EXTRA - Seimir

Belgrado, Serbia, 7 novembre 2019

Quando si vive in una realtà come la mia, celata nell'ombra dell'illegalità e in fuga costante dalla giustizia, la libertà non esiste sotto nessuna forma.

Non puoi agire, parlare o pensare senza rischiare ripercussioni sulla tua esistenza o quella dei tuoi cari. Non puoi esprimere te stesso e i tuoi ideali, non puoi condividere la tua opinione se non sei autorizzato da chi comanda, non puoi compiere azioni che non sono state pianificate in precedenza.

Ero cresciuto nell'ambiente della Naša Stvar e non avevo mai avuto la possibilità di uscire dal confine della mafia serba. I miei genitori, abili evasori fiscali e truffatori, erano delle figure molto potenti nel giro del riciclaggio di denaro. Avevo ereditato il loro talento straordinario e mi avevano istruito affinché potessi aiutarli nei loro crimini fraudolenti, insegnandomi le tecniche più redditizie per ingannare i poveri malcapitati e colpirli dal punto di vista economico.

Avevo plasmato il mio carattere e represso la mia personalità, con lo scopo di adattarmi a ogni esigenza. Era più semplice indossare le maschere dei ruoli che interpretavo, se il volto era privo di espressioni. Quell'abilità la avevo acquisita con anni di pratica: durante gli incontri di affari diventavo un manichino imperscrutabile, animato dal solo obiettivo di compiere il lavoro che mi era stato assegnato.

Ben presto mi ero rivelato persino più bravo dei miei genitori, nell'arte della frode. La mia mente analitica e calcolatrice riusciva a scovare le debolezze delle nostre vittime, a raggirarle e a sottrarre il capitale che mi veniva richiesto. All'età di soli ventotto anni ero diventato un genio della truffa di denaro, ma ero anche abbastanza intelligente per capire che quella situazione non mi giovava affatto. Sebbene fossi io a rubare i soldi, non guadagnavo mai niente, poiché i miei genitori intascavano ogni singolo dinar.

Continuavo a procurare ricchezza alla mia famiglia, che aumentava esponenzialmente grazie al riciclaggio delle banconote false. Almeno, finché non realizzai che ero diventato il burattino dei miei genitori, il loro strumento per ottenere soldi sporchi e moltiplicarne la quantità a profusione. Non ricordavo l'ultima volta che mi avessero rivolto un sorriso riconoscente o un misero gesto di attenzione. Mi sfruttavano da anni senza ricompensarmi, avidi e gelosi del loro patrimonio crescente, che non dovevo azzardarmi a toccare.

Io, però, mi ero stancato di dipendere da loro. Desideravo trovare la mia strada e la mia autonomia; volevo smetterla una volta per tutte di derubare le persone innocenti per servire i miei genitori. Per quel motivo decisi di abbandonare Belgrado senza guardarmi indietro, recidendo ogni legame con la mia famiglia. Avevo ricevuto un'offerta che mi avrebbe permesso di ricominciare da zero: diventare il consulente finanziario e il contabile di Egor Bayan, un potente boss della mafia russa, nostro alleato da abbastanza tempo perché si fidasse di me.

Stavo riempiendo i miei bagagli, pronto a lasciare la città, ignorando le occhiate torve di mio padre e le continue lamentele di mia madre. Quel giorno stesso sarei scappato dalla gabbia che mi aveva reso prigioniero fin dalla nascita, e avrei cominciato a vivere secondo le mie regole. In un altro Paese, al riparo dal giogo e dalla sete di ricchezza dei Markovich.

Da oggi prendo in mano le redini della mia vita.

«Prima o poi ti renderai conto dell'errore madornale che stai facendo. Quell'uomo, Egor Bayan, è pericoloso. È meglio non intrattenere affari con lui e la sua organizzazione. Se credi che a Mosca troverai il riconoscimento che tanto cerchi o palate di soldi, ti stai sbagliando di grosso, Seimir» mi avvertì mio padre in tono minaccioso, gli occhi verdi ridotti a due fessure. Magari avrebbe anche provato a bloccarmi con la forza, se la mia corporatura non fosse stata molto più robusta della sua.

«Lascialo andare, Armand. Quando i russi gli rovineranno la vita e tornerà indietro strisciando, non dovrà osare presentarsi alla nostra porta» intervenne mia madre, e anche se stava parlando con suo marito, il suo sguardo gelido era fisso sulla mia figura. «Questa non è più casa tua, ingrato di un figlio, hai capito? Se uscirai, sarà per sempre. Non metterai di nuovo piede qui dentro.»

«Preferisco non avere più un posto nel mondo, che essere ancora sfruttato per aumentare gli zeri sul vostro conto bancario. Non starò più ai vostri ordini, non importa quanto proviate a intimidirmi. Ho chiuso con voi e con questa vita di truffe.» Per evidenziare il concetto appena affermato, sigillai la valigia producendo un tonfo sordo e caricai il borsone in spalla. Li osservai entrambi, sforzandomi di celare la delusione e l'amarezza dietro un'espressione impassibile. «Deduco che questo sia un a mai più rivederci. Sapete, mi dispiace che ora non ci sarà nessuno a procurarvi il denaro. Anzi, rettifico: non me ne frega un cazzo.»

Un sorriso di scherno mi piegò le labbra e provai un'immensa soddisfazione nel vedere i loro volti contratti dalla furia, poiché non potevano in alcun modo impedirmi di abbandonarli. Mi girai senza degnarli di un'altra occhiata o parola di commiato; non avevo niente da aggiungere e loro non sapevano come ribattere.

In seguito varcai la soglia di casa per l'ultima volta, diretto all'aeroporto dove mi aspettava il jet privato mandato da Egor Bayan, che mi avrebbe condotto lontano da Belgrado e dalla mia famiglia.

Mosca, Russia, 27 novembre 2019

Al contrario di ciò che sostenevano i miei genitori e dei loro avvertimenti esagerati, non incontrai difficoltà iniziando a svolgere il mio nuovo lavoro. Le prime settimane a Villa Zaffiro superarono i miei pronostici: Egor mi rispettava e mi pagava bene, considerava le mie opinioni e si fidava del mio intuito, ritenendomi capace di amministrare il suo patrimonio al meglio delle mie capacità.

Non era di certo un brav'uomo ed ero consapevole che sarebbe bastato commettere un minimo errore per perdere la sua stima, forse rischiando addirittura di essere ucciso da uno degli assassini che componevano il suo esercito privato. Non ero ingenuo, dato che anch'io provenivo da un ambiente dove il pericolo di morte era costante, perciò dovevo stare attento a ogni mossa che compivo. Non avevo intenzione di sprecare quell'opportunità e tornare a Belgrado, né in vita né in una bara di legno.

Inoltre, avevo persino fatto una nuova conoscenza, che potevo definire amicizia. Daniel Holsen era un ragazzino di diciassette anni, dunque molto più piccolo di me, e abitava nella Villa con sua sorella Maybelle. Non conoscevo nulla del suo passato, solo che era nato e cresciuto a San Diego, ma non mi aveva raccontato come fosse finito dagli Stati Uniti alla Russia. Sapevo che sua sorella era uno dei sicari più abili e temuti del vory, mentre Danny non occupava alcun ruolo nell'organizzazione del Ghetto.

E sapevo anche che la sua passione più grande era la letteratura, in particolare gli autori russi di cui avevamo tanto discusso durante i nostri incontri sporadici in biblioteca. Nonostante la differenza d'età, condividevamo molti più interessi di quanto avrei immaginato. Danny era tanto giovane quanto innocente, ma era un ragazzo sorprendentemente maturo, ed era palese che portasse sulle spalle il peso di un passato arduo.

Avevamo stabilito in poco tempo una routine tutta nostra: ci vedevamo quasi ogni giorno in biblioteca, sceglievamo qualche romanzo di cui parlare e trascorrevamo l'intero pomeriggio tra argomentazioni e pareri personali. Era un modo per esprimere le considerazioni nascoste che non aspettavo altro che uscire allo scoperto, davanti a una persona capace di coglierne le sfumature.

C'era intesa, tra di noi, e non solo grazie ai libri che amavamo entrambi. Era stata senza dubbio la lettura a farci conoscere e a unirci, ma il nostro rapporto si era poi costruito sulle fondamenta di due personalità simili e affini. La base di quel legame - nato per assoluta casualità, eppure che in fondo avevo sempre ricercato - era composta dai mattoni solidi dell'amicizia, della condivisione degli interessi e dell'apprezzamento della compagnia reciproca.

Con lenta dolcezza, stavamo valicando il confine sottile che separava l'affetto amichevole dai sentimenti più profondi. Il vero problema cominciò quando capii che non sarei riuscito più a privarmi della sua presenza, del luccichio nelle sue iridi acquamarina mentre raccontava la sua scena preferita di un romanzo, delle risate armoniose che mi concedeva raramente, in grado di illuminare tutta la stanza e rallegrarmi l'animo.

In termini più semplici e schematici, Danny stava diventando la persona che avevo sempre sperato di trovare e che desideravo al mio fianco. Oppure lo era già, solo che una parte di me faticava ad ammetterlo, un po' per colpa degli undici anni che ci separavano, un po' per timore che Egor avesse scoperto qualunque cosa si fosse instaurata tra me e il fratellino di Maybelle Holsen.

Avrei dovuto allontanarmi da lui, a quel punto, ma ero troppo coinvolto per averne il coraggio. Non mi ero mai sentito così scombussolato nei confronti di nessuno, perché le mie precedenti relazioni erano state brevi e insignificanti. Non volevo perdere il legame che stavamo creando per alcun motivo.

«Stasera sei piuttosto pensieroso e distratto.» La voce di Danny scalfì la coltre di riflessioni che mi imbottiva la testa. «C'è qualcosa che ti turba? Hai avuto problemi con il lavoro?»

Mi accorsi che mi ero fossilizzato con lo sguardo puntato sul pietrisco del suolo e che, per una manciata di secondi, mi ero estraniato dalla realtà. Agganciai le pupille negli occhi di Danny, che mi scrutava confuso e preoccupato. Era sempre così premuroso nei miei riguardi, come se non sopportasse l'idea che stessi male per la benché minima ragione.

Stavo pensando a te e a quanto mi hai stravolto l'esistenza in meno di un mese, ma è meglio se non te lo dico, altrimenti ne deriverà un gran casino.

«No, tranquillo, non è niente di importante» lo rasserenai, accompagnando la frase con un sorriso appena abbozzato. Per dissipare la sua incertezza e cambiare argomento di conversazione, gli posi una domanda: «Hai fame? Ho letto che qui vicino c'è un mercato gastronomico, se ti va un po' di street food.»

Il ragazzo annuì, in accordo con quella proposta, e riprendemmo a camminare lungo il perimetro di mattoni rossi del Cremlino. Il centro storico di Mosca era accarezzato dal nevischio, che si infiltrava fastidioso oltre il colletto della giacca pesante e tinteggiava le strade di un bianco candido.

Avevo chiesto a Danny se gli sarebbe piaciuto uscire a fare una passeggiata, per cambiare aria e liberarsi dal solito scenario della biblioteca. Malgrado la sua ostilità verso i luoghi pubblici e affollati, ero riuscito nell'impresa di convincerlo, con mia grande soddisfazione.

Non si trattava di un appuntamento romantico, - anche se non negavo che l'idea mi aggradasse - ma una comune escursione tra amici. Perlomeno, mi obbligai ad assumere quel punto di vista. Non potevamo permetterci altro, non in un Paese ben distante dalla tolleranza, non sotto la sorveglianza di Egor Bayan, non con la vita pericolosa che conducevamo.

Per questo stavo attento a mantenere una certa distanza tra i nostri corpi, reprimendo il desiderio di avvicinarmi per trasmetterci calore in quella giornata gelida di fine novembre. Indicai a Danny la nostra meta: il vasto parco Zaryadye, situato a pochi passi dal cuore della città. Tra gli alberi spogli delle loro chiome e l'erba ghiacciata dalla brina, sorgevano le bancarelle della piazzetta gastronomica, dove i venditori servivano specialità tipiche a base di carne o pesce.

Sebbene fossi arrivato in Russia da poco tempo, apprezzavo già la sua cucina variegata. Ci fermammo davanti a un banco da cui proveniva l'odore invitante di frittura e ordinai due porzioni di ceburek, dei fagottini di pasta fritta a forma di mezza luna e ripieni di carne macinata, cipolle condite e talvolta formaggio. Afferrai i coni di carta bollenti, colmi di quelle delizie, e ne passai uno a Danny.

Dopodiché, ci incamminammo fuori dal perimetro del parco, per ritornare verso il Cremlino. Avevo notato il palese disagio che Danny esprimeva nel trovarsi in mezzo a una folla troppo numerosa, motivo per il quale lo condussi in un angolo più appartato e calmo. Ci sedemmo su una panchina riparata dalla facciata di una cattedrale imponente, - di cui mi sfuggiva il nome - con le sue cupole dorate che sfavillavano alla luce dei raggi lunari e dei lampioni.

«Mia sorella saprebbe descrivere questi edifici a occhi chiusi. Ha una vera passione per l'architettura e la storia dell'arte» commentò all'improvviso Danny, e gli sfuggì un sorriso tenero. Ogni volta che nominava Maybelle, il suo sguardo si accendeva di un brillio amorevole, segno dell'immenso affetto che nutriva per lei e del legame unico che solo i fratelli possedevano.

«Tu, invece, preferisci i libri e la letteratura. Dico bene?» intuii, poi afferrai un ceburek ancora caldo e ne addentai un angolo.

Danny confermò con un cenno del capo, l'aria pensierosa mentre sbocconcellava il cibo fritto. Il silenzio risuonò tra noi per qualche secondo, finché non decise di affidarmi un altro frammento del suo animo delicato: «È sempre stato il mio rifugio, la biblioteca, e i libri i miei migliori amici. Quando sei rinchiuso in un luogo che sembra una prigione, dopo aver perso le certezze della tua vecchia vita, senza motivi per continuare a svegliarti ogni mattina dai soliti incubi... non hai altra scelta che cercare un modo per sopravvivere a quel tormento. La mia salvezza è stata la lettura, che mi ha fatto compagnia nei periodi peggiori. È l'unica cosa che mi faccia sentire capito, l'unica ragione per cui non ho smesso di esistere».

I suoi occhi evitavano di incrociare i miei, eppure riuscii a scorgere il mare di tristezza che sporcava quelle iridi così cristalline e deturpava i lineamenti angelici del suo volto. Per la sua giovane età, aveva sofferto in maniera non quantificabile: mi bastava osservarlo per decifrare l'angoscia che lo attanagliava, insieme ai ricordi di un passato burrascoso che lo perseguitava come uno spettro. Avrei tanto voluto stringerlo tra le mie braccia e donargli anche una misera stilla di conforto, ma mi sentivo impotente dinanzi al male che lo consumava.

Cosa ti è successo, Dan? Se potessi, ti strapperei via tutto questo dolore e me lo prenderei al posto tuo, oppure ti aiuterei a diminuire il carico, perché qualcuno puro e buono come te non merita di soffrire neanche per un istante. E se ti avessi conosciuto prima, giuro che ti avrei protetto, a costo di distruggermi nel farlo.

Tuttavia, non gli rivelai quel pensiero così intimo, perché temevo di oltrepassare un limite già abbastanza fragile. «Capisco la sensazione. Anche per me i libri sono sempre stati un supporto in grado di aiutarmi nel momento del bisogno, grazie a cui mi sono sentito compreso quando non c'era nessuno. Mi hanno mostrato una nuova prospettiva della vita, insieme ai numeri e alla matematica, che portano ordine in una realtà troppo confusionaria» decisi di rispondere con una verità parzialmente simile alla sua esperienza.

«Sono due cose abbastanza differenti, non credi?» notificò, permettendomi di immergermi nella limpidezza delle sue iridi. Mi osservava incuriosito e affascinato, come se ogni opinione da me pronunciata raffigurasse una sentenza da assimilare e custodire. Dovevo soppesare le parole con precisione minuziosa, considerato il riguardo che Danny riponeva in esse e, di conseguenza, il desiderio di non deludere le sue aspettative.

«Io sono dell'idea che, sebbene siano concetti distanti e spesso inconciliabili, l'uno non possa esistere senza l'altro» affermai sicuro. «L'universo concreto e materiale che ci circonda è formato da regole scientifiche e geometriche, che compongono ogni singolo essere vivente e non. Allo stesso modo, l'universo nella nostra immaginazione nasce grazie alla creatività, che traduce i pensieri astratti in diverse forme artistiche, per esempio i libri. Adesso rifletti su una questione: è davvero possibile vivere soltanto in uno dei due?»

Danny sembrò pensarci a fondo, le sopracciglia increspate in un cipiglio concentrato. «Se la metti così, allora suppongo che persino la matematica e la letteratura possano andare d'accordo.»

«Mai farsi ingannare dalle apparenze, Dan» dichiarai, lasciandomi sfuggire quel soprannome confidenziale. Eppure, non mi pentii di averlo pronunciato: mi piaceva il suono che produceva scivolando dalle labbra.

Lui, per tutta risposta, sorrise raggiante. «Non sono il tipo di persona che si ferma alla superficie.»

Quella stessa notte, fu lo squillo del telefono a svegliarmi. Sullo schermo lampeggiava il nome di Daniel, perciò non esitai ad accettare la chiamata. Mi domandò se potessi raggiungerlo in biblioteca, nonostante l'orario tardo, e dal tremore che spezzava il suo tono di voce gracile capii subito che qualcosa lo turbava.

Confermai senza remore e gli promisi che sarei arrivato in pochi minuti. Il senso di protezione che nutrivo verso quel ragazzino mi spingeva ad assicurarmi che non gli fosse successo niente di negativo. Mi imposi di scendere dal letto, vestirmi in fretta e precipitarmi ad aiutarlo, qualunque fosse il problema.

Uscii dalla mia camera e scesi velocemente le scale fino al piano terra di Villa Zaffiro; i corridoi dell'immensa abitazione erano deserti e nell'oscurità rimbombava l'eco dei miei passi rapidi. Ormai avevo imparato a memoria la strada per dirigermi in biblioteca, che percorsi al buio senza difficoltà. Quando varcai l'ingresso della sala colma di scaffali e libri, una soffusa luce dorata mi avvolse. Mi guardai attorno in modo frenetico, alla ricerca di Danny, che individuai seduto sul divanetto di pelle di fronte al camino acceso.

Mi affrettai ad avvicinarmi a lui e mi posizionai al suo fianco. Si era incantato a fissare il piccolo focolare, quasi ipnotizzato dal crepitio del fuoco e dalle scintille emesse dalle fiamme. Notai i residui di lacrime che gli imperlavano le ciglia, inumidendo gli occhi chiari, e i fremiti che scuotevano il suo corpo esile.

«Dan, ci sei? Cos'è successo? Stai bene?» gli domandai a raffica, con evidente apprensione.

Gli sfiorai una spalla e lui sussultò, come se si fosse accorto solo grazie a quel gesto del mio arrivo. Spostò le sue iridi arrossate dal pianto sulla mia figura. «Seimir» mormorò in un soffio rauco, sorpreso che fossi davvero arrivato in suo soccorso. Il suo viso aveva un colorito paurosamente pallido e la sua espressione era stravolta.

«Sì, sono qui» lo confortai, accarezzandogli la schiena in punta di dita. «Allora, mi dici cos'è successo?»

Danny respirò a fondo, per placare i tremori e munirsi del coraggio necessario per parlare. Dopo aver accumulato ossigeno a sufficienza, si aprì e mi raccontò i dettagli dell'incubo che lo affliggeva ogni notte, un flashback della sua infanzia che lo aveva segnato in eterno con una cicatrice ancora sanguinante.

«Faccio sempre lo stesso identico sogno, da sette anni. A volte cambiano lo scenario e le persone coinvolte, ma il finale resta invariato: i miei genitori muoiono, Egor rapisce me e mia sorella e ci rinchiude in questa gabbia di ricchezza e morte.» Si interruppe un secondo e strinse le ginocchia al petto, circondandole con le braccia. «Quell'uomo ci ha rovinato l'esistenza. Niente è più come prima. Ha trasformato May in un'assassina e mi ha portato via anche lei. Io sono un inutile prigioniero, qui dentro, e ho trovato la via di fuga peggiore...» Scostò la manica lunga del pigiama e mi mostrò una serie di tagli rimarginati, incisi dal polso all'altezza del gomito. «Ultimamente sto provando a smettere e, piano piano, sento che sto uscendo dal tunnel. Vorrei solo tornare a stare bene, anche se per qualche misero istante. Chiedo forse troppo

Una fitta mi trapassò il cuore e un nodo mi occluse la gola, mentre osservavo i segni di quel dolore autoinflitto, l'unica valvola di sfogo che Danny aveva usato per anni. Un improvviso odio verso Egor Bayan mi sormontò, serpeggiò tra le viscere ed esplose ovunque. Cominciai a detestarlo con ogni cellula che mi costituiva, perché soltanto uno spregevole bastardo avrebbe potuto ridurre la vita di due ragazzini in frantumi.

E quindi, guidato da una scarica di empatia e determinazione, sugellai una promessa con me stesso: avrei liberato Daniel dalle grinfie dell'uomo che lo aveva intrappolato lì, lo avrei difeso dalla crudeltà del Ghetto e gli avrei restituito tutti i sorrisi che aveva perso.

Giuro che ti proteggerò, a costo di distruggermi nel farlo, mi ripetei per la seconda volta. Invece di rimpiangere il passato, però, lo interpretai come un giuramento da perseguire nei giorni futuri, finché ne avessi avuto l'opportunità.

In un gesto improvviso, attirai Danny al mio petto e lo racchiusi tra le mie braccia; lui non si tirò indietro, affondò il naso nell'incavo del mio collo e si rifugiò in quella stretta. Passai le dita tra i suoi capelli in disordine, compiendo movimenti dolci e cadenzati con l'obiettivo di tranquillizzarlo.

«Grazie, Seimir. Avevo bisogno di qualcuno che mi ascoltasse. Mi sei rimasto accanto nelle ultime settimane e per un po' sei riuscito a farmi dimenticare di ogni problema» asserì, regalandomi un sorriso riconoscente.

«E continuerò a starti accanto fino a quando lo vorrai, Dan» gli sussurrai all'orecchio.

Ci separammo per guardarci negli occhi, incapaci di troncare il contatto visivo, un'unione di verde e acquamarina le cui sfumature si mescolavano e confondevano. Gli sfiorai una guancia con i polpastrelli e la pelle dello zigomo arrossì leggermente, conferendogli un aspetto adorabile. Le nostre pupille incatenate, i respiri che si amalgamavano e il desiderio che vibrava come scariche elettriche tra i nostri corpi.

Poi, trainato da un impulso cieco e senza pensare alle conseguenze, infransi i pochi centimetri di lontananza e feci combaciare le nostre labbra. Appoggiai con delicatezza la bocca su quella di Danny e lui, in seguito a un iniziale momento di immobilità dovuto allo stupore, ricambiò quel bacio inaspettato per entrambi.

Ci baciammo lentamente, non in modo irruento né passionale: fu uno scontro gentile di labbra, ci accarezzammo con cautela e flemma, ci scoprimmo e assaporammo senza furia. A pilotarci era un'emozione che affiorava sempre più intensa e totalizzante, delineata da quei pomeriggi trascorsi in biblioteca e dalle confidenze che ci eravamo scambiati. Un sentimento che era sbocciato in maniera graduale, aumentando di forza a ogni scambio avvenuto in quelle settimane.

Era sbagliato, ma non volevo rinunciare a tutto ciò. Non volevo perdere quello scorcio di felicità appena trovata.

Mi staccai piano da Danny, le mani che gli sorreggevano ancora il volto, e il luccichio nei suoi occhi rispecchiava il mio tumulto interiore. «Non avremmo dovuto avvicinarci così tanto, lo sai, vero? Hai solo diciassette anni, inoltre Egor si fida di me e non approverebbe una situazione del genere. Non posso rischiare un licenziamento, o addirittura la vita. Se lo venisse a scoprire, non ci risparmierebbe.»

«Lo so, lo so, non sono così ingenuo. Però... tu mi piaci davvero, Seimir, e non ho mai provato per nessuno qualcosa di simile. Finalmente mi sento nel posto giusto con la persona giusta, mi sento compreso e al sicuro, mi sento speranzoso. E sono pronto a giocarmi tutto, pur di continuare a stare con te.»

Ero combattuto, i pensieri spaccati a metà dall'incertezza e dal timore. Valeva la pena metterci entrambi in pericolo, sotto al mirino di Egor, per non spezzare il nostro rapporto? Saremmo riusciti a nasconderci e non farci scoprire? Ero talmente egoista da riporre il mio desiderio sopra all'incolumità di Danny, sapendo che lui ricambiava ciò che provavo?

«Anch'io ho paura che non vada a finire bene, ma Egor mi ha già tolto abbastanza dalla vita. Non permetterò alla sua minaccia di rubarmi anche la prima briciola di amore che mi è stata concessa» affermò, risoluto come non lo avevo mai visto da quando ci conoscevamo. «Vogliamo rischiare insieme o vogliamo arrenderci?»

«Ne sei proprio sicuro, Dan? Dovremmo tenere questa relazione segreta. Sei in tempo per tirarti indietro» ribadii, nonostante la sua decisione fosse già stata decretata.

Per confermare la scelta che aveva preso, e che alla fine condivisi anche io, intrecciò le dita tra i miei capelli e mi baciò di nuovo. Fu il punto di svolta, l'ultimo passo per superare il confine, l'epicentro di un terremoto che avrebbe trasformato le nostre esistenze. Fu l'inizio di una storia di salvezza e la fine di un tormento doloroso; fu rinascita e redenzione.

Eppure... chi l'avrebbe mai immaginato che quel ragazzino così puro e innocente avrebbe rappresentato anche la mia condanna a morte.

Angolo autrice

Ciao a tutti readers 💘

Eccoci finalmente con il capitolo extra dedicato a Seimir, un personaggio a cui finora non era stato dato molto spazio. Spero che leggendolo vi siate affezionati un po' di più a lui, dato che io lo adoro.

Scopriamo il suo passato da truffatore a Belgrado e di come è finito a lavorare per Egor, solo per il desiderio di trovare l'indipendenza dalla sua famiglia. Avrà fatto la scelta giusta o avrà delle ripercussioni?

Almeno a Villa Zaffiro ha incontrato Danny, con cui ha creato un legame molto speciale... sono innamorata di questa coppia e mi è piaciuto un sacco scrivere questo capitolo. Aspetto le vostre opinioni in merito!

Nel capitolo 31 torneremo da May e Connor e cominceremo a divertirci, state pronti 👀

Al prossimo aggiornamento! Xoxo <3

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