che collegavano il ponte stradale alla banchina, puntando a noi con espressione intimidatoria.
Larysa alternò lo sguardo da me agli agenti, i lineamenti del viso adombrati da un velo di paura che si discostava dalla sua solita sfacciataggine. «Io... non so nuotare» confessò infine, la voce a malapena udibile e l'aria imbarazzata.
«Di bene in meglio» sibilai tra i denti serrati. Mi avvicinai maggiormente al bordo del fiume e allungai un braccio verso di lei. «Ti tengo a galla io, ma devi muoverti, oppure ci arrestano entrambi. Coraggio, biondina.»
A quanto pare la razionalità e la capacità di giudizio non erano i tratti dominanti del suo carattere, poiché non indugiò un solo attimo e si immerse nel fiume. Le circondai la vita per stringerla al petto, mentre Larysa si aggrappò alle mie spalle. Ringraziai che la sua corporatura fosse abbastanza esile da permettermi di nuotare senza sforzi eccessivi e che il mio fisico fosse allenato a sostenere le intemperie dei corsi d'acqua più volubili. Affiancati da Tolstoj, arrivammo sull'altra sponda in pochi minuti.
Ci arrampicammo sulla banchina opposta, tremando a causa dell'acqua congelata che inzuppava i vestiti e li attaccava al corpo. Il vento autunnale sferzava la pelle come lame ghiacciate, ricoprendola di brividi feroci. Se non avessimo trovato una fonte di calore per scaldarci, saremmo morti assiderati.
«Dobbiamo lasciare la città. Siamo ufficialmente ricercati dalla polizia» riferii a Larysa, indicando le volanti che percorrevano il Palace Bridge per inseguirci.
Lei si limitò ad annuire, rintanandosi nel mio cappotto enorme che si era appesantito per l'acqua assorbita. Le punte gocciolanti del suo caschetto biondo si erano incollate alle guance e al mento. «Non capisco ancora perché mi stai aiutando.»
«Preferisco senza dubbio una pazza assassina rispetto agli sbirri» affermai, incastrandomi nelle sue iridi limpide. «E poi te l'ho già detto: non siamo più nemici. Non ha senso continuare questa guerra.»
«Perciò cosa siamo diventati? Alleati?» domandò con un'inflessione sarcastica nelle parole.
«Collaboriamo per tirarci fuori da questa situazione, poi le nostre vite possono di nuovo separarsi. Ti sembra accettabile come compromesso?» le suggerii.
«Sì, abbastanza» confermò. Si sbottonò la giacca e recuperò una delle mie pistole dalla tasca interna, rigirando l'impugnatura tra le dita. «Se non ti dispiace, questa la mantengo io. Da che parte andiamo?»
«Devo raccogliere delle cose nel mio appartamento, ma per tornare indietro eviteremo le vie principali» le illustrai in modo generico. Conoscevo il reticolo stradale di San Pietroburgo nei dettagli, specialmente per quanto riguardava i vicoli meno frequentati e le scorciatoie. Nessuno ci avrebbe beccato.
Larysa non fiatò e si incamminò tra me e Tolstoj, il quale ci scortava come una sentinella fedele. Superammo il celebre museo dell'Hermitage e il Palazzo d'Inverno, tenendoci alla larga dalla calca di turisti e dalle pattuglie delle forze dell'ordine che sorvegliavano i luoghi più affollati.
Una volta giunti nelle vicinanze del mio condominio, ci fermammo. Aguzzando la vista, notai che alcuni uomini incappucciati sostavano dinanzi al portone d'ingresso. Non impiegai molto a identificare i Lupi di Tambov, capeggiati da Kumarin; probabilmente erano lì per vendicarsi della nostra fuga rocambolesca e provare di nuovo a uccidermi. Non avrei saputo dire se fosse peggio la polizia o la banda di cui non ero più membro.
«Sei il ragazzo più desiderato di San Pietroburgo. Gli sbirri e la mafia stanno facendo a gara per avere la tua testa» mi schernì Larysa.
La zittii con un'occhiata di fuoco e lei sghignazzò. Aggirammo l'edificio per usufruire dell'uscita sul retro, ma quando afferrai la maniglia Tolstoj iniziò ad abbaiare senza tregua. Indietreggiai proprio nel momento in cui il battente si spalancò e sulla soglia comparve la figura robusta di Kumarin, con quattro dei suoi scagnozzi al seguito.
«Eccolo qui, il nostro caro Valerio, insieme alla sua puttana e al suo cagnaccio» mi accolse il leader della squadra, derisorio. «Ti abbiamo cercato ovunque e abbiamo scoperto di non essere gli unici. Stavolta che hai combinato per fare incazzare gli sbirri?»
«Cosa vuoi ancora da me? Sto lasciando la città, così non vi darò poi fastidio» gli promisi, sfinito da quella caccia all'uomo dove ero la preda più ambita.
«Oh, no, non ti permetterò di attraversare il confine. Devi pagare il tuo debito, ma toglierti i soldi non sarebbe divertente come farti saltare il cervello.» Kumarin imbracciò un fucile a pompa, la canna rivolta al mio cranio. «Fine della corsa, Critelli.»
Tolstoj provò a difendermi assalendo l'energumeno, ma lui tirò un calcio al mio cane e lo spinse via. Il lamento di dolore che produsse, steso di fianco sul cemento, mi caricò di rabbia esplosiva. Quel figlio di puttana poteva anche uccidermi, ma non doveva azzardarsi a toccare Tolstoj.
«Io ti ammazzo» ringhiai furioso, per poi scagliarmi contro Kumarin, cercando di strappargli il fucile dalle mani.
Di conseguenza, scoppiò il caos: io e il leader dei Lupi lottammo per impossessarci dell'arma e tentare di ammazzare l'altro; il resto della banda accorse a spalleggiare il boss; Larysa si assicurò che Tolstoj stesse bene e in seguito si gettò nella mischia, aiutandomi a respingere gli attacchi. Udii in lontananza le sirene delle volanti, che ebbero il potere di pietrificarci tutti. In quel frangente di tempo, incrociai lo sguardo di Larysa, gli occhi divenuti vortici pullulanti di brama di sangue che rispecchiavano i miei. Mi limitai a muovere la testa in un cenno d'assenso, sicuro che avrebbe decifrato il messaggio.
Il sicario di Bayan sollevò la pistola e, con una mira impeccabile, liberò un proiettile che centrò Kumarin in mezzo alla fronte, schivandomi per un soffio. Il cadavere dell'uomo si afflosciò ai miei piedi e il fucile cadde al suolo. Dopodiché nell'aria riverberò il rumore dell'ennesimo sparo, e di altri ancora, finché i Lupi di Tambov non morirono in successione e la strada si tinse di rosso. Il medesimo colore che macchiava a schizzi i nostri vestiti e il volto di Larysa, conferendole l'aspetto di un demonio.
Accompagnata da una serenità inquietante, vista la strage che era appena avvenuta, Larysa posò la pistola e si ripulì dal sangue con le maniche larghe del cappotto. Un lato della mia coscienza, decisamente malato e perverso, si scoprì ancora più attratto da lei. Quali problemi mi affliggevano, per guardarla in modo così adorante? Era una fottuta assassina e aveva sterminato parte della mia squadra, ma cazzo se mi piaceva da morire, con quell'aria innocente che nascondeva l'orrore compiuto.
Furono esclusivamente i miei impulsi animaleschi a guidarmi, quando annullai la distanza tra di noi e piantai le labbra sulle sue. La spinsi con irruenza sul muro dell'edificio, permettendo ai nostri corpi fradici di aderire, e infilai le dita tra i suoi capelli umidi. Mi appropriai della bocca di Larysa, che esplorai a fondo e divorai, catturando il labbro inferiore tra i denti e mordendolo piano.
Si sollevò sulle punte dei piedi per ricambiare quel bacio impetuoso, il petto che si scontrò con il mio e le nostre lingue che si intrecciarono smaniose. Le sue mani si intrufolarono sotto la giacca pregna d'acqua e mi accarezzarono il torace, scaldando la pelle coperta di brividi. Spostai le dita dietro le sue cosce, mi riempii i palmi della loro morbidezza e la issai con facilità contro la parete; le sue gambe mi circondarono il bacino e il cappotto le scivolò dalle spalle, scoprendo la dannata divisa da cameriera.
Una fiamma ardente divampò tra le costole, si propagò lungo le arterie e i capillari, incendiò i nervi e si concentrò nel basso ventre. Nel momento in cui le nostre intimità si sfiorarono, una fitta di eccitazione mi trapassò violenta. Quella ragazza aveva la capacità di stordirmi come nessuna prima d'ora aveva mai fatto. Era la reincarnazione del diavolo, ma rendeva il peccato qualcosa di celestiale e paradisiaco.
«Dobbiamo... scappare» ansimò senza fiato, staccandosi dalla mia bocca. Le sue labbra gonfie e dal colore acceso erano una vera tentazione, e dovetti costringermi a non riprendere il bacio da dove si era interrotto. «La polizia sta arrivando. Non possono trovarci qui, in mezzo a tutti questi cadaveri.»
«Sei una guastafeste, biondina» replicai, il respiro pesante e la voce arrochita dal desiderio. Mi obbligai a separarmi da lei, dopo averla fatta tornare con i piedi per terra. «Nascondiamoci nel mio appartamento finché la strada non è libera, poi penseremo a come muoverci.»
«Stai parlando al plurale» osservò, l'ombra di un sorrisino canzonatorio sul volto.
«Ormai siamo coinvolti in questo casino insieme ed è tardi per tirarsi indietro. Sei dalla mia parte o vuoi ancora uccidermi?»
«Posso impegnarmi a non minacciare la tua vita per qualche ora, ma entro domattina ricomincerò a odiarti» stabilì.
Mi chinai sul suo orecchio, le scostai una ciocca di capelli bagnati dalla tempia e dichiarai in un sussurro provocante: «Ne riparleremo dopo che ti avrò dato una replica di ieri sera».
Larysa fremette, forse per il freddo o forse per colpa mia. Sistemò il cappotto sulle spalle ed esibì un autocontrollo che non possedeva, nell'accumulare distanza tra i nostri corpi ed entrare nel condominio. Una volta tornati nel mio appartamento, la priorità fu esaminare le condizioni di Tolstoj, che per fortuna non aveva riscontrato danni durante la lotta. Gli accarezzai il muso in segno di consolazione, grato che non fosse ferito, perché non me lo sarei perdonato. Tenevo a lui più di quanto mi importasse della mia stessa vita.
«Dovresti imparare a trattare le ragazze come tratti il tuo cane» mi pungolò Larysa, intanto che racimolavo alcuni effetti personali e li gettavo alla rinfusa in un borsone. «Non sei stato così delicato con me, stronzo.»
«Guarda che tu sei un'assassina» protestai. «Non conosci nemmeno il significato della parola "delicatezza".»
Sbuffò e si appoggiò al bancone della cucina, le braccia incrociate sotto al seno. Si era tolta il cappotto e non potei evitare di mangiarmi con gli occhi la sua figura longilinea, fasciata dall'uniforme intrisa d'acqua che le si era incollata addosso come una seconda pelle. Notando il mio sguardo insistente sulle sue curve, Larysa mi scoccò un sorriso ammiccante e si sedette sul ripiano di legno, con le gambe accavallate e la minigonna fradicia che le copriva appena le cosce.
«Non perdere troppo tempo a fissarmi, Val. La polizia è qui sotto. Dobbiamo andarcene da San Pietroburgo, siamo ricercati» mi ricordò, eppure non sembrava affatto intenzionata a lasciare casa mia. Nelle sue iridi riluceva una scintilla che tradussi come un chiaro invito a piegarla sul bancone. Cazzo, dovevo smetterla di immaginare scene simili.
«Non mettermi alla prova con quella faccia da finto angioletto. Sai che non mi conterrò» la avvisai, respirando a fondo per placare i miei istinti.
«Non so di cosa tu stia parlando» proseguì il suo gioco di falsa indifferenza. Poi l'espressione innocua si infranse, sostituita da una maliziosa e seducente. «Perché non me lo spieghi?»
Era una manipolatrice della peggior specie, una sirena incantatrice che ti stregava e imprigionava tra le sue grinfie, con il solo proposito di distruggerti. E io, che invece ero un marinaio cieco e stupido, non mi curai neanche del pericolo che rappresentava. L'attrazione che mi percorreva da cima a fondo era troppo intensa per essere ignorata, e mi spingeva dritto nella direzione di Larysa. Dunque finii di mia spontanea volontà nella sua trappola, nell'esatto istante in cui la fronteggiai e le nostre labbra impattarono con forza.
Fanculo la polizia, fanculo il Ghetto, fanculo la rivalità. Ti voglio da morire. Più di quanto mi sia concesso, più di quanto sia giusto.
Mi strinse i fianchi tra le gambe e le sue mani mi afferrarono il volto, tenendomi vicino a sé. La baciai con la stessa passione di poco prima, a cui lei rispose con altrettanta bramosia. Non ci fermammo neppure per spogliarci; continuai ad assaporare la sua bocca mentre la liberavo dal corpetto della divisa e le sfilavo la gonna. Larysa mi tolse la canottiera con gesti celeri, dopodiché trafficò con la mia cintura per sbarazzarsi anche dei jeans, che fu difficile rimuovere a causa del tessuto bagnato. Gli abiti volarono sul pavimento insieme all'intimo, le mani disegnarono carezze bollenti e le labbra si consumarono, sottraendosi l'ossigeno a vicenda dai polmoni.
Ci trovammo nuovamente nudi, la pelle cosparsa di brividi e goccioline d'acqua, e ci riscaldammo grazie allo sfregamento tra i nostri corpi in tensione. Larysa si sdraiò sulla superficie lignea, osservandomi dal basso con quegli occhi di ghiaccio imperscrutabili, e mi mancò un battito nel guardarla. Ero al cospetto di una Venere in carne e ossa, che dietro le sue fattezze perfette nascondeva un'indole perfida e crudele, ma dalla quale ero irrimediabilmente affascinato.
«Se ti stai approfittando di nuovo di me ed è solo una tecnica per ingannarmi, dimmelo subito» quasi la supplicai. «Se devi uccidermi, provaci adesso. Anzi, torna direttamente a Mosca, perché non ti torcerò un capello neanche in quel caso.»
«Nessun inganno, Valerio. Basta combattere, basta farsi la guerra. Non rovinerò qualunque cosa sia nata tra noi, per quanto sia strana e insensata» mi giurò, e la sua affermazione ebbe il potere di dissipare ogni dubbio.
Non tergiversammo con lunghi preamboli, poiché eravamo entrambi rinvigoriti dal desiderio di possederci e unirci senza attendere oltre. Quella era una corsa contro il tempo, contro i nemici che ci davano la caccia, contro le nostre origini e i nostri luoghi di appartenenza. Eppure, quando legai le miei dita con le sue e affondai tra le sue gambe, il mondo esterno scomparve. Sparirono i problemi e le preoccupazioni, perché il loro posto fu occupato dall'immagine di noi e dalla sensazione di benessere che mi avvolse.
Non avevo mai sperimento niente di simile a ciò che provai incastrandomi con lei, nemmeno la scorsa sera al night club. Stavolta era cambiato qualcosa, me lo sentivo nel petto, tra le pulsazioni forsennate del cuore. Niente sarebbe stato più come prima, nella mia vita monotona, non dopo che era arrivata Larysa a sconvolgerla.
Raggiunsi il culmine e Larysa mi seguì nel giro di pochi minuti, contraendosi intorno a me. L'orgasmo mi prosciugò di ogni forza, sconquassò entrambi e ci lasciò stremati. La ragazza si sollevò a sedere e si abbandonò sul mio torace, il viso seppellito nell'incavo del mio collo, allora la racchiusi tra le braccia e recuperammo fiato insieme.
«Non credo che riuscirò più a starti lontano» mormorai senza riflettere sul peso di quelle parole.
«Vieni a Mosca con me» mi propose di slancio, il respiro ancora affannato. Alzò il capo per legare le nostre iridi e dalla serietà della sua espressione capii che non era ironica. «Puoi stare a casa mia per un po', finché non capisci dove sistemarti.»
Mi lasciò talmente interdetto che impiegai qualche secondo più del necessario a rispondere. «Ti rendi conto che è una pessima idea, vero? Come ti giustificherai con Bayan?»
«Dirò a Egor che mi sei sfuggito, ma che in compenso ho ammazzato il nuovo boss dei Lupi. Non se la prenderà troppo» mi assicurò, sfiorandomi il profilo del viso. «C'è spazio per te e Tolstoj. Pensaci, ti prego.»
Non avevo bisogno di pensarci. Era una prospettiva folle, rischiosa e incosciente, ma d'altronde tutto ciò che ci riguardava lo era. Mi convinsi che si trattava solo di alcuni giorni, che avremmo condiviso la sua abitazione fin quando non avessi trovato un luogo migliore e che poi avrei rinunciato alla sua compagnia per sempre. Non sarebbe durata in eterno, lo sapevo già da allora, ma non volevo privarmi della possibilità di trascorrere altro tempo con lei, seppur minimo.
«D'accordo, biondina. Andiamo a Mosca» accettai e le sorrisi sghembo. «Da oggi divento il tuo segreto e tu diventi il mio.»
Koptevo, nord di Mosca, 18 novembre 2019
I giorni di convivenza si allungarono in settimane e le settimane si trasformarono in un mese. A un certo punto, nessuno dei due voleva più separarsi dall'altro.
Mi stabilii nel garage di Larysa, un quadrato ristretto occupato da una semplice brandina e una cuccia improvvisata per Tolstoj accanto a essa. Mi abituai velocemente a quella nuova sistemazione, forse perché a piacermi davvero era la padrona di casa e la sua presenza costante, sebbene mi rifiutassi di ammetterlo. Larysa scendeva a trovarmi di frequente e ogni occasione era buona per fare sesso, che tra noi era sempre fantastico e impareggiabile, di certo il momento migliore delle mie giornate da recluso.
Inizialmente era soltanto questo, scopare senza impegno, anche se vederla mi procurava una fitta allo stomaco e speravo che non se ne andasse mai. O, almeno, era ciò che ci ripetevamo. Una sera, però, invece di rivestirsi e tornare nel suo appartamento, restò sdraiata al mio fianco sulla brandina e parlammo fino a notte fonda, un evento più unico che raro.
Mi raccontò qualcosa di sé, della sua infanzia a Budapest, della madre che era stata uccisa da Egor per un debito di denaro e del boss del Ghetto che l'aveva rapita e addestrata come sicario. Mi confessò anche del deficit dell'attenzione e dell'iperattività che nessuno le aveva insegnato a gestire e che avevano contribuito in negativo alla sua indole impulsiva. Io, dal mio canto, le risparmiai la tediosa storia della mia famiglia e delle attività illecite che gestivamo per conto della mafia locale. Le illustrai invece le meraviglie della mia regione e del mio Paese, verso cui provavo una nostalgia immensa.
«Un giorno ti porterò al mare in Calabria» decretai all'improvviso, in tono scherzoso. Era una frase di circostanza, ma non negavo che la prospettiva di realizzare quell'idea mi allettava parecchio.
Allora, settimana dopo settimana, con il mio soggiorno a Mosca che aumentava di durata e le nostre conversazioni che diventavano più intime del sesso, iniziai a comprendere che non era solo il suo corpo a interessarmi. Volevo conoscerla, condividere le esperienze con lei, scoprire le sue passioni e tenerla sveglia con aneddoti sulla mia vita. Tra me e Larysa nacque un'intesa che nessuno poteva imitare o comprendere; ci recintammo in una quotidianità composta da attimi di passione feroce alternati a momenti di discorsi tranquilli e risate; intorno a noi si creò una bolla inscalfibile, tanto da dimenticarci della situazione critica nella quale ci eravamo infilati.
E alla fine, inevitabilmente, successe. Non rammentai l'istante preciso in cui accadde, ma per qualche ragione ignota e incomprensibile mi innamorai di Larysa. Non lo capii subito, certo che no, ma era già ovvio che non riuscissi a distaccarmi da lei e che ci stessimo legando in un modo che per noi era vietato. Eravamo nemici per natura, avremmo dovuto odiarci e respingerci, farci del male e rovinarci... però era vero che i sentimenti non si controllavano, dannazione. Credevo che la mia vita fosse già andata a puttane, invece mancava la batosta finale e a infliggerla era stata quel demone dalle sembianze angeliche.
Tenemmo segreta la nostra relazione clandestina per un mese, al sicuro tra le mura dell'appartamento di Larysa, che presto cominciammo ad abitare insieme. A volte uscivo a passeggiare con Tolstoj per le strade del quartiere, tuttavia mi mantenevo alla larga dal Ghetto Zaffiro, perché Egor Bayan aveva occhi ovunque e, se mi avesse scoperto a camminare indisturbato per la sua città, mi avrebbe riservato le più indicibili torture.
Andò tutto bene, finché non mi stancai e scelsi di cambiare la routine. Il giorno del mio compleanno acquistai due biglietti per la Transiberiana e convinsi Larysa a lasciare casa sua per intraprendere quel breve viaggio, così da concederci un pomeriggio rilassante. Cosa sarebbe potuto andare storto, d'altronde? Saremmo stati al sicuro nel treno che si dirigeva lontano da Mosca, verso la città di Jaroslavl.
I problemi iniziarono quando Larysa ricevette un messaggio da Maybelle Holsen, il sicario prediletto di Bayan, nonché mia rivale giurata e - ironia della sorte - la migliore amica della mia presunta ragazza. L'assassina che mi dava la caccia da mesi mi aveva rintracciato e stava venendo a prendermi, più agguerrita che mai. Non sospettava minimamente che mi trovassi con Larysa e che quest'ultima stesse portando avanti un doppio gioco. Aveva paura di parlare a Maybelle di noi due, poiché era scontato che la sua reazione non sarebbe stata positiva e che avrebbe fatto il possibile per separarci. Quella stronza mi odiava e io detestavo lei in egual misura.
«Non può vederti qui con me. Devi tornare a Mosca. Io resterò sul treno ad aspettarla» decisi.
Larysa mi osservò con la paura a sporcarle le iridi. «Stai attento, per favore. Proverà ad ammazzarti, ma tu cerca di non ferirla gravemente» mi implorò.
Ascoltai la sua richiesta, perché sapevo quanto tenesse a Maybelle e non volevo che soffrisse a causa mia. «Non preoccuparti, non la toccherò. Mi limiterò a fare ciò che mi riesce meglio: scappare. Fidati di me, gestirò la tua amica e tornerò a casa sano e salvo.»
Appoggiò i palmi sul mio volto e mi attirò sulle sue labbra per baciarmi. Durò un istante, uno sfioramento fugace, eppure valeva più di tante inutili parole. «Non morire, stronzo, non è ancora arrivato il momento di liberarmi di te.»
«Non ti lascerò, biondina» le promisi, ma quel giorno stesso capimmo che la nostra storia non era destinata a proseguire ulteriormente. Come ogni cosa bella, prima o poi, sarebbe dovuta arrivare a una conclusione.
Il momento di separarci giunse quando Maybelle scoprì tutto e minacciò Larysa di denunciarmi al loro boss. Dunque le ragazze suggellarono un accordo: avevo la possibilità di sopravvivere e di tornare in Italia, a patto che non mettessi più piede in Russia e tagliassi ogni ponte con Larysa. Non sopportavo il pensiero di lasciarla, ma non c'erano alternative valide. Se non avessi rinunciato a lei, allora sarei morto.
Era così ingiusto, cazzo, e faceva così male. Non mi ero mai sentito talmente perso e disorientato come quando Larysa mi riferì la conversazione avuta con Maybelle e mi disse che dovevo andarmene subito. Afferrai il biglietto aereo che mi aveva comprato, scoprendo di dover partire quella stessa sera.
«Cosa... cosa ne sarà di noi?» trovai il coraggio di domandarle, nonostante il groppo in gola che rendeva difficoltoso respirare.
Larysa evitò di incrociare il mio sguardo. Scorsi le lacrime che tratteneva agli angoli delle palpebre. «Niente. È finita qui, Valerio. Siamo stati troppo impulsivi e ciechi. Era una storia impossibile fin dall'inizio.»
«Possiamo cercare un'altra soluzione» mi opposi, l'angoscia che mi incrinò la voce. «Non arrendiamoci in questo modo. Ci sarà un...»
«Smettila, non ci sono altre soluzioni. Devi tornare in Calabria e dimenticarti di me. È la cosa migliore per entrambi» mi interruppe brusca. Dietro il timbro distaccato e le parole fredde, era palese che stava soffrendo con me.
«Verrai almeno a trovarmi?» la pregai. Suonavo come un coglione disperato, ma non me ne importava.
Larysa non mi rispose. Si alzò sulle punte e schiacciò le sue labbra sulle mie per l'ultima volta. Le asciugai con il pollice una lacrima che le solcò la guancia, poi la strinsi in un abbraccio, premendo il suo corpo contro il mio petto. Le accarezzai i capelli per consolarla, con una dolcezza che non avevo mai regalato a nessuno. Perché lei era sempre stata diversa e speciale, ai miei occhi, con la sua personalità tanto complicata quanto unica. Era uno di quegli uragani passeggeri ma devastanti, che si estinguono in fretta eppure stravolgono tutto ciò che trovano sulla loro strada.
«Anche se è stato breve, è stato meraviglioso. Credo di averti amato davvero» mi confessò in un bisbiglio rotto dal pianto.
Posai un bacio sulla sua testa. «Ti ho amato anche io, biondina. Ti amo ora e ti amerò in futuro. Non mi scorderò facilmente di te, puoi giurarci, nemmeno se non ci incontreremo più.»
Non sei il tipo di persona che si può estirpare dal cuore. Nel mio hai messo radici e ci resterai fino all'ultimo battito.
Angolo autrice
Buona domenica, readers miei 💖
Sono assente da un po' su Wattpad e devo scusarmi per i lunghi tempi di aggiornamento. Le ultime settimane sono state piuttosto intense e la mia ispirazione è un po' instabile, in questo periodo, motivo per cui ci metto tanto a scrivere. Mi auguro che il capitolo ne sia valso la pena <3
A ogni modo, ecco qui la seconda parte dell'extra di Valerio. Lui e Larysa scappano dalla polizia e dalla banda dei Lupi di Tambov e, tra una fuga e l'altra, i due si trovano di nuovo vicini. Decidono di andare a Mosca, Valerio si nasconde a casa di Larysa e alla fine si legano più di quanto dovrebbero, arrivando a innamorarsi.
Poi ci ricolleghiamo ai capitoli 25 e 26, dove May ha inseguito Valerio sul treno e ha scoperto della sua relazione clandestina con Larysa. Tra loro non si è conclusa nel migliore dei modi, dato che Valerio è tornato in Italia e purtroppo non si rivedranno in futuro. È una coppia a cui mi sono affezionata, nonostante i loro alti e bassi, e spero che abbia coinvolto anche voi :)
Con questo extra salutiamo anche il personaggio di Valerio, che d'ora in avanti non comparirà più. So che a molti piaceva e anche io lo adoro immensamente, quindi cercherò di dargli più spazio con la revisione.
Infine, nel prossimo capitolo torniamo da May e Connor (piccolo spoiler: 🍋) e comincerà finalmente la parte romance della storia, che stiamo tutti aspettando. L'attesa sarà ripagata, ve lo assicuro.
Vi ringrazio per il sostegno e per la pazienza, vi voglio bene ♡♡♡
Alla prossima!
{IG e tiktok: miky03005s.stories}
Traduzioni:
1) v prodazhe= in vendita
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