EXTRA - Egor (parte I)
Bellagio Hotel, Las Vegas, 15 ottobre 1998 (ventuno anni prima)
"La città del peccato": così era soprannominata Las Vegas, capitale mondiale dell'intrattenimento e del gioco d'azzardo, fonte inesauribile di lusso sfrenato ed esperienze folli. Considerata nell'immaginario collettivo come un luogo di profonda perdizione e trasgressione, sorgeva nel cuore del deserto di Mojave, che arroventava tanto il clima quanto lo spirito delle persone.
Con i suoi immensi casinò e le strade sature di locali notturni, mi aveva conquistato non appena ero atterrato sul suolo del Nevada. Era la prima volta che vi recavo visita, a causa delle dodici ore di volo che la separavano da Mosca. In quell'occasione particolare, mio padre aveva organizzato un breve viaggio di famiglia, con lo scopo di coinvolgermi nella gestione dei suoi affari.
Nikolay Bayan era uno dei più potenti imprenditori e magnati russi, nonché boss indiscusso della criminalità del Ghetto Zaffiro, le cui radici si estendevano in moltissimi Paesi. La mafia americana era legata alle nostre attività mediante scambi di droga e traffici umani, quindi avevamo deciso di soggiornare a Las Vegas per qualche giorno, per stringere una nuova alleanza con i nostri partner oltreoceano.
L'ultima sera avremmo partecipato all'inaugurazione del Bellagio Hotel, un resort sontuoso collocato sulla celebre Las Vegas Strip, un lungo viale brulicante di alberghi e case da gioco. La struttura era imponente ed elegante, ma a sfigurare erano le spettacolari fontane che accoglievano i visitatori, tra coreografie di getti d'acqua e musica.
Io e i miei genitori lasciammo la nostra suite - gentilmente pagata dal socio di papà, che avremmo dovuto incontrare in uno dei ristoranti - e ci dirigemmo nell'atrio dell'hotel, composto da pavimenti di marmo e intarsi d'oro. Il soffitto era ornato da un tripudio di fiori colorati, realizzati in vetro soffiato, che riverberavano la luce in mille tonalità diverse.
«La nostra casa è troppo umile rispetto a questo posto. Tesoro, dovremmo imitare queste decorazioni nella Villa, che ne dici?» propose mia madre Karina, con la sua insopportabile voce civettuola. Incatenò il marito con le sue iridi di smeraldo e gli strappò un bacio languido, avvinghiandosi a lui e provocandomi un principio di nausea.
I Bayan erano estimatori della ricchezza e della bella vita, ma lei era sempre stata una sanguisuga assetata di denaro. Era una talentuosa manipolatrice ed era brava a stregare mio padre, affinché accontentasse ogni suo vizio e capriccio. Il loro era stato un matrimonio di convenienza, mirato a unire due clan mafiosi: mia madre incarnava alla perfezione il ruolo di compagna del vory, sfoggiando un aspetto raffinato e curato nei minimi dettagli.
Nikolay la ricopriva di regali costosi, la portava a eventi esclusivi e la faceva sentire la regina di Mosca. Forse c'era anche una traccia d'amore, nel loro rapporto di avidità e tossicità, eppure non esternavano mai quel sentimento. L'affetto era una debolezza e un divieto, secondo le regole con cui mi avevano cresciuto, e io mi ero adattato velocemente a quella mancanza di calore tra le mura domestiche.
«Se riusciremo a stringere l'accordo con Siegel, raddoppieremo il nostro patrimonio e potrai modificare la Villa come preferisci» le concesse mio padre. «Sono fiducioso al riguardo: non rifiuterà i termini del patto.»
«Cerca di chiudere la riunione in fretta, ti prego. Sai che mi annoio incredibilmente, con i tuoi amici criminali» sbuffò Karina, arricciando le labbra tinte di rosso. La sfumatura era la stessa dell'abito succinto che indossava, reso meno osceno dalla pelliccia che le avvolgeva le spalle.
«La tua presenza non era necessaria, infatti. Potevi andare nel centro benessere» ribattei aspro. Non era un mistero che non tollerassi la donna che mi aveva concepito e che non nutrissi alcun rispetto nei suoi confronti. Era la moglie-trofeo di mio padre, niente di più, di assoluta inutilità nell'organizzazione.
«Non parlare con quel tono a tua madre, razza di maleducato» mi rimproverò indispettita, e la sua irritazione mi suscitò una risata di scherno.
«Smettetela, voi due. Non voglio sentirvi discutere, sono stato chiaro? Sono qui per lavorare» sibilò mio padre, il timbro intransigente che ci mise a tacere entrambi. L'autorità di Nikolay era indiscutibile e, per chiunque osasse disobbedirvi, riservava punizioni esemplari.
Io e mia madre lo sappiamo bene, d'altronde. Meglio non testare la sua pazienza.
Ci addentrammo nella calca di celebrità e milionari invitati all'inaugurazione, camminando verso una delle sale adibite a ristorante. Nemmeno lì avevano badato a spese, tra lampadari di cristallo e moquette dalla fantasia regale. Il nostro tavolo era appartato in un angolo; notai la figura di un uomo ingessato in un completo nero elegante, già seduto e intento a sorseggiare un calice di vino rosso.
«Buonasera, Hiram, perdonaci per l'attesa» lo salutò mio padre, con una cortese stretta di mani. La sua pronuncia inglese non era impeccabile, ma sapeva farsi comprendere. «Loro sono mia moglie Karina e mio figlio Egor.»
«Il piacere è tutto mio. Accomodatevi, forza» ci esortò l'altro, esibendo un sorriso carismatico. Sfiorò con le labbra il dorso della mano di mia madre, che sembrò sciogliersi per il gesto galante. Dopodiché indirizzò il suo sguardo scuro su di me, analizzandomi incuriosito. «Tu sei l'erede di Nikolay, allora. Il giovane futuro boss del Ghetto di Mosca.»
Un moto di orgoglio mi invase e confermai con sicurezza. Andavo fiero della mia posizione nel business di famiglia: avevo solo ventuno anni, ma mio padre mi stava già insegnando a occuparmi dell'organizzazione e delle sue attività illecite. Bramavo il momento in cui avrei monopolizzato il trono del vory, ero affamato di potere e grandiosità, desideravo che l'influenza del mio comando si allargasse oltre i confini russi.
L'ambizione richiede sacrificio. Tempo al tempo e il mio nome sarà scolpito nella storia, indimenticabile e solenne.
«Dunque, Hiram» cominciò mio padre, dopo aver assaporato il vino, «ti ringraziamo per averci offerto l'alloggio e l'entrata all'inaugurazione. L'hotel è splendido, non c'è che dire. Tuttavia, suppongo che dobbiamo discutere di questioni ben più importanti, giusto?»
«La tua deduzione è giusta, Nikolay.» Si ammutolì per una manciata di secondi e studiò i tavoli che ci circondavano, per assicurarsi che non ci fossero orecchie indiscrete. Il brusio dei commensali ovattò il proseguimento della conversazione: «La mia famiglia non vanta più il prestigio di una volta. In seguito alla morte di mio zio Benjamin, assassinato nel '47, la mafia è stata sradicata da Las Vegas. Mio padre ha voluto allontanarsi dal mercato del gioco d'azzardo e della prostituzione, invece io ho intenzione di restituire ai Siegel il fulgore degli anni passati. Per farlo, come avrai intuito, ho bisogno di un braccio destro».
Le speculazioni sul conto di Benjamin Siegel narravano che, grazie al suo genio criminale e al suo patrimonio esorbitante, avesse contribuito alla nascita dello splendore della città, finanziando la costruzione dei primi casinò e hotel di lusso. Aveva trasformato un insediamento sperduto nel deserto in un'oasi pacchiana e luccicante, simbolo di divertimento e vita sfarzosa.
Lui era stato il fulcro della ricchezza di Las Vegas, ma dopo il suo omicidio - operato da un gruppo di gangster rivali - la sua famiglia aveva perso le redini del controllo della zona. Non c'era da stupirsi, se Hiram stesse progettando di seguire le orme di suo zio e cercasse dei collaboratori adeguati.
«Ho una proposta vittoriosa per entrambi. Puoi unirti alla rete dei miei traffici internazionali, di cui ti spiegherò i dettagli in un luogo più tranquillo.» Mio padre si interruppe brevemente quando il cameriere segnò le nostre ordinazioni per la cena. «In cambio, ti chiedo una parte dei profitti delle attività che gestisci, specialmente dei casinò. Ti sembra un accordo equo?»
Hiram si accarezzò la barba curata, riflettendo sulle parole del boss di Mosca. «Raccontami della sostanza che ha reso celebri i Bayan e ha dato origine al vostro impero. Il Sapfir, giusto?»
«È stata un'idea di mio padre, un grande appassionato di chimica. È nato nella povertà del Ghetto e ha ribaltato la sua condizione economica, fino a proclamarsi il boss del quartiere. Ha formato una banda armata che eseguiva ogni suo comando, ha iniziato a commerciare il Sapfir e si è legato a famiglie mafiose di tutto il mondo. Dieci anni fa è tristemente deceduto in una sparatoria, lasciando a me la sua eredità.»
Mio nonno Viktor era ancora venerato come una divinità, tra la gente del Ghetto; a quel tempo la sua fama era conosciuta nell'intera Unione Sovietica, persino tra le fila dei politici e della polizia federale. Era stato lui a innalzare la reputazione dei Bayan, a fondare Villa Zaffiro e a permetterci di nuotare nella ricchezza sporca che aveva accumulato.
«Un'ascesa impressionante» commentò colpito Siegel, mentre il cameriere ci serviva gli antipasti e le pietanze. «Sarei onorato di entrare nel vostro circolo. Posso nominarti principale azionista del Wynn Casinò, la casa da gioco di mia proprietà, e del Flamingo Hotel, edificato dallo stesso Benjamin prima della sua morte.»
«È un buon compromesso, ma non è sufficiente. Aggiungerei la costruzione di un casinò nel Ghetto e di alcuni bordelli, finanziati dal vostro capitale» mi infiltrai nel discorso, con uno slancio di spavalderia. «Noi condividiamo la droga, le armi e le prostitute, a condizione che voi ci forniate le strutture dove utilizzarle.»
«Tuo figlio ha la stoffa del leader, Nikolay» ridacchiò Hiram, poi tornò a osservarmi. «Accetto la tua proposta, ragazzo. Hai ragione, a pretendere di più: il peggiore errore è accontentarsi. Se punterai in alto, verrai ricompensato.»
«Possiamo dichiarare concluse le trattative?» domandò mio padre, versandosi un calice per festeggiare il nuovo successo lavorativo.
Hiram fece tintinnare il bordo dei loro bicchieri e replicò il gesto anche con me, sugellando il patto. «Brindiamo a una collaborazione duratura e proficua, tra Mosca e Las Vegas.»
Bevemmo e cominciammo a gustare la cena stellata, tra chiacchiere più frivole e spensierate. Una volta finito di mangiare, Hiram si congedò e ci augurò una buona serata, promettendo di ricontattarci presto. Mentre uscivamo dalla sala-ristorante, mio padre mi lasciò una pacca sulla schiena e un sorriso soddisfatto.
«Sei stato bravo, figliolo. Perché non ti prendi il resto della serata per svagarti al casinò? Io e tua madre torneremo nella suite» mi informò, scoccando uno sguardo impudico alla moglie.
Se non fossi stato così lusingato dall'apprezzamento di papà nei miei confronti, il mio viso avrebbe mostrato una smorfia disgustata. «Va bene, grazie. Ci vediamo dopo.»
Mi dileguai in mezzo alla folla e seguii le indicazioni per raggiungere l'ala della struttura dedicata al gioco d'azzardo. Entrai nel tempio della sregolatezza e del divertimento immorale: comitive di uomini ricchi che si sfidavano intorno ai tavoli, gente disperata che tentava la buona sorte alle slot machine, ragazze seminude che incoraggiavano i vincenti, la droga che girava in ogni zona della sala.
Era quello il mio ambiente naturale. Amavo sguazzare nel lusso, con la gradevole compagnia di una bella donna e di qualche striscia di polvere bianca. Ero inebriato dalla magnificenza pomposa del luogo, dalla vista dei soldi che venivano gettati sul banco e dalla smania dei giocatori di portarsi a casa un gruzzolo dignitoso.
Se non ne eri un frequentatore assiduo, i casinò potevano fottere il cervello e il conto in banca. Ti risucchiavano in una spirale di azzardo e perdizione, mirando a svuotarti le tasche e a farti scivolare nella subdola trappola della dipendenza. Era necessario un autocontrollo di ferro, per capire quando si superava il limite e imporsi di accettare la sconfitta.
«Salve, monsieur. A cosa desidera giocare?» mi ricevette una hostess, fasciata in uno striminzito abito nero.
Fissai senza ritegno le curve accentuate del suo corpo, evidenziate dall'aderenza del vestitino. La ragazza ricambiò la mia espressione languida, attorcigliando una ciocca bionda intorno al dito e sfarfallando le ciglia con fare provocante. Sapeva che avrebbe guadagnato una paga più alta, se mi avesse dedicato le sue attenzioni per tutta la notte.
«Portami a un tavolo da poker e dimmi il tuo nome, dorogaya.» Le circondai il fianco con il braccio e la avvicinai a me, suggerendo che l'avessi scelta in qualità di mia compagna d'avventura. Scoprii che si chiamava Lucille e che era originaria del Belgio.
Mi indirizzò verso uno dei pochi posti liberi, tra una cerchia di uomini che sfoggiavano completi costosi e orologi dorati al polso. Mi accomodai in mezzo a loro, incurante di essere il più giovane e di avere una ragazza seduta sulle mie ginocchia.
«Sicuro di avere l'età giusta per giocare, giovanotto?» mi derise un vecchio sulla settantina, stimolando le risate dei suoi compagni.
«Sì, ne ho compiuti ventuno il mese scorso. In caso contrario, non sarebbe il crimine maggiore a questo tavolo» feci allusione alle dosi di cocaina che alcuni membri stavano sniffando. «Non importa. Il nipote di Viktor Bayan non si lascia impressionare.»
Sentendo nominare mio nonno, qualcuno spalancò gli occhi e mormorò esclamazioni sottovoce. La mia famiglia non passava inosservata neanche negli Stati Uniti, dall'altra parte del mondo, poiché eravamo in combutta con parecchie organizzazioni criminali sparse sul territorio americano. I giocatori che non mostrarono reazioni di stupore erano troppo storditi dalla droga, oppure all'oscuro del reticolo di bande mafiose che infettava le loro metropoli.
«Avrei dovuto capirlo dall'accento russo. I sovietici si vedono raramente, da queste parti, se non per un motivo specifico» asserì il vecchio di prima, che d'un tratto si rivolse a me in tono rispettoso. «Sono curioso di scoprire le tue strategie di gioco, Bayan. Che vinca il migliore.»
«Veselit'sya» augurai con un ghigno ironico, dopodiché il croupier decretò l'inizio della partita.
Realizzai che la fortuna fosse in mio favore - incarnata da Lucille che mi accarezzava la nuca e il petto, bisbigliando frasi sensuali al mio orecchio - mentre sfoderavo combinazioni di carte che stracciavano i miei avversari. I semi e i colori si abbinavano in mio vantaggio, formando le scale che mi permettevano di appropriarmi dei soldi scommessi. Gli altri giocatori mi maledicevano e abbandonavano il tavolo, nel frattempo che il denaro si accumulava tra le mie mani propizie.
In preda all'euforia cieca e al brivido del rischio di perdere tutto, afferrai una bustina di polvere bianca. Ordinai a Lucille di stare immobile: disegnai una striscia candida sulla curva del suo seno e inspirai la droga direttamente dalla sua pelle. Mi godetti la sensazione travolgente e immediata dello stupefacente, che riattivò i miei stimoli e aguzzò le percezioni, con deliri di onnipotenza e un'energia smisurata.
Il croupier annunciò la fase finale del gioco; eravamo rimasti solo io e quel vecchio a sfidarci. Nel momento in cui rivelammo l'ultima mano di carte, dovetti accettare che la buona sorte aveva cambiato preferenza, perché il bastardo mi aveva appena sconfitto. Gli cedetti il montepremi e mi congratulai per la sua ottima strategia, nonostante il disappunto.
«È stato un piacere, Bayan. La prossima volta sarai più fortunato» mi salutò divertito. Il suo sguardo viscido si spostò su Lucille. «Ti dispiace lasciarmi anche la signorina?»
Scrollai le spalle con indifferenza, suggerendo che non mi importasse, e feci cenno alla ragazza di allontanarsi. Avrei trovato un'altra modalità per sfogare la frustrazione. Mi incamminai per tornare nella lobby dell'albergo, sebbene le pareti vorticassero e le gambe traballassero, a causa dei sensi annebbiati dalla cocaina.
Forse fu a causa della mia poca concentrazione, se mi aggregai alla massa di persone che confluiva verso il Bellagio Theater. Entrai nella sala dedicata agli spettacoli dal vivo, sormontata da un'ampia cupola traslucida. La luce soffusa conferiva all'ambiente un'atmosfera pacifica e raffinata, in assenza dei fronzoli esagerati che caratterizzavano gli altri spazi dell'hotel.
Spinto dalla curiosità - oppure dai postumi dello sballo, chi poteva dirlo - mi sedetti in prima fila, dinanzi al sipario calato sul palco. Sbirciai il volantino che la mia vicina di posto teneva tra le dita: avremmo assistito a un'esibizione del celebre Cirque du Soleil, dal tema acquatico, pensata esclusivamente per l'inaugurazione del Bellagio. Il gruppo di circensi era rinomato per gli spettacoli sofisticati e creativi, quindi decisi di rimanere nel teatro e attendere l'inizio della prima.
Improvvisamente, i neon si spensero e i riflettori illuminarono il tendone rosso che si sollevava. Al centro del palco era stata allestita una piscina, sulla quale era sospeso un trapezio vacante. Un soave sottofondo musicale vibrò nell'aria, introducendo una squadra di nuoto sincronizzato che sbucava dalla superficie dell'acqua. Lungo il bordo della piscina, file di acrobati maneggiavano attrezzi di scena e danzavano in armonia.
La performance era ipnotica e maestosa; i circensi subacquei erano in simbiosi con il loro elemento e quelli terrestri narravano una storia surreale, animata da creature magiche. L'acqua era la vera protagonista, simbolo di purezza e grazia, di un ciclo eterno che non si spezzava mai. A incantare il pubblico, però, fu soprattutto l'abile trapezista che volteggiava a una decina di metri d'altezza.
La sua figura sinuosa, evidenziata dal costume colorato, era predominante e ammaliava chiunque. Si librava sulla sbarra del trapezio, per niente timorosa della possibilità di precipitare, compiendo acrobazie che mozzavano il fiato e guadagnavano applausi rumorosi. Reggendosi solo con l'incavo delle ginocchia, a testa in giù, si abbassò fino a sfiorare la piscina con le mani e tracciare una scia sul filo dell'acqua.
La trapezista calamitò sia l'attenzione della platea che quella dei circensi: divenne il cuore pulsante dell'esibizione, gli acrobati si tendevano verso di lei e la veneravano. Allo stesso modo, i miei occhi seguivano assiduamente i suoi movimenti. Non riuscivo a staccare le pupille dal suo corpo flessibile e longilineo, che padroneggiava la forza di gravità e sfruttava il trapezio come se fosse stato un'estensione dei suoi arti.
Quando lo spettacolo terminò un'ora dopo e il sipario coprì la scena, i miei pensieri erano ancora incastrati sull'immagine di quella talentuosa ragazza. Un lampo mi attraversò la mente e balzai in piedi, tra lo scrosciare emozionato del pubblico, per dirigermi dietro le quinte del palco. Vagai un po' senza meta per trovare la strada corretta, dato che non avevo smaltito del tutto i rimasugli di droga nel sangue, ma alla fine raggiunsi la zona dove erano collocati i camerini e i ripostigli.
A spingermi a camminare era l'istinto, non la razionalità, e non sapevo nemmeno quali intenzioni avessi di preciso. Volevo semplicemente vedere la trapezista da vicino e magari scambiare qualche parola con lei. Una voce urlava nella mia testa che dovevo conoscere quella ragazza, a ogni costo, anche se non ne comprendevo la ragione precisa.
«Scusa, ti sei perso? Stai cercando qualcuno?» mi fermò un circense palestrato, notando il mio palese smarrimento.
Gli rivelai il soggetto del mio interesse e mi indicò la porta del suo camerino privato. Lo ringrazia, poi con andatura rapida arrivai a fronteggiare il battente di legno, sul quale era affissa una targa argentata. Sopra vi era inciso il nome "Sofiya" in lettere eleganti. Senza indugiare un attimo, chiusi il pugno e bussai con decisione.
Udii dei passi leggeri, che precedettero l'apertura della porta. Oltre la fessura che lasciava intravedere uno scorcio della stanza, si affacciò la trapezista. Osservandola a così poca distanza, ebbi la conferma che fosse innegabilmente splendida: una cascata di voluminosi ricci castani le ondeggiava dietro la schiena; i grandi occhi azzurri erano messi in risalto dal trucco di scena, come i lineamenti delicati del viso di porcellana; il costume dalla fantasia variopinta evidenziava le curve piene del suo fisico slanciato.
Era dotata di una bellezza algida e aggraziata, né volgare né appariscente. I suoi tratti candidi erano simili a quelli delle ragazze russe, e ne compresi il motivo quando mi parlò: «Posso fare qualcosa per te?»
Riconobbi subito la cadenza slava, abbastanza marcata da farmi intuire che provenisse dalla regione orientale del Paese. «Volevo complimentarmi per il tuo incredibile numero da solista. Mi chiamo Egor. Ty russkaya, milochka?» le domandai con il mio miglior sorriso carismatico.
«Grazie, Egor, sei molto gentile. Io sono Sofiya e sì, direi che siamo compaesani» le sfuggì una lieve risatina. «Sei della capitale, suppongo» continuò, analizzando il mio vestiario di lusso.
«Indovinato. E tu, invece?» mi interessai.
Si strinse nelle spalle, quasi imbarazzata. «Nessun luogo che valga la pena visitare. Sono nata in un villaggio rurale dell'oblast di Magadan, nell'estremo oriente russo, circondata dal nulla.»
«Ti va di raccontarmi di più, magari davanti a un buon cocktail? Ho visto che c'è un bar che si affaccia sulle fontane e mi piacerebbe provarlo in compagnia» le proposi di getto, come se fossimo stati già amici. «Hai finito con gli spettacoli, per oggi?»
Con mia piacevole sorpresa, Sofiya non declinò l'invito e non mi etichettò come un malintenzionato. Anzi, sembrava contenta all'idea di trascorrere un momento fuori dalla combriccola di circensi. «Sono libera, il prossimo è domani sera. Non mi dispiacerebbe fare una chiacchierata con te, quindi accetto volentieri. Dammi quindici minuti e ti raggiungo nell'atrio, il tempo di cambiarmi, poi andiamo insieme al bar.»
«A dopo, milochka» la apostrofai. «Non farmi aspettare troppo e non darmi buca.»
«Non preoccuparti, Egor. Mantengo sempre le promesse. Ci vediamo tra poco.» Mi rifilò un occhiolino ammiccante, poi richiuse la porta e si eclissò dalla mia visuale.
Uscii dal teatro e mi diressi nel punto dell'incontro; la hall era ancora gremita, ma stava cominciando a svuotarsi dagli invitati. che si ritiravano per la notte. Nell'attesa di veder comparire Sofiya - e nella speranza che non mi avesse ingannato - passeggiai tra i numerosi negozi presenti nella struttura. Venni attirato da una bottega che vendeva oggetti realizzati in cristallo e decisi di acquistare il mazzo di fiori esposto in vetrina. Le rose trasparenti, dalle leggere sfumature vermiglie, riflettevano la luce e brillavano come diamanti.
Tornai nella lobby nell'istante in cui Sofiya varcò la soglia. Non indossava più l'abbigliamento da trapezista e appariva come una normalissima ragazza, con un vestito celeste che ricalcava il colore delle sue iridi e i capelli raccolti dietro la nuca da un fermaglio. Non appena mi riconobbe, sul suo volto ripulito dalla maschera di trucco sbocciò un sorriso e mi salutò con un cenno della mano. Si avvicinò a me, sgusciando furtivamente tra la gente, con l'agilità di un felino.
Le donai il mazzo di rose di cristallo. «Queste sono per te, un piccolo omaggio.»
«Oh, sono bellissime. Saranno costate una fortuna. Non avresti dovuto spendere così tanto» mi rimproverò, ma sapevo che apprezzava il regalo, sotto quello strato di umiltà.
«Non porti il problema dei soldi, d'accordo? Ti ho invitata io, a questo appuntamento, e me ne assumo la responsabilità» spiegai, omettendo che la mia famiglia fosse in possesso di tonnellate di denaro. «Adesso, raggiungiamo il bar.» Piegai il braccio in un gesto galante e lei posizionò la mano nell'incavo del mio gomito.
«È diventato un appuntamento? Non doveva essere una bevuta amichevole?» chiese in tono dilettato.
«Considerala come un'occasione per conoscerci meglio, tutto qui. Nessun impegno, nessuna pretesa.»
Arrivammo all'ingresso del The Vault, il lounge bar più lussuoso del Bellagio Hotel, e un cameriere ci fece accomodare a un tavolino per due, proprio accanto alla vasta vetrata che permetteva di godere della vista delle iconiche fontane. Sofiya osservò incantata il panorama, invece io ero stregato dai tratti candidi del suo viso. Nel bagliore aranciato della sala, la sua figura spiccava in tutta la sua affascinante semplicità.
«Come trascorri le serate dopo uno show, di solito?» la interrogai, scostando la sedia dal tavolo per farla accomodare.
Mi sorrise riconoscente per la cordialità, e mi sedetti di fronte a lei. Lo scintillio dei grattacieli dello skyline ci ammantava, specchiandosi nel suo sguardo limpido. «Mi riposo e basta, a dire il vero. Non ho le forze necessarie da bruciare per altre attività, però... stasera volevo fare un'eccezione alla regola. Le mie giornate ruotano intorno al circo ed è abbastanza estenuante, tra le prove e le trasferte.»
«Sai già quale sarà la vostra prossima meta?» domandai, nel mentre che leggevo la carta dei cocktail. La mia scelta ricadde sul drink più costoso, il cui prezzo stellare aveva cinque cifre, e comunicai l'ordinazione al cameriere.
«Gireremo gli Stati Uniti per tutto il mese, poi ci sposteremo in Europa. La vita nomade è stancante e non nego che spesso sento il bisogno di un po' di stabilità, ma il circo è la mia casa e la mia famiglia.»
«Il Cirque du Soleil è canadese, dico bene? Come ci sei capitata, dal tuo villaggio sperduto in Siberia?»
«A quindici anni, nel '95, sono scappata da casa mia, perché non sopportavo più i soprusi di mio padre e la debolezza di mia madre. Vivere nella povertà e nella violenza era un incubo» confessò incerta, in un bisbiglio che trasudava vulnerabilità. «Ho attuato la fuga insieme a mio cugino, un ribelle politico che si opponeva al governo. Grazie al suo aiuto sono riuscita ad abbandonare il Paese e superare il confine. Abbiamo preso il primo volo all'aeroporto di Magadan, siamo atterrati in Polonia e abbiamo soggiornato a Varsavia per un breve periodo. È lì che ho incontrato Gabriel Vertus, il fondatore del circo, e mi sono iscritta alle audizioni.»
«Cosa ti ha spinta a unirti a loro?» formulai l'ennesimo quesito, colpito dalle sue vicende. Era assodato che le infondessi fiducia, altrimenti non mi avrebbe rivelato i dettagli controversi del suo passato.
«Ho sempre avuto un talento per la ginnastica e molta elasticità e resistenza, considerato che ho lavorato per anni in campagna e mi arrampicavo addirittura sopra agli alberi» emise una risata malinconica, l'aria assorta dai ricordi della sua adolescenza. «Gabriel si è affezionato a me e alla mia storia, tanto che ha deciso di adottarmi nella sua squadra. Negli ultimi tre anni mi ha sottoposta a lunghi e intensi allenamenti, per eguagliare il livello degli altri acrobati, e alla fine mi sono meritata il ruolo di trapezista principale.»
«Vorrei che la mia vita fosse interessante quanto la tua. Io sono solo il noioso erede di un imprenditore del settore immobiliare» minimizzai, senza accennare ai traffici illegali che gestivano i Bayan.
I suoi occhi, dal taglio allungato e dalle pupille perforanti, mi analizzarono. «Sono fermamente sicura che ogni persona nasconda qualcosa di interessante. Un segreto, una passione, una seconda vita, un progetto... Nessun essere umano può definirsi "noioso", perché tutti proviamo a esistere, in un modo o nell'altro» elaborò la sua profonda riflessione con spontaneità. «L'ho imparato nel circo, stando a contatto con gente di ogni nazionalità e carattere. Ciascuno di noi ha un particolare che lo contraddistingue, una luce che non troverai in nessun altro.»
Rimasi in silenzio, faticando a formulare una risposta altrettanto filosofica. Quella ragazza era un connubio di perfezione e sensibilità, rara come un fiore nel deserto, e la sua espressione brillava di una scintilla unica. Mi si stringeva il cuore, al pensiero che l'indomani sarei tornato a Mosca e che non l'avrei mai più rivista.
Ed è ironico che non voglio lasciarti andare, perché ti ho appena conosciuta, ma mi sembra di cercarti da sempre. Ci sarà una ragione, se il filo del destino ha intrecciato le nostre strade.
«L'ho notata, la luce di cui parli, sai? Tu ami l'umanità, nonostante i suoi difetti; ami spiccare il volo su una folla, sapendo che sarà diversa da quella precedente; ami viaggiare e incontrare volti nuovi. Ho indovinato, Sofiya?» mormorai, la voce bassa e suggestiva.
Forse fu una mia impressione, eppure le sue guance si imporporarono e d'un tratto appariva più timida. «Ottima interpretazione del testo» scherzò. «Io, però, non ho ancora capito nulla di te. Sei enigmatico, Egor Bayan.»
A interromperci fu il cameriere che portò un vassoio e lo posizionò al centro del tavolino. Sopra al piatto di vetro erano posizionati due calici ripieni di un cocktail color crema, accompagni da due bicchierini di cognac pregiato e da un set di gioielli luccicanti.
«Ecco i vostri Ono, signori, prodotti con Charles Heidsieck Champagne Charlie 1981 e Louis XIII de Remy Martin Black Pearl Cognac. Con il servizio sono inclusi un paio di gemelli d'argento e una collana d'oro bianco da diciotto carati.»
Sofiya spalancò le palpebre e mi fissò sconvolta. Io ringraziai il cameriere e lo congedai, poi assaporai il cognac dal gusto pungente. Versai il resto nel cocktail e feci roteare il calice per mischiare i liquidi, davanti all'espressione attonita della ragazza, che non osava prendere il suo bicchiere.
«Assaggialo, è molto buono» la incoraggiai, avvicinandole il drink. «Non chiedermi il prezzo e non dire che ti senti in colpa, per favore. Detesto le discussioni sul denaro, sono così futili.»
«Non potevamo ordinare un semplice gin tonic? Non voglio che sprechi soldi per impressionarmi» protestò.
«Non lo considero uno spreco. Siamo nel lounge bar di uno degli hotel più lussuosi al mondo, nella città dello svago e della ricchezza, e voglio sorseggiare un cocktail all'altezza del luogo. Goditi l'esperienza, Sofiya, e non preoccuparti per il mio conto in banca.»
Sospirò sconfitta e afferrò il calice, inclinandolo tra le labbra. Assaggiò il drink e annuì, segno che concordasse sulla qualità eccelsa. Le consigliai di provare ad aggiungere il cognac, ma arricciò il naso infastidita dal retrogusto acido.
Dopodiché sollevai con delicatezza la collana d'oro bianco dal vassoio, mi alzai in piedi per aggirare il tavolo e mi posizionai alle spalle di Sofiya. Mi chinai per avvolgere il pendente intorno al suo collo, e nel chiudere la catenella accarezzai un lembo della sua pelle chiara e liscia.
«Non credo di poter accettare anche questo regalo, davvero. Non voglio essere in debito con te» replicò, ammirando la collana come un tesoro inestimabile.
«Ti sta benissimo» le sussurrai all'orecchio, e non mi scappò il fremito che la scosse. Continuai a stuzzicarla, facendo scorrere i polpastrelli lungo le sue braccia scoperte, che si rivestirono di brividi. Respirai il suo profumo, così da dolce da stordirmi. «Che ne dici di fare una passeggiata all'aria aperta, per guardare le fontane? Altrimenti... potremmo andare nella mia suite, se preferisci.»
«Sì, lo preferisco» bisbigliò, girandosi sulla sedia per osservarmi negli occhi. Le sue dita si intrecciarono tra le mie, lo sguardo era liquefatto dal desiderio peccaminoso. «Lo spettacolo deve andare avanti, no?»
Quando si sollevò, le circondai il fianchi e la attirai contro il mio petto. «Mostrami di cosa sei capace, milochka.»
I nostri successivi movimenti furono dettati dalla frenesia: saldai il pagamento dei cocktail, lasciammo il locale e raggiungemmo la suite marciando spediti. Ci intrufolammo nella mia stanza, ignorando le voci dei miei genitori che provenivano dalla camera matrimoniale, e mi assicurai di chiudere la porta a chiave.
Scambiai una rapida occhiata con Sofiya, sufficiente a comprendere che la libidine la stava divorando - tanto quanto l'eccitazione stava consumando me - e che non saremmo stati in grado di contenerci un ulteriore secondo.
Mi avventai su di lei, ghermii il suo viso tra i palmi e la baciai con veemenza. Era ciò che smaniavo di fare dal primo momento in cui l'avevo vista su quel trapezio, e io ero abituato a vincere sempre, a esaudire ogni mia richiesta. Volevo quella ragazza e l'avevo conquistata con una facilità disarmante.
Sofiya mi restituì il bacio con la stessa foga; le nostre labbra si tormentavano a vicenda, le mani esploravano i corpi che ardevano di desiderio. Ci separammo solo per strapparci via i vestiti, che si ammucchiarono sul pavimento in modo disordinato. In seguito affondai le dita nelle sue cosce e la sollevai da terra, per farla sdraiare sul letto.
Mi concessi un attimo per guardarla: la biancheria intima di pizzo nero che celava le meraviglie della sua figura, i capelli ricci e scombinati che incorniciavano il volto, le gote arrossate e il respiro agitato. Era un capolavoro e quella notte sarebbe stata la mia dea da venerare.
La privai del reggiseno e degli slip, esponendo le sue curve prosperose al mio sguardo famelico; indossava solo la collana luccicante, che pendeva verso lo sterno. Con la bocca perlustrai ogni zona del suo splendido corpo, scesi fino all'inguine e le allargai le ginocchia. Seppellire la testa tra le pieghe della sua eccitazione e udire i suoi gemiti di piacere fu paradisiaco. In quei minuti di estasi, mi ritrovai a pensare che il suo sapore sarebbe divenuto una dipendenza e che non avrei mai assaggiato niente di più buono.
Mi aiutai con l'indice e il medio, strofinando gli anfratti fradici della sua intimità, finché il suo orgasmo non mi esplose sulla lingua. Spostai l'attenzione su Sofiya, ansimante e accaldata, e decisi che non volevo più aspettare. Mi liberai dei boxer e mi sedetti sul materasso, per poi trascinarla sul mio bacino. Si dimenò sulla mia erezione rigida e pulsante, rischiando di distruggere la mia resistenza in un colpo solo.
Mi inserii dentro di lei con una stoccata secca e il suo calore mi stritolò, intrappolandomi in una morsa letale e sensuale. Sfondammo ogni barriera fisica e immaginaria, creando una fusione indistinguibile tra i nostri corpi. Il contatto era talmente intenso e viscerale che temetti di implodere in quel preciso istante, invece ebbi la decenza di regolarmi. Mi imposi di godere al massimo dell'atto e di accertarmi che compiacesse anche Sofiya.
Fu lei a dettare il ritmo dell'amplesso, ondeggiando i fianchi e calandosi sul mio ventre. Si dibatteva con furore e impeto, schiacciando le mani sul mio torace per mantenere una posizione di comando. La sua dissolutezza la rendeva ancora più provocante, capace di sedurmi completamente e di annientare la mia ragione. Artigliai i suoi seni tra le mani, mentre mi adeguavo al suo ancheggiare e la penetravo con affondi animaleschi.
Eravamo furiosi e concitati: i nostri gemiti rimbombavano nel silenzio, il letto cigolava sotto di noi, la nostra carne si scontrava e scivolava. Accorgendomi che Sofiya cominciava ad accusare la stanchezza, circondai la sua schiena imperlata di sudore e la feci stendere sotto di me, ribaltando la situazione in mio vantaggio, con le sue gambe che mi arpionavano il busto. Incrementai il vigore delle spinte, impaziente di sprigionare quella brama aggressiva, intanto che lei era travolta dal secondo potente orgasmo.
Il mio piacere culminò in un ringhio sfiatato e mi accasciai sul suo corpo. Recuperammo l'ossigeno insieme, svuotati da ogni briciola di energia e appagati da una sensazione di benessere impareggiabile. Non ricordavo di aver sperimentato del sesso migliore in vita mia, e sperai di averla soddisfatta altrettanto.
«Resta qui con me, fino al sorgere del sole» la implorai, il respiro ancora pesante, accarezzandole i ricci ingarbugliati. «Domattina dovrò partire e tornare a Mosca. Non avremo occasione di rivederci.»
«Faremo in modo che la tua ultima notte qui sia indimenticabile» declamò, incastrando le sue iridi azzurre nelle mie. «Mi dispiacerà dirti addio, Egor, sai? Vorrei avere più tempo da trascorrere con te. Vorrei non essere costretta a salutare ogni persona che mi rapisce il cuore. Il mio stile di vita non mi permette di avere relazioni stabili.»
Tracciai il profilo del suo viso in punta di polpastrelli, passando il pollice sulle labbra schiuse e invitanti. «Vorrei che esistesse una soluzione per non doverti lasciar andare.»
«Godiamoci le ore che ci rimangono, d'accordo?» Mi lambì il petto con le unghie, e le sue carezze arrivarono a sfiorarmi il membro. Ci impiegò poco a renderlo di nuovo turgido, serrandolo tra le sue dita esperte e iniziando a frizionarlo lentamente.
«Sei malefica e persuasiva, milochka» la schernii, per poi rubarle un bacio vorace. «Ho avuto la conferma che sei davvero un'acrobata. Non sono mai stato con una donna così atletica. Hai una tempra invidiabile.»
«Te l'ho detto che mi sono addestrata a essere la migliore trapezista» soffiò a un centimetro dalla mia bocca. «Sappi che non ho finito di dimostrartelo. Ho parecchie doti nascoste.»
Allacciai le braccia intorno al suo corpo e me la tirai addosso, incollandomi alla sua pelle. «Voglio scoprirle tutte, a partire da adesso. Non ti darò tregua» la sfidai con un ghigno sardonico.
Sofiya tenne fede alla sua promessa: quella notte fu indimenticabile. Avevamo marchiato ogni pezzo d'arredamento di quella stanza, in ogni posizione possibile - la sua elasticità era strabiliante - e ci eravamo dedicati cure e attenzioni di qualsiasi tipologia. Alternavamo momenti di passione sfrenata a frangenti di tranquillità in cui parlavamo e basta; il sesso selvaggio alle carezze più dolci; i gemiti rumorosi ai sussurri di confidenza.
Mi risultava impossibile allontanarmi da Sofiya. Non sarei riuscito a rinunciare alla sua presenza, al suo sguardo ipnotico, al suo corpo pazzesco. Quella consapevolezza mi investì in pieno, mentre la osservavo dormire nuda e accoccolata contro di me, l'espressione serena e i muscoli distesi. Con lei mi ero sentito bene come non era mai successo, non potevo perderla per alcun motivo al mondo.
Forse una soluzione esiste, ma probabilmente ti rovinerò la vita e mi odierai in eterno per il mio egoismo. Posso scegliere la mia felicità, a discapito della tua libertà? In fondo, sono abituato ad avere sempre ciò che voglio, e tu non farai eccezione.
Gabriel Vertus, il capo del Cirque du Soleil, era un osso duro da corrompere, ma non impossibile.
Mi recai nella sua stanza durante le prime luci dell'alba, dopo aver estorto le informazioni sul suo alloggio alla reception dell'hotel. Lo svegliai bruscamente dal sonno restauratore e gli comunicai la mia proposta irrinunciabile, seppur dalla morale disonesta.
All'inizio della conversazione, aveva reagito con disappunto e aveva minacciato di denunciarmi per quel ricatto. Non avrebbe mai abbandonato Sofiya e non l'avrebbe cacciata dalla squadra, non solo perché era una trapezista insostituibile, ma soprattutto per l'affetto che nutriva nei suoi confronti. Aveva protetto quella ragazza sotto la sua ala, giurandole una vita dignitosa nel circo, all'insegna della creatività artistica. L'aveva aiutata a emanciparsi dalla sua famiglia e a guadagnare l'indipendenza che tanto bramava.
Tuttavia, non appena gli firmai un assegno da un milione di dollari e glielo consegnai in mano, iniziò a dare segni di cedimento. Per una cifra del genere era disposto a sacrificare la sua acrobata beniamina e a rimpiazzarla all'istante, spingendola nella morsa della criminalità. Ciò mi rese chiaro che fosse uno sporco approfittatore, interessato soltanto ad arricchirsi, a discapito dei suoi collaboratori.
«Questa è la lettera di licenziamento che devi consegnare a Sofiya, così mi asterrò da questa storia. Non so chi tu sia e non voglio nemmeno scoprirlo, ma non farle del male, ti supplico. È una brava ragazza, merita un po' di pace» mi spiegò, il tono infarcito di ipocrisia e falsa compassione.
«Non le farò mancare niente e non sfrutterò il suo talento per riempirmi le tasche» ribattei con aria accusatoria. «Ascoltami con attenzione, Gabriel: non parlare ai tuoi colleghi di me, non rivolgerti alla polizia e non dire a nessuno che Sofiya è scomparsa. Riferisci che tornerà in Russia per stare vicino alla sua famiglia, intesi?» Mi avvicinai di un passo e lo strattonai dal colletto del pigiama, sibilando: «Altrimenti manderò i miei sicari ad ammazzarti».
Annuì spaventato e si rifugiò in camera, stringendo il prezioso assegno. Con la lettera di licenziamento tra le dita e un ghigno trionfante, rientrai nella suite della mia famiglia. I miei genitori dormivano ancora, così come Sofiya, che ritrovai avvolta tra le lenzuola e immersa in una profonda quiete. Era stremata dallo spettacolo della sera precedente - sia quello avvenuto al teatro che la replica nella mia stanza - e le avevo permesso di riposare al mio fianco.
La contemplai per qualche secondo, consapevole che da quel giorno avrei rappresentato il suo più grande nemico. Mi avrebbe scaricato la colpa per aver perso il lavoro e la libertà, e non avrebbe avuto torto. Nelle poche ore trascorse insieme avevo sviluppato una malsana ossessione verso di lei: era riuscita a incantarmi dal primo sguardo e aveva riscritto le mie priorità, motivo per cui avevo studiato una strategia per portarla a Mosca con me.
All'improvviso, Sofiya aprì gli occhi e si stiracchiò tra le coperte. Poi mi vide in piedi e fermo davanti al letto. «Egor, che ore sono? Perché non mi hai svegliata? Dove sei stato?» mi domandò con voce assonnata e biascicante.
«Dovevo risolvere una questione. Tra un paio di ore partiremo e tu verrai insieme a noi» annunciai senza mezzi termini. Sarebbe stato meglio raccontarle la verità in maniera diretta. «Non c'è bisogno di preparare le valigie: ti comprerò tutti i vestiti e gli oggetti di cui hai bisogno a Mosca. Vivrai nella mia casa.»
Scattò a sedere sul letto, l'espressione spaesata e sbigottita. «Ma di che stai parlando? Stai bene?»
Le consegnai la lettera redatta da Gabriel e, una volta averne appreso il contenuto, il suo viso sbiancò e i tremori del panico si impossessarono del suo corpo. Si fiondò giù dal materasso e si infilò alla rinfusa l'abito e le scarpe, ma quando mi superò per uscire dalla camera, le afferrai il braccio per indurla a fronteggiarmi.
«Devo discuterne con Gabriel. Sicuramente ci sarà stato un equivoco, non può avermi licenziata in tronco. Perché ha dato la lettera proprio a te?» domandò agitata e in preda alla confusione.
Inspirai, racimolando il coraggio necessario a rivelarle la realtà dei fatti. Ero pronto a ricevere la sua rabbia e il suo rancore, però non avrei cambiato idea. Le nostre vite non potevano essere destinate a separarsi, non lo avrei sopportato. Nessun'altra donna mi aveva suscitato un tale vortice di emozioni, a livello fisico e sentimentale. Sarei stato un incosciente a rinunciare a lei; desideravo che fosse la mia compagna, una parte fondamentale della mia esistenza.
Con o contro la sua volontà.
«Sono stato io a convincere Gabriel a cacciarti fuori dal circo. L'ho comprato con una somma elevata e non si è fatto pregare. Te l'ho detto, Sofiya: mi seguirai a Mosca. Voglio approfondire il nostro legame, ed è possibile solo se abitiamo nello stesso luogo» delucidai con calma, tentando inutilmente di placare l'uragano della sua furia.
«Che cazzo di problemi ti affliggono?! Tu sei malato!» sbraitò e mi assestò una spinta, così inaspettata che traballai. Le sue iridi si erano oscurate, mi fissavano con disprezzo e sconvolgimento. «Dimmi che è un fottuto scherzo, che non mi hai appena rovinato l'esistenza per un capriccio! Cosa diamine significa tutto ciò? Che intenzioni hai?»
«Sofiya...» provai a giustificarmi, ma lei me lo impedì.
«Togliti il mio nome dalla bocca, bastardo!» esplose fuori controllo. «Ti rendi conto della gravità di ciò che hai fatto? Hai pagato il mio capo perché mi licenziasse e adesso pretendi che io ti accompagni a Mosca. Ho rischiato la vita per scappare da quel Paese di merda. Non sarai tu a obbligarmi a tornarci!»
Una risata glaciale volò dalle mie labbra, e il mio sguardo affilato paralizzò la ragazza. Solo in quel momento la paura le contrasse i lineamenti; forse aveva appena realizzato il pericolo che rappresentavo.
«Mettitelo in testa: tu sei mia, hai capito? Lo sei dalla prima parola che ci siamo scambiati, ancora di più da quando ti sei spogliata.» Le strinsi la mandibola tra le dita, affondando con brutalità i polpastrelli nella sua pelle, per costringerla a guardarmi in faccia. «Non hai proprio idea delle persone con cui ti sei invischiata. La mia famiglia è molto potente, non ti conviene ribellarti. Ti ho scelta come la mia lyubimaya, la mia amante prediletta, e dovresti considerarlo un onore.»
«Sei uno schifoso maniaco» ringhiò, poi sollevò il ginocchio e me lo piantò nel cavallo dei pantaloni.
Il dolore acuto mi stordì per alcuni secondi, ma rinsavii giusto in tempo per bloccare la sua fuga disperata. Catturai un lembo del suo vestito e la strattonai con forza verso il letto, facendola cadere sul materasso. Torreggiai sopra di lei con atteggiamento intimidatorio: le immobilizzai i polsi e accostai il mio viso a un misero centimetro dal suo, con l'irritazione che dardeggiava dai miei occhi.
«Non te lo ripeterò di nuovo, quindi ascoltami bene. Sta' zitta e obbedisci, altrimenti perderò la pazienza e rimpiangerai di avermi conosciuto. Sarò magnanimo se tu sarai docile, va bene? Non voglio farti del male, ma questo dipenderà dalla tua accondiscendenza.» Allentai la stretta ferrea e raddrizzai la schiena, osservandola dall'alto. Non si azzardava più a opporsi al mio volere. Improvvisamente si era trasformata in una preda mansueta, perciò mi addolcii anch'io. «Vedrai che la tua vita sarà invidiabile, accanto a me. Ti darò così tanta ricchezza che non saprai più che farne. Sarai un'imperatrice e tutti ti rispetteranno.»
«Chi... chi sei tu?» domandò con la voce spezzata dal terrore.
Mi dipinsi un ghigno di perversa delizia sul volto. «Egor Bayan, l'erede della mafiya del Ghetto Zaffiro.»
Angolo autrice
Buonasera lettori e buona domenica 🤍
Ecco la prima parte dell'extra di Egor, che è solo metà del capitolo ma è già abbastanza lunga e intensa. Facciamo un salto indietro di vent'anni e seguiamo le vicende del nostro giovane boss, non ancora al comando del Ghetto e con un carattere piuttosto sregolato.
Ovviamente il personaggio di Egor è molto ambiguo e immorale, non solo per le azioni illegali che commette (non abbiamo ancora visto il suo lato più criminale, che emergerà in seguito), ma principalmente per il suo comportamento con Sofiya.
Lei è la protagonista di questo extra, nonché la futura compagna di Egor, che finora non è mai stata nominata nella storia. Egor nutre una vera e propria ossessione nei confronti della trapezista, che lo spinge a comprare la sua libertà e a trascinarla con sé a Mosca. In questo modo, da amanti diventeranno nemici, ma le cose potrebbero cambiare di nuovo...
Questa prima parte a Las Vegas si conclude così, mentre nella seconda torneremo in Russia e vedremo come si evolverà il rapporto tra loro due. Mancano ancora parecchie scene fondamentali, che non vedo l'ora di farvi leggere. La relazione tra Egor e Sofiya non sarà semplice e sicuramente è discutibile, ma d'altronde stiamo parlando del vory del Ghetto.
Una parte di me è innegabilmente attratta dalla sua figura (non biasimatemi, per favore) perché adoro i personaggi grigi e complessi, quindi spero che la sua storia possa interessarvi altrettanto. Ciò non significa giustificare le sue azioni passate e future, ma soltanto immergersi nella sua personalità.
Detto questo, lascio spazio ai vostri commenti e pareri. Cercherò di aggiornare con la seconda parte entro metà mese, se il lavoro e l'università non mi ruberanno troppo tempo 🙏🏻
Alla prossima! Xoxo <3
Note
• Benjamin "Bugsy" Siegel è stato un mafioso statunitense, considerato il fondatore di Las Vegas grazie ai suoi investimenti negli hotel di lusso e nei casinò, prima che le sue attività fallissero e fosse assassinato nel 1947. Il personaggio di Hiram è invece fittizio.
• Lo spettacolo acquatico "O" (eau) del Cirque du Soleil, una compagnia circense nata in Canada nel 1984, ha debuttato per la prima volta all'inaugurazione del Bellagio Hotel del 1998. Oggi lo spettacolo è diventato un'esclusiva di Las Vegas, tanto da dedicargli interamente il Bellagio Theatre.
Luoghi
• Bellagio Hotel e Casinò, Las Vegas
Immagini AI (che non sapevo dove mettere ma mi piacevano)
Traduzioni
1) Dorogaya= tesoro
2) Veselit'sya= buon divertimento
3) Milochka= dolcezza
4) Lyubimaya= favorita/prediletta
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