EXTRA - Egor (parte II)

Avvertenza: il capitolo contiene scene esplicite di violenza, aggressione, omicidio e rimandi a una relazione malsana. Vi ricordo che non intendo assolutamente romanticizzare certe dinamiche, ma solo mostrarvi le diverse sfaccettature di un personaggio moralmente grigio. Se credete che possa urtare la vostra sensibilità, leggete direttamente il riassunto nella nota finale.

Per chi è curioso di proseguire, buona lettura <3

Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 4 novembre 1998 (ventuno anni prima)

Durante le prime settimane di residenza a Villa Zaffiro, Sofiya mi dedicò esclusivamente il suo silenzio punitivo e rancoroso. Tuttavia, per arrivare a quella situazione di presunta tranquillità, c'era stata un'escalation infernale: aveva provato a ferirmi e a scappare numerose volte, aveva rifiutato di mangiare per giorni interi, aveva urlato fino a perdere la voce e le speranze.

Era stato un periodo turbolento e anch'io ne avevo risentito. Mi aveva sfregiato la pelle di tagli, spaccandomi una bottiglia di vetro sulla mano. Aveva pianto in modo isterico, fino addirittura a svenire, a causa della debolezza fisica. Era stata persino in ricovero nell'infermeria della Villa, quando aveva prolungato il suo ostinato sciopero della fame.

Avevo cercato di risolvere quegli imprevisti, piazzando una guardia perenne di fronte alla sua stanza e chiedendo a una domestica di controllarla, per assicurarsi che si nutrisse abbastanza e non compisse atti estremi. Il primo giorno aveva minacciato di suicidarsi, se non l'avessi lasciata libera, ma sapevo che non ne avrebbe avuto il coraggio e che era un disperato tentativo di dissuadermi.

Avevo ridotto il numero delle mie visite, perché preferivo evitare il suo sguardo carico di odio e le sue parole furibonde. Ogni volta che entravo nella camera in cui l'avevo relegata, mi sputava addosso una sfilza di insulti e intimidazioni, oltre a colpirmi ripetutamente. Sul volo di ritorno verso Mosca avevamo dovuto sedarla, per placare la sua collera.

Era accecata da una nebbia astiosa e mi identificava come il carnefice che l'aveva ingabbiata, non più come il ragazzo affascinante che l'aveva conquistata al Bellagio Hotel. Mi definiva un mostro in tutte le sfaccettature del termine. A detta sua, sarebbe stata felice di vedermi morto e sepolto, oppure che la mia dimora si distruggesse e crollassimo sotto le macerie.

Non potevo biasimarla per tutta la cattiveria che covava nei miei confronti, ma mi ero sempre sforzato di non ripagarla con la stessa moneta. Ero stato gentile e comprensivo, mi ero preso cura di lei e le avevo concesso qualsiasi agio. Non l'avevo sfiorata con un dito, davanti al suo consenso negato: non volevo approfittare della sua fragilità per violare il suo corpo.

Non pretendevo di usarla come una schiava sessuale, perché volevo aspettare che si riaccendesse la fiamma di quel desiderio che ci aveva uniti a Las Vegas. L'attesa ne sarebbe valsa la pena, ne ero più che certo, nonostante tutti mi etichettassero come un pazzo ossessionato. I miei genitori non approvavano Sofiya e consideravano quel sequestro un inutile spreco di risorse.

Le avevo assegnato la stanza più isolata dell'abitazione, in modo che non udissero le sue grida e le sue lamentele. Finché non avesse arrecato fastidio, potevano tollerare la sua esistenza e fingere che il loro figlio non avesse rapito una donna indifesa. Con tutti i crimini di cui si era macchiato il nome dei Bayan, quello era probabilmente uno dei minori.

In quel momento, mi trovavo dinanzi alla porta della camera di Sofiya, la sua prigione arredata con raffinatezza ed eleganza, dotata di ogni comfort di cui avesse avuto bisogno. Pregai di non imbattermi di nuovo nel soqquadro, dato che spesso aveva ribaltato il mobilio per sfogare la sua ira. La guardia di sorveglianza mi fece passare ed entrai nella stanza, con una leggera punta di timore. Quella ragazza sarebbe stata capace di tendermi un agguato e accoltellarmi con un pezzo di vetro, se non fossi stato attento.

Per mia fortuna, la camera era in perfetto ordine e Sofiya era sdraiata sul baldacchino, tra le lenzuola di seta e i cuscini imbottiti. Sembrava intenta a riposarsi, ma quando aggirai il letto e mi avvicinai alla sua figura, notai che i suoi occhi erano aperti e vigili. Le pupille mi inchiodarono per meno di un secondo, poi si inabissarono nel vuoto assoluto. Il suo viso pallido esprimeva una profonda stanchezza e prostrazione, quasi si fosse ammalata, e la radiosità del suo sorriso era stata soffocata da una maschera di tormento e desolazione.

Era evidente che stesse soffrendo; la sua giovialità era stata prosciugata. Aveva smesso di lottare per la sua indipendenza e non aveva neppure le forze di respingermi. Quel vortice depressivo l'aveva privata di ogni slancio, aveva fatto appassire il nucleo della sua volontà di vivere, aveva spento la sua luce interiore.

Mi accorsi che il vassoio della colazione non era stato toccato e che indossava ancora la vestaglia da notte. Era dimagrita in modo preoccupante, in una sola ventina di giorni, e stava trascurando il suo aspetto. Vedendola in quelle condizioni, una fitta di senso di colpa mi lacerò il petto, ma poi ricordai il motivo per il quale stavo mandando avanti quell'impresa.

Devi soltanto capire che sei tutto ciò che desidero, devi soltanto ricambiare i miei sentimenti. E finalmente potremo vivere in sintonia, inseparabili e invidiati dal mondo. Permettimi di renderti felice, smettila di odiarmi.

«Se non hai niente da dire, vattene, per favore» mi riscosse la sua voce, flebile eppure stentorea. «Non voglio vederti né parlarti.»

«Sono venuto a informarti che questa sera ci sarà un ricevimento alla Villa, con alcuni colleghi di mio padre, e ci tiene che io partecipi. Mi piacerebbe che fossi la mia accompagnatrice. Prendila come un'occasione per uscire da questa stanza e respirare un po'» le proposi, senza nascondere la titubanza dovuta alla sua ipotetica reazione.

Sofiya mi osservò per una manciata di secondi, assorta in un mutismo inquietante. Dopodiché, si mise a sedere sul materasso e si sollevò in piedi a fatica; trattenni l'impulso di sostenerla, consapevole che non ne sarebbe stata contenta. Si accostò a me con pochi passi, lenti e felpati, e piantò le iridi nelle mie.

«Vaffanculo, Egor Bayan» sibilò velenosa. «Incontrarti è stata la peggior condanna che mi sia mai capitata. Sei il flagello della mia esistenza. Mi hai sottratto ogni cosa, mi hai distrutta

«Dunque, la tua risposta è "no"?» ignorai le accuse.

Sofiya strinse le labbra in una linea dura, sottolineando il suo rifiuto di avere una conversazione con me. Mi fissava con un disprezzo che nessuno mi aveva mai riservato, neanche i peggiori avversari della mia famiglia. All'improvviso, sciolse la cintura della vestaglia e ne allargò i lembi, rimuovendola con un gesto sicuro e facendola accartocciare sul pavimento.

Rimasi sorpreso e mi irrigidii, di fronte al concentrato di curve sinuose e spigoli della sua nudità. Era più esile rispetto all'ultima volta che l'avevo ammirata completamente spoglia, le ossa sporgevano e il seno era meno formoso, ma ciò non eliminava la sua bellezza seducente e incantevole.

Mi oltrepassò e raggiunse il bagno; compresi che il suo obiettivo fosse la vasca, mentre girava il rubinetto e versava i sali profumati. Si immerse nell'acqua calda, celandomi la visuale del suo corpo, che bramavo terribilmente. Indeciso su come replicare alla sua sfacciataggine, mi sedetti sullo sgabello della postazione trucco, senza perderla di vista.

«Verrò con te a questa festa, ma secondo le mie condizioni» annunciò Sofiya dal bagno.

Intravedevo uno scorcio della vasca, dalla cornice della porta spalancata. Si voltò per assicurarsi che la stessi ascoltando e si appoggiò alla ceramica, i ricci umidi che le accarezzavano le clavicole e lo sguardo determinato. Sembrava una sirena attraente e manipolatrice, incline a stordirmi con il suo canto irresistibile.

«Mi concederai di esplorare la casa e di uscire da questa camera a mio piacimento, anche se vorrò passeggiare in città. I tuoi servitori mi rispetteranno e non sarò più ritenuta una prigioniera. Soddisferai ogni mia richiesta, nei limiti del possibile. Mi avevi promesso che sarei diventata un'imperatrice, o mi sbaglio?»

Riflettei sulle sue parole, poi mi giustificai: «Se non ti fossi ribellata allo sfinimento e fossi stata più accondiscendente, avrei accolto le tue richieste fin da subito. Ho dovuto adottare delle precauzioni, perché eri ingestibile. Pensi davvero che io ti abbia voluto rinchiudere di mia spontanea volontà? Ti ho portata qui per farti un favore, Sofiya, non per rovinarti.»

«Sono abbastanza grande per decidere in autonomia il mio destino, grazie. Il tuo è stato un favore così premuroso, da bravo erede di un regno criminale, ma non ne avevo bisogno» rilanciò con presunzione.

Abbandonò la vasca, fulminandomi con lo spettacolo del suo corpo grondante di goccioline d'acqua, e si avvolse in un asciugamano di spugna bianco. Camminò verso la soglia del bagno e si appoggiò allo stipite di legno, conscia di mandare in tilt i miei impulsi carnali, con quello straccio che la copriva a malapena. Sapeva di esercitare un enorme potere su di me, e sfruttava quel vantaggio con un ghigno vittorioso, accorciando la distanza tra noi.

«Sai cosa mi sconvolge? Che non mi hai mai toccata, nemmeno di striscio» dichiarò, studiando la mia espressione famelica e l'eccitazione che non riuscivo a contenere. Con un movimento fluido si sedette sulla superficie della specchiera, poi chinò il busto per legare le nostre pupille. Mi costò uno sforzo sovrumano tenere lo sguardo nel suo, invece che nell'incavo dei seni visibile dall'orlo dell'asciugamano. «Credevo che mi avessi scelta come "amante prediletta". A che ti serve una donna che non vuole compiacerti? Te lo leggo in faccia, che vorresti ripetere la notte a Las Vegas.»

«È ovvio che lo vorrei. Non c'è ora del giorno in cui non pensi a te, in qualsiasi situazione immaginabile. Fantastico su tutte le cose che ti farei provare, su quanto ti farei godere, sulla tua bocca intorno a me. Se solo la smettessi di detestarmi... ci divertiremmo da impazzire» confessai in un mormorio roco.

Le sfiorai il polpaccio, disegnando una scia sulla pelle bagnata, che si interruppe dietro la coscia. Forse fu un'illusione, ma mi accorsi del campo di brividi che disseminò il mio tocco. A quanto pareva, non le ero del tutto indifferente e non schifava come ribadiva da settimane.

«Preferirei patire la morte più dolorosa al mondo, piuttosto che scopare di nuovo con te» sentenziò aspramente. «Possiamo anche stabilire una tregua, ma questo non cambia che ti odierò fino al mio ultimo respiro.»

«Un giorno non troppo lontano mi ringrazierai in modo sincero» sospirai esausto, alzandomi dallo sgabello. Dovevo allontanarmi da lei, così deleteria da consumarmi. «Ordinerò a Klara, la domestica, di fornirti un abito e degli accessori per la serata. Ti aspetto alle otto davanti alla porta.»

«Non farò tardi, contaci. A stasera, moy gospodin» simulò un saluto galante, sfarfallando le dita in aria.

Tuttavia, dai suoi lineamenti trasudavano insolenza e derisione. Aveva elaborato una nuova strategia per vendicarsi, ben più subdola e scaltra della semplice protesta: mi avrebbe assecondato, avrebbe recitato il ruolo della mia amante leale, e infine mi avrebbe pugnalato alle spalle, nel momento in cui le mie difese si fossero abbassate.

Mi aveva dichiarato una guerra implicita, eppure non realizzava quanto fossi succube delle sue azioni e delle sue parole. Sarebbe stata lei ad annientarmi, e magari a farmi pentire di aver intersecato le nostre vite.

Mi ripresentai di fronte alla stanza di Sofiya dopo qualche ora, con un completo elegante a ingessarmi e un papillon a stringere il colletto della camicia. Sentivo l'agitazione dilagare nelle membra, sebbene non ne identificassi il motivo preciso. Avevo presenziato spesso alle festicciole organizzate da mio padre, per inserirmi nella cerchia dei suoi collaboratori fidati, e mi vantavo di essere il discendente del vory.

In quel momento, però, temevo che Sofiya mi avrebbe sabotato per il puro gusto di vendicarsi. La voce della mia coscienza mi bisbigliava che quella ragazza non mi avrebbe mai apprezzato e che, da quando l'avevo ingabbiata nella Villa, nutriva il desiderio di restituirmi ogni goccia di sofferenza.

Ti odierò fino al mio ultimo respiro, aveva pronunciato poche ore addietro. Avevo l'impressione che fosse lei a stringere il coltello dalla parte del manico. Mi chiesi se avrebbe avuto il coraggio di infliggermi il primo colpo, oppure se fosse una mera tattica di sopravvivenza.

Inspirai profondamente e bussai alla porta, per annunciare il mio arrivo. Udii il ticchettio dei passi che si avvicinavano, poi l'ingresso si spalancò. La figura di Sofiya occupò la mia visuale in tutto il suo splendore: indossava un abito rosso senza maniche, dal corpetto tempestato di minuscoli cristalli e la gonna di seta che oscillava morbida sulle caviglie.

I tacchi in vernice bordeaux slanciavano il suo fisico, la stessa tonalità del rossetto che delineava la bocca. Un girocollo d'argento e di rubini pendeva verso la scollatura profonda, abbinato agli orecchini e ai braccialetti che impreziosivano il suo aspetto. La chioma di capelli ricci era sciolta e indomita, l'unico elemento selvaggio che stonava con la sua eleganza principesca.

Mi sorrise, e nello sguardo chiaro guizzò un bagliore di sfida. Mi impegnai per non mostrarmi troppo assuefatto dalla sua bellezza, nonostante ne fossi rimasto folgorato. Le porsi il braccio piegato e lei accettò la galanteria, avvinghiandosi a me; grazie alle sue scarpe avevamo quasi la medesima altezza.

«Devo definirmi la tua fidanzata ufficiale?» domandò, mentre attraversavamo i corridoi immensi della dimora. Dal suo tono trapelò il fastidio e il ribrezzo.

«No, i miei genitori non ne sarebbero contenti. Se qualcuno si incuriosirà, mi inventerò che sei un'amica di famiglia o una cugina alla lontana. Non voglio che gli ospiti ti mettano gli occhi addosso: i mafiosi altolocati sono peggio dei criminali di strada.»

«Sì, ho notato che uno dei loro hobby preferiti è la compravendita di donne» ironizzò, esprimendo la sua ripugnanza verso il rapimento che avevo attuato.

«Non mi pare che il tuo mentore, Gabriel, abbia rifiutato il mio assegno. Ha scelto il denaro e mi ha ceduto l'acrobata migliore del circo. Non doveva volerti poi così bene, non credi?» sibilai per ripicca.

Sentendo nominare il capo del Cirque du Soleil, i suoi lineamenti si indurirono e serrò le labbra. Ero lieto di constatare di non essere l'unico bersaglio del suo odio feroce. La mia affermazione bastò a zittirla, finché non entrammo nel salone della Villa dedicato ai ricevimenti ufficiali.

L'ampia stanza era gremita di uomini distinti, accompagnati dalle loro famiglie. Mio padre aveva invitato l'élite dell'imprenditoria e della politica russa, tra magnati milionari e alti funzionari statali. Adorava sfoggiare la ricchezza della sua abitazione, una fortezza dorata annidata nel marciume del Ghetto di Mosca. Si identificava come il sovrano assoluto della città: il suo dominio era incontrastato e nessuno gli avrebbe sottratto il trono di boss della mafiya.

«Egor, vieni qui. Voglio farti conoscere delle persone» mi richiamò proprio Nikolay, che mi avvistò e mi guidò tra la calca con una mano sulla schiena.

Cinsi il fianco di Sofiya per tenerla stretta e non smarrirla, intanto che raggiungevamo due giovani uomini dall'aspetto molto simile. Avevano entrambi gli occhi chiari e freddi, la postura rigida e un'espressione imperturbabile sul volto. Mi parve di averli già visti in qualche occasione passata, ma non riuscivo a identificarli.

«Vi ricordate di mio figlio Egor?» mi presentò mio padre, per poi rivolgersi a me. «Loro sono Vladilen e Yuri Petrov, attualmente al comando di San Pietroburgo.»

Quella precisazione bastò a rischiarare la nebbia della memoria. I fratelli Petrov erano i vory della banda dei Lupi di Tambov, l'unica organizzazione criminale russa che poteva vantare un potere paragonabile a quello dei Bayan. Avevano ottenuto il comando dopo la misteriosa morte del loro padre e si erano spartiti equamente la città che sorgeva sulle sponde della Neva.

La loro presenza mi lasciò confuso e attonito, considerato che i Lupi erano i nostri nemici giurati. Erano da sempre rivali del Ghetto, poiché avevano tentato di ostacolare i nostri traffici e di rubare le nostre ricchezze, seppur fallendo miseramente.

«Sì, l'ultima volta che ci siamo incontrati era un adolescente» mi squadrò Yuri Petrov, il fratello minore. Le sue pupille si spostarono sulla figura di Sofiya, che setacciò con curiosità viscida. «E questa graziosa fanciulla, invece?»

Prima che mio padre potesse intervenire, fui veloce a rispondere: «Una cugina alla lontana, venuta in visita a Mosca. Si chiama Sofiya».

La ragazza emise un saluto mormorato e per istinto si attaccò al mio fianco. Lo sguardo da predatore di Yuri era inquietante, ma le accarezzai la spina dorsale per trasmetterle sicurezza e dissipare il suo timore. L'avrei difesa a ogni costo da quei bastardi dei Lupi, perché conoscevo la loro attitudine meschina.

«Io e i Petrov abbiamo discusso e siamo giunti alla conclusione che è meglio ritirare le armi. Questa faida non porterà a un vincitore, ma non farà altro che prosciugare le risorse e spargere il sangue dei nostri uomini» mi illustrò mio padre. «Forse è presto per un'alleanza, però possiamo cominciare con una pacifica convivenza. Il Paese non deve essere controllato da un'unica organizzazione. Noi abbiamo la capitale, è vero, ma San Pietroburgo è altrettanto importante.»

«Io e mio fratello siamo d'accordo, Nikolay. I Lupi e il Ghetto avranno i loro territori separati, i loro affari e i loro soldi, senza infierire con i rivali. Possiamo smetterla con questa guerriglia generazionale, adesso che nostro padre non è più il boss» sottolineò Vladilen Petrov, il vero capo in carica, ben più carismatico e scaltro di Yuri.

Gettai un'occhiata sospettosa a mio padre, che lui ricambiò con aria impassibile. Mi recapitò un ordine tacito: dovevo mostrarmi tollerante nei confronti dei nemici. Aveva già stabilito una tregua con i Lupi, nonostante i danni che avevano inflitto alla nostra economia. Sebbene non mi piacesse quel compromesso, mi trovai costretto ad annuire e porgere la mano in segno di collaborazione.

«Egor, mi concedi il permesso di fare una passeggiata con tua cugina? È deliziosa» mi domandò d'un tratto Yuri, intento a fissare Sofiya con avidità depravata.

Stavo per impedirglielo con un sonoro e intransigente "scordatelo", tuttavia a zittirmi fu lo sguardo austero di mio padre. Mi sentii bloccato tra due estremi: il bisogno di proteggere Sofiya dalle grinfie dei Petrov e l'obbligo di accontentare l'uomo che mi aveva cresciuto. Se lui aveva stabilito un rapporto di complicità con i Lupi, non avrei osato boicottarlo, e la remissività comprendeva arrendersi al suo volere.

«Certo, non c'è problema» dissi, con uno sforzo sovrumano per eliminare il disappunto. «Restate nei paraggi, va bene?»

Sofiya era paralizzata dalla preoccupazione, quindi la incoraggiai a seguire Yuri con una dolce spinta in avanti. Sul suo viso erano evidenti la contrarietà e un'ombra di paura, in aggiunta allo sconforto provocato dalla mia scelta di cederla a Petrov. Il timore si impossessò di me, eppure lo mascherai con un cipiglio indifferente, ripetendomi che dovevo ascoltare mio padre prima di chiunque altro.

Quest'ultimo mi ricompensò con un sorriso abbozzato e un cenno di conferma. Yuri avvolse il braccio intorno alla schiena di Sofiya e la osservò con un ghigno rivoltante, poi la guidò in mezzo alla folla di invitati, fino a scomparire fuori dal salone. Venni pervaso dall'urgenza di pedinarli, una sensazione d'ansia che scalpitava e annodava lo stomaco.

«Mio fratello è un galantuomo, sa come trattare le donne» mi assicurò Vladilen, notando la mia apprensione.

Non commentai, mentre lui e mio padre intavolavano una conversazione sull'attuale governo della Russia, in termini amichevoli e confidenziali. Nikolay si comportava come se Petrov fosse un suo fedele alleato, come se si fosse dimenticato dei soprusi ricevuti. Non approvavo quella recita fasulla e, soprattutto, mi importava solo che Sofiya non diventasse una vittima di Yuri. Tra le fila delle bande criminali, il minore dei Petrov era etichettato come un assalitore seriale.

I minuti trascorrevano celeri e la mia inquietudine aumentava, poiché non vedevo tornare Yuri e Sofiya. Fu per quel motivo che mi allontanai da mio padre e da Vladilen, utilizzando la scusa di prendere un calice di champagne, e mi recai nel corridoio frontale al salone. Non riuscii a individuarli in nessun angolo, marciando spedito negli spazi sconfinati della Villa, quindi cominciai a chiamare il nome di Sofiya a voce alta.

A quel punto udii un grido soffocato, una disperata richiesta d'aiuto che accese un allarme di pericolo nella mia testa. Riconobbi il timbro di Sofiya, graffiato dallo spavento acuto e dall'angoscia. Con il cuore che martellava in preda al panico, mi fiondai nella direzione delle sue urla, finché non giunsi davanti a una scena raccapricciante.

Yuri aveva inchiodato Sofiya contro una parete. Stringeva i polsi della ragazza e con l'altra mano si slacciava la cintura dei pantaloni, sopprimendo suo tentativo di divincolarsi e fuggire. Petrov scostò la gonna del vestito di Sofiya, sollevandola per scoprirle le gambe e i fianchi, e strusciò la sua erezione sul ventre della ragazza. Per imporle di smettere di respingerlo, le assestò uno schiaffo rumoroso e le serrò la gola tra le dita.

«Sta' ferma, insulsa puttana, e lasciami divertire» la minacciò. «Non privarmi della soddisfazione di scopare una Bayan.»

Una coltre infuocata mi annebbiò lo sguardo. La furia mi sfrigolò nel sangue, mi ottenebrò i sensi e annullò ogni brandello di raziocino. Mi lanciai nella loro direzione, con tanta irruenza che nemmeno se ne accorsero, e tramortii Yuri con il mio peso. Lo scaraventai dal lato opposto del corridoio e lui rovinò sul pavimento, sputando una serie di imprecazioni contro di me.

Mi precipitai al cospetto di Sofiya, che si era raggomitolata per terra, gli occhi sgranati dallo spavento e il corpo sconquassato dai fremiti. Posai i palmi sulle sue guance pallide, ispezionando il suo viso per accertarmi che non mostrasse ferite o lividi.

«Dove ti ha toccata?» sibilai, il tono preoccupato e grondante di rabbia. «Dimmi cosa ti ha fatto quel pezzo di merda.»

«Voleva c-costringermi... ha provato a...» Un singhiozzo ruppe le sue parole tremolanti, il respiro era concitato e irregolare, mentre le lacrime le rigavano gli zigomi.

La aiutai a rialzarsi con delicatezza, dopodiché percepii la fiamma dell'ira che appiccava un nuovo incendio. Mi girai a guardare Yuri, che si stava rimettendo in piedi, e lo fronteggiai con un'espressione combattiva. Lo spintonai con forza e lui barcollò, ma non appena recuperò la stabilità provò a colpirmi con un pugno. Fui abbastanza agile da evitarlo e da restituirglielo, centrando in pieno la sua faccia da infame.

«Ti ammazzo, Lupo di merda!» ringhiai con livore, stringendo il colletto della sua giaccia e facendolo sbattere di schiena al muro. «Non entrare mai più in questa casa e sta' alla larga dalla mia famiglia!»

Yuri tossì un grumo di sangue, che colava dal naso fratturato. Non ancora soddisfatto, le mie nocche impattarono sulla sua mandibola e mi godetti lo scricchiolio della cartilagine. Lo scrollai con uno strattone poderoso, finché non perse l'equilibrio e si ritrovò a baciarmi le scarpe.

«Hai capito?!» sbraitai, piantando la suola sulla sua tempia per placcarlo. «Ti spaccherò il cranio, se oserai sfiorarla un'altra volta. Adesso sparisci!» conclusi inferocito, e lo punii con un ultimo calcio nelle costole.

«Cosa sta succedendo, Egor?» La voce inclemente di mio padre mi raggelò.

Guardai alle mie spalle, scoprendo che Nikolay sostava al centro del corridoio. Il bagliore freddo delle lampade conferiva un'aria spettrale alla sua figura, resa ancora più nefasta dell'espressione grave che gli induriva i lineamenti. Ciò che mi intimorì maggiormente, tuttavia, fu la presenza di Vladilen Petrov al suo fianco.

Il boss di San Pietroburgo appariva imperturbabile, quasi incurante del trattamento che avevo inflitto a suo fratello minore. Eppure notai il fugace lampo di collera che gli attraversò gli occhi, offeso dall'oltraggio. Mi ricomposi e lasciai libero Yuri, che si sollevò tra gemiti sofferenti e ingiurie rivolte al sottoscritto.

«Noi togliamo il disturbo, Nikolay. Immagino che tu debba discutere con tuo figlio riguardo al suo comportamento dannoso. Seguiremo il suo consiglio di sparire, scinderemo la tregua con il Ghetto e riprenderemo a contenderci le ricchezze» decretò Vladilen, il timbro monocorde e calmo, che nascondeva un'ira insidiosa. «È stata una pessima idea, cercare di trovare un punto d'incontro. Lo scontro tra le nostre bande non avrà una fine. Che la guerra ricominci.»

Yuri Petrov mi scoccò uno sguardo denso di rancore, che sugellava la promessa di farmela pagare per quell'affronto. Osservò anche Sofiya, raggomitolata con le ginocchia strette al petto, ed esibì un malefico ghigno di sfida. Il viso tumefatto dai miei colpi era un campo di ematomi violacei e tagli sanguinanti, che lo raffiguravano in modo inquietante. «Ci rivediamo, Bayan. La vendetta aspetterà entrambi.»

Quello fu il saluto dei Petrov, che in seguito abbandonarono Villa Zaffiro, seminando una scia di ostilità e pericolosità. Un fitto silenzio avvolse me, Sofiya e mio padre, tutti e tre paralizzati dall'accaduto, scossi da emozioni differenti. Nikolay mi perforò con le sue pupille intimidatorie e avanzò ad ampie falcate, la postura severa e tesa in un fascio di nervi.

«Sei uno stupido incosciente. Ti rendi conto del casino che hai fatto?» Mi ghermì dal colletto della giacca e mi accostò a sé, a un soffio dalla sua espressione oscurata dalla rabbia. «Hai rovinato tutto per quella troia!» mi gridò contro, additando Sofiya con indignazione.

Schiusi le labbra per difendermi e ribattere, ma venni zittito dalla botta violenta che mi sferrò mio padre. Il suo pugno si schiantò sul mio zigomo, lacerandomi la pelle con l'anello di famiglia, e un'ondata di dolore si propagò in tutte le ossa del volto. Un ronzio assordante mi otturò le orecchie, la testa pulsava e vorticava, e il supplizio aumentò quando mi attaccò la nuca al muro con veemenza.

«Hai mandato a puttane la collaborazione con i Petrov, e a quale scopo? Difendere l'onore di una sguattera che hai rapito!» si infervorò, scagliandomi un colpo aggressivo nello stomaco. Mi piegai in due per il dolore, ma mio padre mi obbligò a raddrizzarmi e a sostenere il contatto visivo, tirandomi le ciocche di capelli. «Rinchiudila in qualche stanza e assicurati che io non la veda neanche per sbaglio. Commetti un altro errore del genere e puoi dire addio all'eredità, figlio ingrato.» Per sottolineare l'avvertimento, mi sfregiò il lato intatto del viso con un secondo pugno e ringhiò: «Vattene! Portala via all'istante, oppure vi ammazzo entrambi!»

Mio padre si dileguò, lasciandomi vittima di atroci spasmi dovuti ai colpi che mi aveva inferto. Non mi picchiava da anni, perché mi ero impegnato a dimostrare il mio valore e a condurre le attività dell'organizzazione in maniera impeccabile. Era bastata una singola azione impulsiva, con l'obiettivo di proteggere di Sofiya, per far sì che la sua stima nei miei confronti si sgretolasse.

«Egor, andiamo nella mia camera. Devi medicare queste ferite» mi incitò la voce di Sofiya, venata dalle crepe del pianto recente. Nonostante le nebbia di sofferenza che mi stordiva e i puntini neri che mi bucavano le retine, osservai la ragazza che mi offrì il suo appoggio. «Ti aiuto io, tieniti a me. Riesci a camminare?»

«Tu... stai bene?» esalai in un soffio rauco. Ignorai le mie condizioni precarie, il bruciore delle botte con cui mi aveva massacrato mio padre e la sensazione del volto che si gonfiava, e invece mi interessai della sua incolumità.

«Sì, sei intervenuto in tempo. Mi hai salvata, ma per colpa mia... ti ha ridotto così» mormorò, lo sguardo intriso di rammarico, in aggiunta alla paura di nominare Nikolay. «Ora non ti preoccupare per me. Sei tu quello che ci ha rimesso.»

«Non avrei dovuto permettere a Petrov di avvicinarsi a te, sapendo che è un maniaco» mi pentii, mentre Sofiya avvolgeva il suo braccio intorno al mio busto e tentava di farmi da sostegno.

Durante il breve tragitto fino alla sua stanza, che tuttavia fu rallentato dalla mia andatura incerta, provai a non affaticarla troppo con il mio peso. Mi reggevo a malapena sulle gambe e le fitte mi mozzavano il respiro, combinate alla nausea che inacidiva l'esofago e al martellio nel cervello. Sapevo, però, che il mio dolore fisico non era paragonabile al terrore che aveva sperimentato Sofiya, davanti al rischio tangibile che la sua intimità fosse violata.

Entrammo nella sua camera e mi sedetti sul letto, tra la morbidezza delle lenzuola che rilassò i miei muscoli indolenziti. Sofiya corse a recuperare un kit medico dal bagno, poi si accomodò al mio fianco e si improvvisò un'infermiera. Versò il disinfettante su un batuffolo di cotone, che utilizzò per tamponare la ferita sullo zigomo e ripulirla dal sangue.

I suoi gesti erano gentili e premurosi; mi chiese di non fare alcuna smorfia, così da coprire il taglio con un piccolo cerotto. Terminò la sua opera con una crema che avrebbe dovuto accelerare la guarigione dei lividi, sebbene la mia faccia fosse cosparsa di contusioni. Un fastidioso pizzicore mi presagì che l'indomani mi sarei risvegliato con un occhio nero, nel migliore dei casi.

«Va un po' meglio?» mi domandò, riponendo la scatola sul comodino. Si sbarazzò delle scarpe e piegò le gambe sul materasso, coperte dalla voluminosa gonna dell'abito, per stare più comoda.

«Mi rimetterò in forma, tranquilla. Spero solo che mio padre non abbia perso completamente la fiducia in me. Non è piacevole essere odiati da Nikolay Bayan» sospirai stremato. Ricollocai l'attenzione su Sofiya e con i polpastrelli le accarezzai la guancia arrossata, macchiata dal trucco sciolto, dove Yuri l'aveva schiaffeggiata poco prima. «Quel figlio di puttana rimpiangerà di averti fatto del male, te lo giuro. Gli renderò la vita un inferno.»

Adagiò la mano sul dorso della mia, cullandosi nel calore del mio tocco. «Mi dispiace da morire, Egor. Se fossi riuscita a scappare da sola, non avresti infranto la tregua con i Petrov e tuo padre non...» Un singhiozzo le esplose nel petto, seguito dalle lacrime che riempirono i suoi occhi cristallini e scivolarono dalle ciglia. «È stato orribile, guardarlo mentre ti puniva con tanta cattiveria. Mi ha ricordato mio padre: quando abitavo nella mia vecchia casa, ogni occasione era buona per farmi pentire di essere nata in quella famiglia.»

«E poi sei scappata, ti sei costruita un'esistenza libera e indipendente, ma io ti ho trascinata di nuovo in Russia. Capisco se mi detesti, Sofiya, ne hai tutte le ragioni. Forse posso farmi perdonare.» Pronunciare le successive parole mi costò un enorme dispendio di energia. «Se lo desideri... ti riporterò al Cirque du Soleil. Ti lascerò andare. Non ho il diritto di imprigionare una persona per soddisfare i miei capricci.»

«Lo faresti davvero?» bisbigliò sconvolta dalla mia decisione repentina.

«Vorrei averti incontrata in circostanze diverse. Vorrei non essere l'erede di mio padre. Vorrei garantirti che sarai felice al mio fianco, ma stasera hai appurato che è impossibile. Se diventi la compagna di un Bayan, devi accettare i pericoli che ne conseguiranno, e non sarò così egoista da costringerti a farlo.»

Fu in quel momento che Sofiya stravolse le mie aspettative: annullò la distanza tra di noi e catturò le mie labbra nelle sue. Rimasi esterrefatto, poiché da quella sera a Las Vegas non ci eravamo più avvicinati e aveva rifiutato qualsiasi contatto con me, innalzando una muraglia inespugnabile. Non credevo che un giorno avrei potuto assaporare di nuovo la sua bocca inebriante, né che avrebbe permesso al suo corpo di riunirsi al mio.

Ricambiai piano il bacio, per quanto me lo consentivano le labbra spaccate e il viso dolorante. Incastrai le dita nei ricci di Sofiya e la attirai contro il mio torace, cingendole la schiena. Lei fu delicata nello sfiorarmi la mandibola, capace di anestetizzare la sofferenza provocata dalle ferite. Non ci privammo dei vestiti, non ci spingemmo oltre, non nutrimmo la brama che si era riaccesa: ci limitammo a baciarci con una calma rispettosa, senza invadere gli spazi dell'altro, procedendo con cautela in un territorio inesplorato.

«Dammi qualche giorno per pensarci, okay?» mi disse quando ci separammo dal bacio. Continuai a stringerla a me, le fronti che si premevano e i respiri amalgamati. Le sue iridi brillavano di una luce che temevo si fosse spenta, quel bagliore di vitalità che mi aveva fatto innamorare di lei a prima vista.

«Tutto il tempo di cui hai bisogno» la rassicurai, posando un leggero bacio sulla sua tempia. «Se sceglierai di restare, stavolta non fallirò nella mia promessa.»

«Puoi rimanere a dormire con me, questa notte?» mi propose, la voce sottile ma determinata.

Non c'era bisogno di implorarmi. Mi tolsi la giacca del completo e Sofiya sostituì l'abito con una vestaglia di seta, dopo aver rimosso lo strato di trucco dal suo viso. Sgusciammo sotto le coperte spesse e avvolgenti, ci osservammo per minuti interminabili, naso contro naso, finché non la intrappolai di nuovo nel mio abbraccio. Si rifugiò nell'incavo del mio collo e io inspirai il suo profumo, scoprendo che ne ero ancora dipendente.

«Mi mancavi, lo sai? Ogni notte ho desiderato di tenerti così vicina, come a Las Vegas. Il mio unico desiderio, in queste settimane, è stato che la smettessi di odiarmi» confessai, accarezzando con movimenti dolci e cadenzati la sua chioma riccia.

«Ho smesso nel momento in cui mi hai rischiato tutto per salvarmi» rispose, le parole ovattate dal tessuto della mia camicia. «Possiamo ricominciare da capo, Egor. Possiamo riprovarci.»

E ci addormentammo con i corpi intrecciati, illudendoci che quel giuramento si sarebbe davvero realizzato. Non potevamo immaginare che l'emozione che era appena sbocciata in noi si sarebbe tramutata in una sentenza mortale.

Cattedrale di San Basilio, Mosca, 22 maggio 2000

Nell'arco di diciotto mesi la mia esistenza venne ribaltata da una serie di avvenimenti estremi, alcuni pianificati e altri scombussolanti, che riscrissero l'ordine delle mie priorità.

Il legame tra me e Sofiya divenne ancora più intenso e dirompente, trascinandoci in un vortice di passione sfrenata. Ci ricongiungemmo prima a livello sentimentale: ricostruimmo i brandelli della fiducia che avevo dilaniato, le concessi la libertà di spostarsi dal Ghetto quando ne sentiva la necessità, le riservai i miei gesti più generosi e le mie parole più carezzevoli.

Di conseguenza, ritrovammo anche la nostra intimità. Ebbe il coraggio di abbandonare il suo corpo al mio, di farsi guidare dalle mie movenze e di riaccogliere l'emozione carnale che avevamo sperimentato nella stanza del Bellagio Hotel. Il sesso con lei era qualcosa di primordiale e irruente, un atto che ci incatenava con una forza esplosiva. Trascorremmo intere giornate chiusi nella sua camera alla Villa, stretti tra le lenzuola e impegnati nella più bella scoperta di noi.

Sofiya tornò a essere mia, tanto quanto io ero ormai suo, e confermò la mia idea che nessuna donna potesse mai paragonarsi a lei. La desideravo come fedele compagna per il resto dei miei giorni, a dispetto dei pericoli che caratterizzavano la mia vita e dei numerosi nemici che mi davano la caccia. Aveva declinato l'occasione di rientrare nel Cirque du Soleil e di recuperare il suo vecchio lavoro, segno che anche lei preferisse rimanere accanto a me.

Non volevamo rischiare di separarci. La minaccia di mio padre alleggiava nell'aria, nelle occhiate torve che mi lanciava quando ci vedeva insieme, nell'ordine perentorio di buttarla fuori dalla sua abitazione. Non mi aveva mai perdonato per il disastro con i fratelli Petrov, ma ero riuscito a tenere Sofiya al sicuro dalla sua ira funesta.

Tuttavia, il rapporto tra me e mio padre si incrinò irrimediabilmente. Non approvava quella relazione clandestina; lui e mia madre si divertivano a sminuire le origini umili di Sofiya e a etichettarla come una sgualdrina. Volevano impormi un matrimonio combinato simile al loro, con la figlia di chissà quale boss mafioso, una donna che fosse "all'altezza del nome dei Bayan e degna di ereditare il nostro impero".

Se mi azzardavo a oppormi, ricevevo i colpi brucianti di Nikolay, sempre più frequenti e sferzanti. Io, però, non mi sarei arreso. Non volevo accontentarmi di avere Sofiya nelle vesti di un'amante: il mio sogno era quello di sposarla, di renderla mia moglie e il mio braccio destro. Puntavo a comandare l'organizzazione e ottenere le redini dei traffici illegali della mia famiglia, ma non avrei rinunciato a lei nemmeno in cambio di tutta la ricchezza del mondo.

«Finché vivrai sotto la mia autorità, nella mia casa e nel mio quartiere, dovrai obbedire ai miei ordini. Non sfidarmi, Egor, altrimenti ti cancellerò dal testamento e affiderò il comando del Ghetto a qualcuno di più competente» mi intimidì mio padre, in seguito all'ennesima litigata furibonda, da cui ero uscito con il volto tumefatto di lividi.

Ed è per questo che l'unica soluzione per raggiungere la serenità è sbarazzarci delle persone che ci ostacolano.

Un piano machiavellico ed efferato cominciò a formarsi nella mia testa. Compresi che dovevo estirpare il problema alla radice, così da permettere alla mia storia con Sofiya di sorgere e avverarsi. Se i miei genitori fossero spariti, avrei guadagnato una vittoria su ogni fronte: una donna stupenda da amare in libertà, un impero criminale da governare e un'eredità da sfruttare a mio piacimento.

Fu allora che mi convinsi ad attuare quell'idea folle e crudele. Commissionai un duplice omicidio a uno dei sicari più abili al servizio della mia famiglia, che accettò di eliminare il vory e sua moglie senza incertezze. Apprezzavo i mercenari perché non si ponevano limiti morali: era sufficiente pagarli profumatamente, per mandarli a sporcarsi le mani di sangue, persino se ciò avrebbe comportato tradire il proprio capo.

Il sicario uccise i miei genitori con una precisione brutale, crivellando di proiettili la macchina sulla quale stavano viaggiando; i loro cadaveri furono rinvenuti in un lurido vicolo del quartiere. La comunità del Ghetto venne destabilizzata da quella notizia scioccante, considerato sopravviveva grazie ai lavori illeciti forniti da mio padre, e il panico nei confronti dell'assassino sconosciuto si espanse rapidamente.

Alcuni rivali ambiziosi tentarono di approfittare dello scompiglio generale per impossessarsi del patrimonio di Nikolay, ma il mio intervento tempestivo li bloccò. Non mi presi neanche un giorno per chiudermi nel lutto e piangere la scomparsa dei miei genitori. Mi auto-proclamai all'istante nuovo vory del Ghetto Zaffiro e inaugurai un periodo di rinascita nel quartiere.

I funerali si celebrarono in una grigia mattinata di febbraio del 1999, nella cattedrale di San Basilio, con la presenza di numerosi politici e imprenditori di alto rango. Mio padre era stato un uomo così influente da meritare una cerimonia in quel luogo sacro, simbolo della città di Mosca. Durante la funzione religiosa improvvisai una recita impeccabile: mi finsi devastato dalla sofferenza e pronunciai un discorso in cui tessevo le lodi dei miei genitori.

Fatti ammazzare dal loro stesso figlio, ma quel segreto sarebbe stato sepolto nella mia tomba. Nessuno avrebbe mai scoperto il mio ruolo centrale nella vicenda.

Sofiya mi consolò con la sua vicinanza, inconsapevole che non avessi davvero bisogno di conforto. Volevo esprimere la mia felicità, adesso che mi ero salvato dalla morsa soffocante del giogo di mio padre, invece continuai a simulare un dolore straziante per qualche mese.

Non volevo che lei venisse a conoscenza di quel lato oscuro di me; i miei progetti per noi due erano grandiosi e non potevo rischiare di rovinarli. Non le confessai mai la verità riguardo all'omicidio dei miei genitori, con lo scopo di proteggerla dal mio lato marcio e insensibile.

Dopodiché arrivò il fatidico momento: dinanzi al maestoso Palazzo d'Inverno di San Pietroburgo, al chiaro di luna di una sera primaverile, domandai a Sofiya di legarsi a me per l'eternità. Mi inginocchiai al suolo, le mostrai la scatola di velluto nero che custodivo da tempo e rivelai un prezioso anello dorato, sormontato da diamanti scintillanti.

Forse non era il posto migliore per pronunciare la proposta di matrimonio. Ci trovammo a passeggiare per la città dopo aver concluso delle trattative con una banda criminale rivale dei Lupi di Tambov, di conseguenza nostra alleata. Eravamo nella città presidiata dai nostri nemici più invadenti, gli stessi che ci avevano dichiarato guerra l'anno precedente, eppure non fui in grado di resistere.

Era bella da mozzare il fiato, quasi fosse stata la protagonista di una fiaba, una tsaritsa uscita direttamente dalla sfarzosa residenza dei sovrani di epoca antica. I suoi occhi luccicarono di incredulità ed emozione, mentre compivo quel gesto e dichiaravo il mio amore incondizionato per lei.

«So che la nostra relazione non è iniziata in modo convenzionale, e so che all'inizio desideravi fuggire da me, ma la situazione è ormai cambiata. Ti ho conosciuta solo sette mesi fa, ma è come se la mia anima ti cercasse da sempre. Mi hai incantato non appena ti ho vista esibirti su quel palco: da allora sei diventata il mio pensiero costante, il mio punto fermo e l'asse intorno a cui il mio mondo ha cominciato a girare. Non esiste un'altra donna su questo pianeta che possa competere con te, né che possa eguagliare il tuo carisma e il tuo fascino. Io ti amo, Sofiya, e voglio condividere la mia vita esclusivamente insieme a te.» Dopo un attimo di silenzio, conclusi il mio monologo con trasporto: «È per questo che ti chiedo se vuoi sposarmi e ufficializzare la nostra storia. Sarai venerata come la moglie del vory, la sovrana di Villa Zaffiro. La mia regina».

Sofiya si commosse tanto che una lacrima solitaria le rigò il viso. Annuì in modo frenetico e una risata colma di gioia le volò dalle labbra. «Sì, Egor, mille volte sì.»

Raccolsi la sua mano e le infilai l'anello al dito, poi si agrappò al mio collo per abbracciarmi. Le circondai i fianchi e la feci volteggiare a mezz'aria, in un'esplosione di contentezza ed euforia. «Torniamo a casa, signora Bayan» la apostrofai, e intrappolai la sua bocca in un bacio travolgente.

Le parole non erano sufficienti a descrivere il sentimento che ci univa in un nodo stretto e inscindibile. Quell'amore tumultuoso era germogliato nel lusso di un hotel dall'altra parte del mondo, sembrava essere appassito nell'aridità del Ghetto, ma infine era sbocciato nonostante le intemperie. Non era sinonimo di purezza e autenticità, piuttosto era un'ossessione malata che ci aveva resi schiavi.

Non capivo come si fosse innamorata di me, colui che le aveva strappato l'indipendenza e l'aveva prelevata con la forza. Probabilmente era vittima della subdola sindrome di Stoccolma, un meccanismo di difesa mentale che l'aveva persuasa ad affezionarsi al suo rapitore. Mi aveva dipinto in qualità di suo soccorritore, in seguito all'episodio con Yuri Petrov, e si era convinta che in fondo anch'io avessi un cuore buono.

L'emisfero razionale del mio cervello sapeva che quella era la verità. Sofiya non mi amava nel senso più genuino del termine; era stata manipolata dal corso degli eventi e dalle difficoltà, quindi si era rifugiata nella costruzione fasulla di un'emozione romantica. Il suo cervello l'aveva ingannata, l'aveva spinta a sottomettersi alla mia figura, solo per evitare i risvolti negativi di un isolamento.

Io ero troppo egoista per ammetterlo, perché non avevo intenzione di farla allontanare. Ero sicuro che quella fosse la strada giusta, nonostante il sangue che marchiava il percorso. Ignoravo i segnali di pericolo che mi urlavano di arrestare i miei passi; ero troppo immerso nell'uragano che portava il suo nome.

Coroniamo il sogno di questo amore letale e dannoso, mia milochka. Avveleniamoci con l'essenza tossica del nostro legame. Battiamo il ferro delle catene che ci imprigioneranno, almeno finché non ci condurremo alla distruzione a vicenda.

Ci sposammo l'anno successivo, a maggio del nuovo millennio. Lo scenario della cattedrale di San Basilio ci accolse per la seconda volta, però il ricordo dell'onoranza funebre si tramutò in una solenne melodia nuziale. L'altare dove avevo detto addio ai miei genitori era il medesimo che ospitò me e Sofiya, nel giorno più speciale e importante delle nostre vite.

Al matrimonio del vory di Mosca presenziarono personalità influenti e illustri, per consolidare le collaborazioni del mio impero rinnovato. Avevo un approccio diverso da quello di mio padre, meno tirannico e più disponibile nei confronti di chi necessitava aiuto. Era l'alba di un'epoca prospera per il quartiere malfamato del Ghetto, sotto il mio governo appena instaurato.

Il mio cuore impazzì, quando ammirai la mia promessa sposa che avanzava lungo la navata, da sola in tutto il suo splendore. Indossava un abito di un bianco candido, costellato di zaffiri che rilucevano come il suo sguardo, parzialmente coperto dal velo leggero. Tra le mani teneva un bouquet di ramoscelli di gelsomino e papaveri blu. Era una visione stupefacente e ultraterrena, la reincarnazione di una divinità che rappresentava l'essenza del Ghetto Zaffiro.

Pronunciammo i voti del matrimonio e le promesse, con la voce spezzata dalla trepidazione e dalla felicità sconfinata. Ci scambiammo le fedi, sugellando il giuramento di appartenerci finché la morte non ci avrebbe separati, in quel luogo dove il divino si mescolava al profano. Il parroco che svolgeva la cerimonia ci decretò marito e moglie, poi baciai Sofiya con il sottofondo degli applausi scroscianti e delle campane di festa.

Eravamo all'oscuro della tragedia che in futuro si sarebbe abbattuta su di noi. Mentre il rintocco della celebrazione rimbombava nei nostri animi, l'orologio del destino scandiva gli ultimi mesi che avevamo a disposizione.

Ghetto Zaffiro, 10 gennaio 2001

La convivenza con Sofiya, una volta sposati, era una favola idilliaca. Eravamo i padroni indiscussi del Ghetto Zaffiro; gli abitanti ci adoravano e ci ringraziavano costantemente per le risorse che condividevamo con loro. Il nostro dominio era incontrastato e il nostro rapporto rasentava la perfezione.

Mia moglie era il soggetto indiscusso della mia ammirazione. Ogni singolo giorno la riempivo di regali costosi, tra vestiti eleganti e gioielli di estrema raffinatezza; la portavo nei ristoranti più lussuosi della capitale, agli eventi di gala e alle riunioni lavorative con i maggiori imprenditori del Paese. Avevo persino fatto edificare una sorgente termale nel piano interrato della Villa, il mio regalo per il suo ventesimo compleanno.

Le dimostravo quanto la amassi, trattandola come la mia zarina. Non era un mero trofeo da esibire, ovvero ciò che mia madre era stata per mio padre: Sofiya rappresentava un'estensione del mio potere, di cui anche lei era una detentrice assoluta. Comandavamo insieme, la consultavo quando dovevo prendere una decisione critica, mi lasciavo guidare dai suoi consigli pragmatici.

In quei due anni ci eravamo fusi in un'unica entità, sviluppando una dipendenza totale e corrisposta. La presenza di Sofiya era essenziale come l'ossigeno, per me. Era ciò che mi consentiva di esprimere la versione meno violenta del mio essere: lei mi trasformava in un uomo migliore, mi donava speranze e desideri che non parevano più irraggiungibili.

Presto realizzeremo quello di allargare la nostra dinastia, forgiando indissolubili legami di sangue nell'impero che abbiamo eretto.

Sofiya mi comunicò la notizia nel periodo del viaggio di nozze, poche settimane in seguito al matrimonio. La nostra meta era una piccola isola sperduta dell'arcipelago delle Seychelles, sulla quale sorgeva la mia tenuta estiva privata. Trascorreremo il mese di luglio immersi nelle acque limpide dell'Oceano Indiano e nella vegetazione incontaminata di quel paradiso tropicale, tra le mura dell'abitazione sontuosa collocata sulla vasta spiaggia di arenaria dorata.

Stavamo passeggiando al tramonto sulla riva deserta, mano nella mano, con le deboli onde che ci sfioravano le caviglie e i raggi del sole che calava lentamente oltre l'orizzonte. Sofiya era splendida nel suo costume bianco intero, i capelli intrisi di salsedine e accarezzati dalla brezza oceanica, la figura scolpita ad arte che aveva recuperato le forme accentuate. La sua bellezza era radiosa, più splendente della luce infuocata che ci avvolgeva, e notai che stava sorridendo senza un apparente motivo.

«Sei contenta di questa vacanza, milochka?» la interrogai, percependo la sua giovialità.

«È un sogno a occhi aperti» sospirò, ammaliata dal panorama strabiliante. Dal mio punto di vista, però, lei era di gran lunga più magnifica. Si girò per incastrare le sue iridi, della stessa sfumatura della distesa d'acqua infinita, nelle mie che la osservavano attentamente. «Devo parlarti di una cosa, Egor, e questa mi sembra la situazione ideale.»

Le sistemai una ciocca ribelle dietro l'orecchio e lambii il suo viso abbronzato con i polpastrelli. «Spero che sia una buona notizia, almeno.»

Mi afferrò i polsi e posizionò i miei palmi sopra al suo ventre, stringendo le nostre dita in quella zona del suo corpo. I suoi occhi erano lucidi e la sua voce tremolante, mentre spiegava: «Io... sono incinta. Ho fatto un test prima di partire, perché avevo il sospetto da un po'. Si è rivelato positivo».

Non credevo che avrei mai provato un'emozione più ardente e incontenibile di quella che mi aveva sopraffatto il giorno del nostro matrimonio. Invece, su quella spiaggia ammantata dai bagliori rossastri del tramonto, scoprii che esisteva una sensazione ancora più totalizzante. La gioia fu così prorompente che scoppiai a ridere e a piangere allo stesso momento, attirando Sofiya tra le mie braccia per trasmetterle il mio entusiasmo.

«Sei incinta di nostro figlio. Diventeremo genitori...» farfugliai quelle frasi ovvie, eppure sconvolgenti. Mi inginocchiai sulla sabbia e posai un bacio sul suo grembo, nel quale sarebbe cresciuto il frutto del nostro amore. «Avremo davvero un bambino?»

Sofiya mi sguardò dall'alto, passando le dita tra i miei capelli disordinati. «O una bambina» mi corresse, le labbra incurvate in un sorriso di pura felicità.

«Ti amo da morire, più di qualsiasi altra cosa o persona, e adesso dividerò questo amore per due. Siete capitati nella mia vita come un miracolo. Mi avete reso l'uomo più fortunato al mondo.»

«Ti amo anch'io. Mi hai donato la famiglia che ho sempre voluto» bisbigliò commossa.

Eravamo accecati da quel sentimento che ci vincolava oltre ogni barriera fisica e spirituale. Era ciò che pensavamo, tuttavia la realtà era molto più infida e spietata, e non tardò a condannarci a un'amara pena da scontare.

La burrascosa discesa verso gli inferi cominciò a gennaio dell'anno seguente, quando Sofiya era al termine della gravidanza. Era incinta di una piccola versione di sé, una bambina che tra una manciata di settimane sarebbe venuta al mondo. Smaniavo alla prospettiva che presto avremmo tenuto nostra figlia tra le braccia, la nostra legittima erede.

Qualcuno, però, non era d'accordo. I miei nemici, i fratelli Petrov, volevano colpirmi e indebolirmi nel punto più vulnerabile, per vendicarsi dell'oltraggio subito anni addietro. Se non potevano affossare l'organizzazione che dirigevo, allora avrebbero demolito il futuro della mia famiglia prossimo ad avverarsi.

Quello stesso giorno ero assediato da un terribile presentimento negativo, l'intuizione di una catastrofe che non mi lasciava in pace. Sofiya era uscita dal Ghetto per svolgere alcune commissioni, accompagnata da una delle nostre guardie, perciò non avrei dovuto preoccuparmi della sua incolumità. Nonostante la sua condizione delicata, aveva insistito per recarsi personalmente nel centro di Mosca, per acquistare dei prodotti essenziali ai primi mesi di vita della bambina.

Io ero rimasto nel mio ufficio alla Villa, per esaminare dei documenti sullo stato del patrimonio, ma non riuscivo a concentrarmi. Un principio di ansia mi divorava gli organi, sebbene non ne capissi la ragione. Per calmare l'inquietudine, decisi di telefonare alla guardia che scortava Sofiya, ma gli squilli rimbombarono a vuoto. Non ricevendo risposta, la morsa dell'urgenza peggiorò.

Mi alzai dalla scrivania e uscii dall'ufficio, intenzionato ad andare alla ricerca di mia moglie. Non mi sarei rassicurato finché non l'avessi trovata sana e salva, poi l'avrei pregata di riposarsi fino al momento del parto. La salute sua e della bambina era la mia priorità assoluta.

«Vory» mi richiamò trafelato uno dei miei scagnozzi, quando mi vide nel corridoio, «è successo... all'entrata dell'abitazione... la gospozha Sofiya...»

Il sangue si congelò nelle vene, il cuore perse molteplici battiti, nell'udire il suo nome. Non inquisii ulteriormente il mio scagnozzo, la cui aria affannata presagiva un avvenimento grave e impronunciabile. Lo superai e mi precipitai all'esterno della Villa, scendendo i gradini in rapidità. Ignorai il freddo sferzante dell'inverno, calpestai il suolo nevoso e scivoloso e varcai i cancelli imponenti della mia dimora.

Un esiguo gruppo di persone si era raccolto di fronte a una sagoma che non riuscivo a identificare. Mormoravano tra di loro e avevano espressioni spaventate che mi allarmarono. Non appena si accorsero dalla mia presenza, tutti si ritirarono dalla scena. Liberarono lo spazio per farmi avanzare verso la visuale terrificante che sgretolò la mia intera esistenza.

Come lo sparo di un proiettile, preciso e micidiale, che perfora la mia fragile armatura. Il senso della mia vita termina qui e ora.

La sagoma distesa sul terreno apparteneva a Sofiya. I suoi vestiti erano ridotti a brandelli, esponendo il corpo lacerato da profondi tagli e deturpato da ferite ed escoriazioni. Il ventre rotondo e gonfio era squarciato da una recisione netta, dalla quale il sangue sgorgava copioso. Il colorito della sua pelle era cadaverico, le palpebre sigillate e le labbra violacee, il petto immobile in cui non circolava più l'ossigeno.

Le mie gambe cedettero sotto il peso di quel dolore che mi polverizzò l'anima, un'esplosione nucleare che mi annientò. Le ginocchia affondarono nella neve, le mani artigliarono i capelli e li strattonarono in preda all'angoscia. Urlai finché le corde vocali non raschiarono, singhiozzai tanto che mi risultò difficile respirare. Percepii la pressione di una sofferenza devastante che mi comprimeva i polmoni, una lama che mi trafiggeva il cuore e mi uccideva dentro, anche se avrei soltanto voluto morire fuori.

Fissai il cadavere della donna che avevo amato con ogni mia cellula e fibra, la ragazza a cui avevo dedicato la mia intera vita per oltre due anni. La mia compagna, la mia metà, la mia felicità. Le sfiorai il viso pallido e sollevai piano il suo busto, per cullarla un'ultima volta nel mio abbraccio. Le mie lacrime piovvero tra i suoi capelli, imbrattati dal vischioso liquido cremisi che mi colava addosso. Stringevo Sofiya come se avessi avuto la minima possibilità di rianimarla, ma sapevo che non avrebbe mai più aperto gli occhi.

Ti ho persa per sempre. Perdonami se non ti ho difesa abbastanza. Ho fallito sia da marito che da padre, e questo rimpianto mi consumerà finché non ci ricongiungeremo.

«Mi dispiace, amore mio...» rantolai in un sibilo frammentato, rivolto tanto a Sofiya quanto alla nostra bambina.

Quel pensiero fu paragonabile a un'altra fucilata che mi scavò nelle viscere, mentre tastavo il grembo dilaniato di Sofiya. Avrei dovuto imparare a sopravvivere con il rimorso di non aver mai incontrato mia figlia. Non avrei avuto l'occasione di insegnarle niente, e forse sarebbe stato meglio così, ma non potevo tollerare l'idea che non l'avrei sentita chiamarmi "papà".

Non avrei conosciuto i suoi lineamenti, il colore delle sue iridi, il tono della sua voce né la forma del suo sorriso. Non avrei forgiato la sua personalità e il suo carattere, non avrei scoperto se assomigliasse più a me o a sua madre. Io e Sofiya non avremmo potuto amarla e non saremmo diventati genitori.

C'era solo un dettaglio che consolava il mio tormento, seppur in minima parte: quell'angelo era volato in paradiso insieme alla donna meravigliosa che l'aveva creato. Erano svanite senza di me, in un luogo più armonioso del lurido quartiere dove io ero incatenato, con i pezzi della mia anima impossibile da ricucire.

Magari me lo merito anche, di patire questo dolore insopportabile, per tutte le persone che ho corrotto con la mia crudeltà. È il prezzo da pagare per i miei crimini, ma perché siete state proprio voi le vittime?

I muscoli di Sofiya erano rigidi e, in un lampo di lucida e apatica consapevolezza, mi domandai da quanto tempo fosse morta. Non avevo dubbi: l'avevano assassinata per mandarmi un messaggio minatorio, l'avevano torturata e marchiata con segni violenti per intimidirmi. Accusai i più ostili rivali del Ghetto, i Lupi di Tambov, ed ebbi la conferma alla mia ipotesi quando adocchiai un bigliettino stropicciato, incastrato tra le dita inermi di Sofiya.

Sfilai il pezzo di carta e ne lessi il contenuto: "Adesso abbiamo pareggiato il nostro conto in sospeso. Ti avevo avvisato che sarei tornato e avrei attuato la mia vendetta. Yuri Petrov."

Accartocciai il biglietto nel palmo e adagiai il corpo di Sofiya sul terreno nevoso. Mi chinai per stamparle un bacio sulla fronte, poi le sussurrai la mia ultima promessa, in tono glaciale e inesorabile: «Anche tu avrai la tua vendetta».

Il giorno seguente, dopo una nottata trascorsa a capovolgere il mobilio della nostra camera per sfogare l'ira, recuperai il filmato della videocamera di sorveglianza posta nel luogo in cui Sofiya era stata uccisa. Vomitai persino ciò che non avevo ingerito, mentre assistevo alle immagini raccapriccianti degli ultimi istanti di vita di mia moglie. Soffrii insieme a lei e mi maledissi per averle permesso di uscire dai confini sicuri della nostra casa.

Gli uomini di Petrov - compresa la guardia che aveva accompagnato Sofiya e che si rivelò un infiltrato dei Lupi - l'avevano trascinata in un vicolo e malmenata, per poi costringerla a uno stupro di gruppo. Una volta soddisfatti, le avevano sferrato un numero spropositato di coltellate. Infine, quando si era dissanguata abbastanza da perdere i sensi, avevano spostato il suo corpo. L'avevano lasciata morire di fronte a Villa Zaffiro, l'avevano seviziata come un animale al macello.

Davanti allo schermo che riproduceva l'incubo che mi avrebbe perseguitato per sempre, giurai a me stesso che avrei ammazzato quei bastardi a mani nude. La mia donna e la mia bambina non sarebbero state sacrificate in modo vano.

Innanzitutto, ordinai che la guardia impostora fosse ammazzata brutalmente. Quel primo omicidio non placò la mia sete di rivalsa, né quel sentimento di rancore che si inerpicava sotto la pelle e mi avvelenava con il passare del tempo. Perciò escogitai uno stratagemma per fare incursione nella dimora dei Lupi di Tambov e scaricare la mia furia omicida contro Yuri Petrov.

Mi recai personalmente a San Pietroburgo, accompagnato dai miei sicari di fiducia. Quando il minore dei Petrov lasciò la sua residenza, lo tramortimmo e lo caricammo su un'automobile, per condurlo in una zona isolata della città. Lo picchiai a sangue e gli sputai addosso il mio odio, guardandolo dritto negli occhi, ma non lo eliminai con delle banali coltellate o un veloce colpo di pistola.

Lo rinchiusi nella macchina e cosparsi il veicolo di benzina, attendendo che la miccia scoppiasse e prendesse fuoco. Le urla di Petrov e l'odore di bruciato furono una beatitudine; mi sentii più leggero e appacificato. Mi concessi di sorridere, un ghigno sadico che mi tagliò il volto, e alzai lo sguardo al cielo plumbeo.

Adesso potete riposare in pace. Ci rincontreremo presto, amori miei.

San Diego, California, 9 agosto 2012

Dieci anni rappresentano un lasso di tempo incredibilmente lungo, soprattutto se vissuto con un vuoto siderale nel petto, un abisso nero che risucchia ogni emozione positiva. La morte di Sofiya e la perdita di mia figlia mi cambiarono in peggio, i loro fantasmi mi davano il tormento, e nemmeno la feroce vendetta riuscì ad acquietare il mio animo rovente di collera e astio.

Avevo accantonato il dolore in un angolo recondito del mio cuore, quell'organo che non funzionava ma batteva ancora, solo per saziare i demoni che vi si annidavano all'interno. Piuttosto che lasciarmi corrodere dall'agonia, suscitata dal pensiero della mia famiglia ormai crollata, covavo il seme di una malvagità inscalfibile.

Diventai un tiranno nel Ghetto e gli abitanti del quartiere, invece di ringraziarmi e venerarmi, mi temevano per la mia spietatezza. Nessuno osava disobbedirmi né ribellarsi, perché erano tutti invischiati nelle mie attività illegali, erano tutti i miei servi e i miei burattini.

Alla fine mi ero davvero tramutato nella copia sbiadita di mio padre, ciò che avevo sempre ripudiato. Mi costruii la nomea di un imprenditore illustre e di un facoltoso uomo d'affari, come lo era stato Nikolay Bayan. Ero il vory indiscusso di Mosca; chiunque si azzardasse a intralciare la mia strada finiva al patibolo.

Capitò con due agenti dell'FBI americana, una coppia del dipartimento di San Diego, che stava indagando i traffici di droga instaurati tra il Ghetto e gli Stati Uniti. Lauren e David Holsen erano degli ossi duri, determinati a incastrarmi e pronti a rischiare di rimetterci la vita. Il loro obiettivo era smantellare la criminalità per garantire ai loro figli un futuro migliore, in un mondo più pulito e sicuro.

Ci sarebbero riusciti, se non avessi troncato le loro esistenze. Avevo corrotto uno dei loro colleghi, per ottenere la loro posizione, e avevo teso il mio agguato in una sera d'estate. I miei scagnozzi li avevano assassinati e io avevo rubato i documenti dell'archivio investigativo, per eliminare ogni prova che avrebbe potuto formare una pista verso la mia disfatta. L'omicidio della coppia fu insabbiato dietro a un incendio appiccato di proposito.

Tuttavia, mi ritrovai a dovermi confrontare con due testimoni oculari: Maybelle e Daniel Holsen. La soluzione più rapida sarebbe stata ucciderli come i loro genitori, ma a frenarmi fu proprio la figlia maggiore. Aveva dimostrato un coraggio ammirabile e una tenacia eroica, per difendere suo fratello. Aveva addirittura aggredito uno dei miei uomini con un fermacapelli, un gesto spavaldo e audace che mi suscitò un moto di approvazione.

Quella ragazzina aveva solo dodici anni, ma possedeva una forza battagliera e unica. Con i capelli scuri e gli occhi cristallini in cui brillava una luce di intraprendenza, mi ricordò terribilmente Sofiya. Realizzai che nostra figlia, se fosse nata, avrebbe avuto circa l'età di Maybelle.

Forse fu quella somiglianza implicita a spingermi a rapire i fratelli Holsen e portarli a Mosca, lontano dalla loro terra d'origine. Non relegai Maybelle nel giro di prostituzione minorile, invece la feci addestrare e la trasformai in uno dei miei sicari scelti. Avevo scorto del potenziale, in lei, e volevo sfruttarlo a mio vantaggio. Divenne una combattente abile e un'assassina crudele, cresciuta in un circolo di rabbia repressa e bestialità.

Sapevo che mi detestava, perché avevo reso la sua vita e quella di suo fratello un vero inferno. Io, però, la vedevo come l'erede che non avevo mai avuto. Non potevo dirglielo, ma ero orgoglioso della giovane donna che era diventata, sotto il mio costante controllo. Nutrivo un affetto malato nei suoi riguardi, che non sarebbe stato ricambiato.

Quella era stata la mia seconda occasione. Non avevo conosciuto la mia figlia biologica, eppure avevo trovato una sostituta eccellente.

La mia personale macchina da distruzione, la mia arma più affilata. La stessa che, un giorno, completerà l'opera dei suoi genitori e mi farà soccombere.

Angolo autrice

Buongiorno adorati lettori 🫶🏻

Ecco qua la seconda parte dell'extra di Egor, con cui termina la parabola su questo personaggio. È stato un capitolo molto impegnativo da scrivere, sia per la lunghezza (in totale più di 17k parole, solo questa seconda metà ne conta 10k) che per la densità di eventi che si susseguono.

Ho cercato di riassumere i pochi ma intensi anni della relazione tra Egor e Sofiya, che da amanti diventano nemici, per poi innamorarsi e sposarsi. Purtroppo Sofiya perde tragicamente la vita mentre è incinta ed Egor non conoscerà mai sua figlia, a causa dei crudeli Lupi di Tambov.

Avete colto il riferimento ai fratelli Petrov? Vladilen è il boss nemico che è stato ucciso da May nel primissimo capitolo di IGZ, a San Pietroburgo. A proposito della nostra May, questo extra si conclude con un rimando al prologo e all'omicidio dei suoi genitori. Comprendiamo meglio le ragioni che hanno spinto Egor a portarla con sé a Mosca e scopriamo che, in fondo, si è affezionato a lei in modo contorto.

Non ho scritto questo extra con lo scopo di giustificare Egor, che resta pur sempre l'antagonista e un uomo che ha fatto azioni orribili, ma con l'obiettivo di farvi entrare nella sua mente. Anche lui ha subito la sua dose di traumi, anche lui ha sofferto e ha amato, e c'è un motivo se è diventato così.

Spero che il suo extra vi abbia coinvolto e interessato, perché a me è piaciuto tantissimo scriverlo, nonostante la difficoltà di alcuni passaggi. Ho adorato immergermi nella vita del giovane Egor ed esplorare il suo rapporto con Sofiya, che senz'altro è una dipendenza tossica, ma ci ha riservato tanti momenti romantici.

Ammetto che avrei desiderato scrivere molte più scene su di loro, perché hanno del potenziale. Mi è piaciuto dedicare questi due capitoli alla loro storia, ma rimarrà una semplice parentesi nella trama, che si ricollega a certi avvenimenti e personaggi.

Detto ciò, nel capitolo 39 torneremo al presente con Connor e May. Abbiamo lasciato lei con qualche ferita, ma i due faranno finalmente pace e ci regaleranno un po' di gioie ❤️‍🩹

Preparatevi comunque al peggio, perché mancano solamente sei capitoli all'epilogo e presto si scatenerà l'inferno. Non so quando aggiornerò, ma spero entro metà dicembre.

Alla prossima! Xoxo <3

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Altre immagini AI (ci ho preso gusto):

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