EXTRA - Larysa

Budapest, Ungheria, 16 agosto 2012

Mi ero sempre considerata forte. Fisicamente, mentalmente, caratterialmente.

Per avere solo dodici anni, ero piuttosto alta e allenata. Ero più scaltra e intelligente di molti adulti e avevo una personalità che a mia madre piaceva definire di fuoco.

Questo perché ero un vero e proprio incendio ambulante: seminavo disastri ovunque passassi e riducevo in polvere qualsiasi cosa o persona mi intralciasse.

I miei compagni di scuola mi evitavano, per paura di finire come quel bambino a cui avevo rotto un braccio spingendolo dalle scale. Mi aveva dato della stupida perché non riuscivo a leggere correttamente, e non era certo colpa mia se le sillabe si mescolavano tra loro e le parole non avevano senso quando le guardavo.

Non mi stupii quando mi cacciarono dalla facoltosa scuola a cui ero iscritta. Mi rifilarono un'insegnante privata, ma scappò dopo appena due settimane. Credo che anche kisasszony Nakano fosse terrorizzata da me. Non ero facile da gestire, soprattutto se mi mettevi davanti brani lunghi più di due pagine che non ero in grado di decifrare.

Il mio pessimo comportamento era dovuto anche al mio disturbo dell'iperattività. Ero irrequieta, impulsiva, aggressiva con chiunque mi infastidisse. Il deficit mi era stato diagnosticato all'età di sette anni ma non avevo mai cominciato una terapia.

Secondo mia madre, potevamo sfruttarlo come carburante. Voleva che mi lasciassi avvolgere da quelle vampate di rabbia, che mi fidassi delle idee irrazionali che il mio cervello mi suggeriva.

La mamma era fiera di me. Stava crescendo una mina vagante, una bomba a orologeria, una terrorista, e ne era orgogliosa.

Forse perché diventavo ogni giorno sempre più simile a lei. Rappresentavo la perfetta erede del suo impero fondato sul riciclaggio di denaro. Ero la sua principessa e nessuno osava toccarmi. Niente poteva scalfirmi.

E sicuramente non mi sarei mai aspettata di crollare su me stessa e affogare nelle lacrime e nei singhiozzi, trovandomi al capezzale del suo cadavere.

Piansi come non mi era mai stato permesso di fare, con le mani imbrattate del sangue che le sgorgava da almeno una decina di fori sul petto, mentre la scuotevo e la imploravo di riaprire gli occhi.

Dorika Kovács era un potente capo mafioso ed era una donna indipendente. Due motivi più che sufficienti per ucciderla.

Mi aveva avvertita molte volte, nel corso dell'ultimo mese. Aveva sottratto un'ingente somma di denaro a un gruppo di mafiosi russi e sapeva che prima o poi sarebbero arrivati a domandare un riscatto. Ci stavamo preparando per lasciare Budapest, ma loro ci avevano precedute.

Nel salotto della nostra villa c'erano due uomini, uno vestito elegantemente e uno coperto di tatuaggi. Dedussi che quest'ultimo fosse l'assassino della mamma. Non l'avevo visto con i miei occhi, dato che mi trovavo nella mia cameretta quando avevo udito la sequela di spari, ma imbracciava un fucile a pompa.

L'uomo in giacca e cravatta si avvicinò e piegò le ginocchia fino alla mia altezza, scrutandomi a fondo con i suoi occhi scuri. Allungò le dita e mi portò una ciocca bionda dietro l'orecchio, in un gesto gentile che non rifiutai.

«Ti chiami Larysa, vero?» mi domandò in un perfetto ungherese.

Annuii e basta. Mi ero spenta all'improvviso, prosciugata di ogni stimolo. La mia forza esplosiva era morta insieme alla mamma, perché senza di lei non mi rimaneva nessuno da rendere orgoglioso. Senza di lei, non servivo a niente.

«Tua madre mi ha fatto un torto molto grave, Larysa, e l'ha pagato con la vita. Te l'ha insegnato, che si saldano sempre i propri debiti?»

Annuii di nuovo. Nella realtà dove ero nata e cresciuta vigeva la legge del taglione. Se sottraevi un bene prezioso a qualcuno, quella persona era autorizzata a toglierti qualcosa che avesse ancora più valore.

«Tu sei parte del debito» mi informò. Si rimise in piedi e mi porse la mano. Aveva un anello d'argento a ogni dito. «Mi hanno detto che sei molto brava a combattere. Io posso renderti la migliore. Che ne pensi?»

Mi parve di riascoltare una delle primissime lezioni che mi aveva impartito la mamma. Nei giorni scorsi aveva insistito molto nel ripetermela, come se avesse previsto che sarebbe morta di lì a poco.

Non lasciare mai conti in sospeso con nessuno, LaLa, neanche con il peggiore dei nemici. Onora i tuoi impegni e rispetta i tuoi doveri.

Quindi, sporca di sangue e con le ciglia grondanti di lacrime, strinsi la mano dell'uomo e mi alzai.

Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca

Egor Bayan - scoprii il suo nome sul jet privato che volò da Budapest a Mosca - mi condusse nella sua base operativa, chiamata Villa Zaffiro.

Mi assegnò una camera al primo piano e mi diede il tempo di lavarmi e cambiarmi d'abito. Una signora di nome Klara mi aiutò a indossare il vestito blu che trovai sul letto.

Ero in uno stato di inerzia totale. Avevo la sensazione di essere imbottita di anestetici. Il mio cervello aveva attuato un meccanismo di salvaguardia, svuotandomi da ogni emozione.

Ma sapevo che presto sarei detonata. Era questione di tempo.

Raggiunsi la cucina, dove trovai Egor seduto al tavolo. Insieme a lui c'erano due ragazzini, un maschio e una femmina, forse della mia età.

«Larysa,» Egor mi invitò a sedermi con un cenno della mano, «vieni, ti presento i tuoi nuovi amici.»

La ragazzina con le trecce nere si chiamava Maybelle, e quello più piccolo era suo fratello Daniel. Avevano entrambi le iridi di un blu mischiato al verde, ma i loro sguardi esprimevano sensazioni diverse: quello di Daniel era un concentrato di paura e dolore; quello di Maybelle era completamente vacuo.

Mi rispecchiai nella sua apatia. Me la sentivo appiccicata addosso. E sapere che non ero l'unica a provarla... mi aiutava.

Non ci rivolgemmo parola, durante la cena. Non alzammo la testa dal piatto, ma non mangiammo nulla. Capii che anche loro avevano affrontato un trauma simile al mio, per essere ridotti così.

E dato che non ero una che si perdeva in preamboli inutili, dopo che la cena fu conclusa ed Egor si ritirò nel suo ufficio, mentre salivamo le scale per tornare al piano superiore, glielo chiesi.

«Ha ucciso anche i vostri genitori?»

Maybelle si arrestò sul gradino, diventando di pietra. Mi rivolse un'occhiata gelida. Il mio inglese non era ottimo, quindi temetti di averla offesa per errore.

«Sì» disse, alla fine. «E i tuoi...»

«Mia madre» risposi. «Mio padre non l'ho mai conosciuto.»

Sul suo conto sapevo soltanto che era stato uno degli schiavi del piacere della mamma e che avevo ereditato i suoi capelli di filigrana dorata. Probabilmente l'aveva ucciso una volta scoperto di essere rimasta incinta. Non me importava molto, in realtà. Un genitore mi era più che bastato.

Arrivammo in cima alla rampa e mi sedetti sull'ultimo scalino. Maybelle mi imitò, suo fratello stretto al fianco. Li invidiai: a me non era rimasto nessuno, se non me stessa.

Scambiammo qualche chiacchiera futile. Mi chiese di chiamarla semplicemente May, perché il suo nome intero lo utilizzava Egor.

«Lo odio» esalò a bassa voce. La sua dichiarazione contrastava con la maniera dolce con la quale accarezzava la schiena di suo fratello, che si era appisolato contro la sua spalla. «Lo odio con tutta l'anima.»

«Ha detto che vuole rendermi la migliore» ricordai. «Forse vuole addestrarmi.»

«Credo che voglia addestrare anche me. Ho ferito uno dei suoi uomini e devo averlo impressionato» confessò May.

Mi raccontò nei dettagli la morte dei suoi genitori, avvenuta solo una settimana prima. Mi stupì constatare che erano due poliziotti. Realizzai che May proveniva da un mondo normale, dove non esistevano le leggi della vendetta e dell'onore.

Io, invece, non ero nuova a quell'ambiente malsano. Non mi dispiaceva il trasferimento a Mosca, in fin dei conti: non ero mai stata così legata a Budapest. Ero indifferente agli orrori della mafia.

Volevo solo mia madre indietro. E dato che non potevo riaverla, avrei dovuto trovare un altro modo per affrontare la sua perdita.

«Possiamo addestrarci insieme, se ti va» le proposi. Aggiunsi, un po' titubante: «Potremmo diventare alleate».

Allargò le palpebre. «Davvero?»

«Si dice che con una persona fidata accanto diventi tutto più semplice, e io ho un disperato bisogno di liberarmi di questo peso. Non so se è vero, perché non ho mai avuto un amico, ma possiamo scoprirlo insieme.» Le porsi la mano, come avevo visto fare da mia madre tante volte. «Ci stai, May?»

Senza esitare, legò le nostre dita. Quella fu la prima volta in cui la vidi sorridere. «Ci sto, Larysa.»

«Tanto per iniziare, chiamami LaLa. E seconda cosa... questo posto ha una palestra?»

Angolo autrice

Come vi avevo promesso, ecco l'extra su Larysa💘 Ormai l'avete capito che ho un debole per lei. Ha una personalità molto particolare, e ciò è dovuto principalmente ai suoi disturbi e al modo in cui è cresciuta.

Volevo che si notasse la differenza tra lei e May: Larysa è figlia di una mafiosa e ha vissuto in un ambiente simile a quello del Ghetto, mentre May non aveva niente a che fare con quel mondo. Proprio per questo May si è ribellata e LaLa ha accettato a testa bassa di essere portata a Mosca.

Forse vi aspettavate che avrebbe generato il caos, visto il suo carattere, ma come ha detto lei le è stato insegnato a pagare i propri debiti, ed è ciò che ha fatto. Spero che questa scelta sia abbastanza chiara :3

Avete già qualche idea su chi sarà il protagonista del prossimo extra? 👀

Ci vediamo sabato con il capitolo 6! E sì, tornerà Connor✨️

Xoxo <3

Traduzioni:

1) Kisasszony= signorina

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top