EXTRA - Cheslav (parte II)
Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 21 febbraio 2015
Mi mancava il tempo atmosferico di Medellín. Nonostante l'umidità che penetrava nelle ossa e il caldo insostenibile, era meglio della dannata neve che continuava a cadere dalla sera prima su Mosca.
Detestavo la sensazione dei fiocchi ghiacciati che si intrufolavano nella giacca, pungolando la pelle esposta del collo e inzuppando i capelli. Rabbrividii a causa di una folata di vento e strofinai le mani guantate sulle braccia.
Controllai l'orologio da polso. Stavo aspettando uno dei miei clienti più fidati da, ormai, quindici minuti. Sapevo che Miloslav era ritardatario di natura e che probabilmente era occupato a spararsi del Sapfir nelle vene, rinchiuso in quel porcile del suo monolocale o in qualche bordello. Forse si era scordato del nostro appuntamento settimanale.
Valutai se fosse il caso di chiamarlo o meno, quando vidi una figura incappucciata avanzare nella mia direzione. Ipotizzai che fosse Miloslav, ma quando fu abbastanza vicina e notai le lunghe ciocche nere che scappavano dal cappuccio non ebbi alcun dubbio sulla sua identità.
«Che ci fai qui, niña? È pericoloso» la rimproverai, senza nemmeno salutarla.
Maybelle Holsen puntò le sue pietre cerulee sul mio volto e assottigliò le palpebre. «Guarda che sono addestrata. Sei tu quello che stava per farsi ammazzare, la settimana scorsa.»
Be', non aveva tutti i torti. Riportavo ancora le cicatrici dei pugni sugli zigomi e non potevo sfiorare il naso senza sussultare per il dolore. A causa del mal di testa che mi aveva tramortito, non ero uscito dalla roulotte fino a due giorni prima, per riprendere a lavorare.
«Cosa ti serve?» arrivai al punto.
«Ho finito il Sapfir. Ne voglio altro.»
Eccola, la classica battuta dei clienti in astinenza. Aveva un suono tremendo, pronunciata da una ragazzina minuta come lei.
«Cómo diablos hai fatto a consumare tutta quella roba in cinque giorni? Sarebbe dovuta bastarti per altri due o tre.»
Si strinse nelle spalle, leggermente imbarazzata. «Dopo aver fumato la prima sigaretta, ho dormito bene come non succedeva da anni. Ho provato una sensazione di relax strana, ma era paradisiaca. Allora ne ho fumata una anche la mattina seguente e ho dato il meglio di me durante la giornata.»
Increspai le sopracciglia. «Non dovevi dividere le dosi con tuo fratello?»
«Gliel'ho proposto e ha rifiutato. Peggio per lui.»
Ingenua, volevo dirle. Piccola e stupida ingenua, ignara delle vere conseguenze di quella merda.
«Se vuoi altra roba, dovrai pagarmi» dichiarai, però.
Ero pur sempre uno spacciatore e il mio mestiere era attirare persone disperate come lei, in cambio di un bel gruzzolo di denaro. Dovevo procurarmi da mangiare in qualche modo, no?
«Non ho soldi» ammise, lo sconforto negli occhi. «Ti prego, Cheslav, ne ho bisogno. Non voglio più svegliarmi urlando nel cuore della notte.»
«Mi dispiace, niña, ma se non mi paghi non posso darti niente» la informai, schietto. «Se non hai soldi e vuoi così tanto un po' di polvillo de hadas, trova un'altra moneta di scambio.»
La sua proposta arrivò completamente inaspettata: «Che ne dici di me?».
«Spiegati meglio» la esortai.
Avevo capito benissimo, in realtà.
«Intendo il mio corpo. Abbiamo la stessa età, no? Che male può farci, un po' di sesso tra amici?»
«Non siamo amici» riuscii solamente a balbettare. Mi sentivo le guance in fiamme. «Siamo praticamente estranei. Perché dovrei fare sesso con te?»
«Non fingere che il pensiero ti dispiaccia, chico» mi provocò. «E quella degli estranei è una condizione passeggera. Andiamo a letto, mi dai il Sapfir e, se proprio ci tieni, facciamo conversazione per conoscerci meglio. Ci stai?»
Sarei stato un bugiardo a non ammettere che May fosse una bella ragazza e che avrei passato più che volentieri una notte con lei. Eppure, mi sentivo in colpa nel desiderarla. Mi sembrava di approfittare della sua necessità, anche se era stata lei a suggerire quell'accordo.
Ci pensai sopra. Egor non aveva mai parlato di ricevere del sesso in cambio di Sapfir. A lui bastava che, entro la fine del mese, gli portassimo una precisa somma di rubli. Potevo dare a May la polvere che avanzava dalle vendite giornaliere, per non danneggiare gli incassi.
«Possiamo provarci, suppongo» mi convinsi, alla fine. «Ti aspetto stasera alle dieci, nella mia roulotte.»
Lei mi dedicò un sorriso da sirena incantatrice. «Fatti trovare pronto.»
Invece non ero affatto pronto.
Una volta finito il mio orario di spaccio - Miloslav era arrivato in preda ai deliri della droga poco dopo che May se ne era andata - passai il pomeriggio a informarmi ed esercitarmi.
La mia esperienza in campo sessuale era pari a zero. Anzi, sottozero. Potevo basarmi solo su ciò che avevo visto e sentito nel corso degli anni, che non era di ottima qualità.
Una fastidiosa sensazione di ansia mi pungolava lo stomaco e le paranoie mi imbottivano il cervello. Cosa poteva andare storto? Semplicemente tutto.
Quando May bussò alla mia porta, saltai giù dal divano letto. Mi presi qualche secondo per sistemare il groviglio di riccioli e per lisciare le pieghe dei pantaloni, poi andai ad aprire.
Lei era identica a come l'avevo vista ore prima: il cappuccio della giacca calato sulla testa, i cristalli di neve incastrati nelle punte dei capelli lunghi e le iridi blu-verdi che spiccavano sul volto pallido. Al contrario di me, appariva tranquillissima.
«Ciao» mi salutò, mettendo piede oltre la soglia.
«Ciao» mormorai, chiudendo la porta.
Mi girai a guardarla. Si era tolta la giacca. Indossava un maglioncino di lana nera e un paio di jeans chiari, e anche se era un abbigliamento normale la trovai particolarmente carina.
Infilai le mani nelle tasche e mi avvicinai con riluttanza. «Ti ho preparato le dosi che mi hai chiesto. Cerca di usarle con moderazione, stavolta.»
Sbuffò. «Non ti pago per darmi consigli su quanto e come drogarmi.»
«A dire il vero non mi paghi e basta.»
Mosse un passo felpato nella mia direzione e deglutii un groppo in gola. Perché cazzo ero così agitato?
«Ricordati che abbiamo un patto e io intendo rispettarlo. Ti devo qualcosa in cambio della polvere.»
«A tal proposito... hai mai...?» mi morirono le parole.
Lei colse la domanda sottintesa e scosse la testa per negare. «Tu, invece?»
«Neanche io.»
«Bene,» ridacchiò, «sarà più divertente.»
«Sei proprio sicura di volerlo fare così, per la prima volta?» le domandai, nonostante sul suo volto non ci fossero tracce di ripensamenti.
«Non me importa niente, con chi perdo la verginità. E poi voglio fidarmi di te. Tu puoi fidarti di me, chico?»
«Vale» mormorai. «Allora... facciamolo.»
May mi prese per mano e mi guidò verso il divano letto. Mi fece sedere sul materasso e lei si accomodò sulle mie ginocchia, le cosce che mi cingevano il bacino e il suo petto contro il mio.
«Rilassati» mi incoraggiò in un sussurro, accarezzandomi le spalle. «Sii te stesso, Cheslav.»
«Posso baciarti?» le chiesi timidamente il permesso.
Le sfuggì un risolino e, invece di rispondere, prese l'iniziativa e appoggiò le labbra sulle mie. Rimasi un attimo paralizzato, prima di sciogliermi e seguire il ritmo della sua bocca. Posai i palmi sulla sua schiena e la tirai più vicino a me, mentre lei incastrò le dita tra i miei capelli.
Era la seconda volta che baciavo una ragazza. La prima era stata con una compagna delle scuole medie, Alicia, quando abitavo a Medellín. Mio padre scoprì che era figlia di uno sbirro e mi impedì di rivederla, minacciando di farle del male. Fui costretto a lasciarla, e non avrei mai scordato i suoi occhi colmi di lacrime.
Le avevo spezzato il cuore e, da quel momento, abbandonai l'idea di stare con qualcuno. Non volevo che altre persone soffrissero a causa delle mie origini criminali.
Però May era come me, un'anima errante e segnata di squarci, e promisi sul cadavere di mio padre che non le avrei mai procurato alcun tipo di dolore. L'avrei custodita fino all'ultimo respiro, anche se lei affermava di essere abbastanza forte da potersi salvaguardare in autonomia.
Mi tolse la felpa e la maglietta e rimasi a torso nudo. Provai d'istinto un moto di vergogna, perché ero ben lontano da quei ragazzi con i fisici scultorei e la pelle abbronzata. I suoi polpastrelli tracciarono linee dolci lungo le costole appuntite, fino a sfiorare il tatuaggio simbolo dei membri del Ghetto, appena sotto la gabbia toracica.
«Un giorno lo avrò anche io. Ti ha fatto male?» si interessò.
«Un po'. Devi scegliere con attenzione la zona da tatuare.» Poi, spinto dalla curiosità, domandai: «Sai già quale ruolo ti sarà assegnato?».
«Non ancora. Gli uomini di Egor mi stanno addestrando da anni, ormai.»
Chiamava il boss per nome e abitava nella sua base operativa. La allenavano privatamente per farla diventare chissà cosa. Aveva un disperato bisogno di Sapfir per sfuggire da orrori notturni che non comprendevo.
Chi sei davvero, May?
Non era il momento adatto per indagare sulla sua vita, perciò le strappai le redini della situazione: la sollevai dalle mie gambe e invertii le posizioni, sdraiandola sotto di me. Dopodiché tornai a baciarla, stavolta con più foga, intanto che le mie dita vagavano sotto il suo maglione, lambendo la pelle delicata.
May interruppe il bacio per sfilare il maglione e lo lanciò sul pavimento. Indossava soltanto il reggiseno. Mi chinai a stampare le labbra sulla clavicola sporgente e scesi lungo lo sterno, disegnando un percorso che sfumava nel solco tra i seni. Con la lingua tracciai l'orlo dell'indumento e le rubai un gemito.
Agguantò i passanti dei miei pantaloni e il mio bacino sfregò contro il suo, provocando un attrito che mi mandò il cortocircuito. Non ragionavo più. Ero guidato dal puro istinto animale.
Mi tolsi in fretta e furia i pantaloni e lei fece lo stesso. L'unica barriera rimasta era la biancheria intima, adesso. Prendendomi completamente alla sprovvista, May si spogliò per prima, sganciando il reggiseno. Por Dios, era meglio di qualsiasi porno scadente avessi mai visto.
«Sei bellissima» mugolai, chinandomi su di lei per baciare la pelle esposta.
«Lo sei anche tu» fiatò, le dita che mi stringevano i riccioli sulla nuca per contenere il piacere.
Allora ci sbarazzammo dell'ultimo strato di vestiti, scartai le dovute precauzioni e mi insinuai con lenta delicatezza dentro di lei. Impiegammo qualche istante per abituarci a quella sensazione sconosciuta, per modellarci l'uno intorno all'altra in un incastro ideale, poi mi esortò ad aumentare l'intensità e la accontentai.
Avrei voluto che durasse di più, desideravo restare tra le pieghe della sua carne in eterno, perché provai qualcosa di totalmente nuovo e sconcertante; percepii il legame che si instaurò tra noi e capii che neanche le forbici più affilate sarebbero riuscite a tagliarlo.
E ci svuotammo insieme, arrivando al culmine dell'estasi. Ci sdraiammo sul materasso e mi abbandonai su di lei, con la testa immersa tra i suoi capelli aggrovigliati. Me la strinsi addosso e le accarezzai un fianco, mentre i suoi occhi mi scrutavano a fondo. Tra le sfumature di mare delle iridi lessi la stessa emozione che mi bruciava nel petto.
«Non mi sentivo così bene da anni» bisbigliò, e il sorriso che fece mi accartocciò il cuore. «Possiamo rifarlo?»
Risi, schiacciando le labbra sulla sua fronte. «Tutte le volte che vuoi, Belle.»
Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 11 dicembre 2017
In genere odiavo il giorno del mio compleanno. Non avevo amici e mio padre era sempre occupato con le sue manovre illegali, perciò non avevo modo di festeggiare con nessuno. A volte mio zio mi faceva un regalo, che variava da una serata in qualche locale dei bassifondi colombiani o un viaggio di pochi giorni in una cittadina sperduta.
Quell'anno, per il mio diciassettesimo, mi spedì un pacco da Medellín. Non sapevo se fosse permesso introdurre oggetti provenienti dall'estero nel Ghetto, ma non me ne curai e aprii la scatola.
Dentro, avvolto nella carta protettiva, il bong più peculiare che avessi mai visto: in vetro verde, aveva la forma di un cactus dall'espressione inebriata. Scoppiai a ridere da solo. Ramiro sapeva che il mio senso dell'umorismo faceva schifo e che avrei adorato una diavoleria del genere.
Notai un cartoncino attaccato alla base - cioè il vaso - dello strumento. Era un biglietto. Provalo con la polvere del Ghetto, dicono che l'effetto sia miracoloso. Buon compleanno, ragazzo.
Non esitai e mandai un messaggio a May. Dovevamo assolutamente testarlo. Per fortuna quel giorno non aveva missioni per conto di Egor, quindi mi raggiunse dopo appena mezz'ora.
«Feliz cumpleaños!» esclamò sulla soglia della roulotte, imitando il mio accento colombiano.
«Grazie, Belle» ridacchiai, schioccandole un bacio sulla guancia.
«Avrei voluto comprarti un regalo, ma sono tornata stamattina da Volgograd. Quindi dovrai accontentarti di me.»
Non le dissi che la sua sola presenza già bastava a illuminarmi la giornata, altrimenti il suo ego si sarebbe ingigantito a dismisura. Chiusi la porta della roulotte e mi avvicinai a lei.
«E cosa puoi offrirmi, niña?» la provocai.
In risposta, si sbottonò la giacca e la lasciò cadere sul pavimento. Indossava un vestito di velluto nero, corto e aderente, con le maniche lunghe e una profonda scollatura a cuore. Le gambe slanciate erano nude e i capelli legati nelle sue solite trecce alla francese, che mi piacevano da impazzire.
Lei mi piaceva da impazzire. In quei due anni era diventata ancora più bella di quanto già non lo fosse stata prima: il suo fisico si era tonificato, mi aveva superato in altezza di qualche centimetro e i lineamenti del suo volto erano diventati un connubio di tratti spigolosi e affascinanti.
Sfoggiava sempre quell'espressione sicura di sé, come se il mondo non potesse scalfirla, come se non temesse gli orrori del Ghetto. Tuttavia sapevo che, da una parte, si trattava di una maschera. Mi ritenevo una delle poche persone capaci di guardare attraverso la sua muraglia di sfrontatezza.
«Ti piace?» mi chiese in tono malizioso, accarezzando la gonna stretta. «Me l'ha prestato Larysa. Solo che devi stare attento alla cerniera, quando la abbassi, perché è un po' difettosa se si rompe mi ammaz...»
La zittii piantando le mie labbra sulle sue. Non riuscivo ad attendere oltre. Il desiderio mi consumava gli organi e incendiava i muscoli e il sangue.
May ricambiò con altrettanta passione e non ci volle molto prima che quel fottuto vestito finisse sul pavimento, insieme ai miei indumenti. Non arrivammo neanche sul divano letto, tanto eravamo impazienti di possederci: la spinsi contro la parete e mi addentrai tra le sue gambe con forza animalesca.
Mi strattonò i riccioli con una mano e con l'altra mi graffiò la spalla, mentre urlava il mio nome a ogni stoccata. Venimmo in modo scomposto, disordinato, caotico, ma era pur sempre il nostro modo di sfondare ogni barriera e scioglierci tra le braccia dell'altro.
«Com'è che dici, di solito?» mi domandò, senza fiato, appoggiando la testa sul mio petto.
«Ha sido increíble» le mormorai contro la tempia.
«Sì, esatto, quello. Concordo.»
Trattenni una risata. Probabilmente non sapeva neanche il significato di quell'esclamazione, ma il mio tono di voce soddisfatto e contento doveva essere una spiegazione sufficiente. Tenendola ancorata alla sterno, andammo a sederci sul divano letto.
«Proviamo il giocattolo che mi ha spedito mio zio dalla Colombia?» le proposi dopo un paio di minuti di silenzio, serviti a riprenderci dal sesso.
Alzò lo sguardo nel mio, una luce curiosa nelle iridi. «C'è bisogno di chiederlo?»
La lasciai per andare a recuperare dalla cucina una bottiglia d'acqua, la mia scorta di Sapfir e il bong. Quando lo mostrai a May, naturalmente, si contorse dal ridere. Tornai a sedermi al suo fianco, posizionando il materiale sul tavolino basso davanti al divano letto.
«Ne hai mai usato uno?» la interrogai, mentre riempivo l'ampolla con l'acqua.
«No, ma sembra divertente. Tu?»
Annuii. «Una volta, quando abitavo ancora in Colombia. Mio zio Ramiro ha una passione per questi aggeggi.»
«Siete molto legati?» si interessò May.
«Mi ha fatto da padre quando il mio era troppo occupato a gestire i suoi giri di narcotraffico. È stato lui a mandarmi qui, nel Ghetto.»
Non aggiunsi altro, dato che le avevo già raccontato delle mie origini, e mi dedicai alla procedura per azionare il bong. Aprii la scatola di metallo che conteneva il Sapfir e gli strumenti per assumerlo, inserii un po' di polvere blu nel braciere - stando attendo a non compattarla troppo, altrimenti non sarebbe passata l'aria - e colmai il piccolo imbuto fino all'orlo.
«Comincio io» decretai. «Sta' a vedere, niña.»
Agguantai il bong circondando la base con le dita, dove non erano presenti gli aculei di vetro, e posizionai le labbra sull'apertura del braccio sinistro del cactus. Afferrai un accendino tra i molti che avevo e, con la mano libera, bruciai la polvere nel braciere.
Aspettai che il fumo riempisse la camera, estrassi l'imbuto contenente la polvere e cominciai a inalare. Trattenni il fumo nei polmoni per una manciata di secondi e in seguito lo espirai, accertandomi di non soffiarlo addosso a May.
Ramiro aveva ragione: l'effetto era miracoloso e ancora più immediato di una dose sniffata. La testa si svuotò e mi sembrò di galleggiare nel vuoto, talmente era leggero il mio corpo. Percepii quasi il mio respiro e i miei battiti affievolirsi.
«Puta madre» biascicai, pervaso da un'improvvisa quiete dello spirito. «Devi provarlo, Belle.»
«Da' qua, è il mio turno.»
Mi strappò il bong dalle mani e non ebbi la forza per riprenderlo. I miei muscoli erano atrofizzati. Reclinai la testa sullo schienale del divano, osservando con la coda dell'occhio i movimenti di May. Reinserì l'imbuto nel braciere, appoggiò le labbra sull'apertura e, dopo aver dato fuoco al Sapfir rimasto, aspirò il fumo.
Era stata troppo irruenta. Si staccò e tossì convulsamente. Mi allungai verso di lei per battere le mani sulla sua schiena, aiutandola a espellere il fumo dai polmoni.
«Aspira una boccata e allontanati» le consigliai. «Tappa l'apertura con il palmo, per non disperdere il fumo.»
Mi ascoltò e inalò un po' di fumo alla volta, fino a svuotare l'ampolla. Era un'immagine semplicemente perfetta: May che si drogava con un ridicolo bong a forma di cactus, seduta sul mio letto e totalmente nuda, mentre mi fissava con quegli occhioni color del mare.
Esiste regalo di compleanno più bello di questo?
Trascorremmo il pomeriggio così, a passarci il bong e a intossicarci una volta per uno, festeggiando nella nostra maniera preferita. Quando la polvere si consumava, riempivamo di nuovo il braciere e accendevamo un'altra dose. Ci costrinsi a fermare il gioco, prima di prosciugare le mie scorte personali di Sapfir.
«Allora mi faccio una sigaretta» pretese May, ma era talmente stordita da non riuscire nemmeno a mettere la polvere sulla cartina.
Le tolsi la roba dalle mani. «Per oggi basta così, niña, o finirai in overdose.»
Lei sbuffò come una bambina, ma non insistette oltre. Seppellì la testa nella mia spalla e mi circondò il busto con le braccia, appiccicando la pelle scoperta e sudata alla mia. Infilai le dita tra i suoi capelli sciolti e me la tenni stretta contro il cuore, dove si era incuneata dal primo momento in cui l'avevo vista.
«Te l'ho mai detto che sto bene solo quando sono con te?» sussurrò, accarezzando l'ultimo tatuaggio che mi ero fatto, un teschio messicano sull'avanbraccio destro. «No, Ches, davvero. E non solo perché mi hai insegnato mille modi diversi per drogarmi o perché facciamo del sesso fantastico. Sto bene con te perché mi accetti nonostante i miei disastri, e mi rendi felice.» Sollevò la testa per stamparmi un bacio sullo zigomo. «Ancora tanti auguri, chico.»
E allora feci una cazzata.
Non so per quale assurdo motivo mi uscirono proprio quelle parole. Spensi il cervello e lasciai parlare il cuore. Me ne sarei pentito all'istante, ne ero già consapevole, eppure non riuscii a trattenermi; ci trovavamo in una situazione troppo intima per zittire i sentimenti che spingevano da anni per essere liberati.
Quindi, stupido e impulsivo e drogato di lei e innamorato, glielo dissi: «Io ti amo, Belle».
May mi guardò e il suo viso sfoggiò una gamma di espressioni diverse, dalla confusione alla consapevolezza, dal terrore a un gelo arido. «Cosa hai detto?»
Sapevo che aveva udito perfettamente e sapevo che mi stava dando l'occasione di rimangiarmi quella dichiarazione. Tuttavia, non lo feci. Presi coraggio e mi strappai il cuore per consegnarglielo.
«Hai sentito, Belle. Ti amo. Te quiero. Te lo ripeto in tutte le lingue che conosco, se vuoi. Non importa quanto la tua vita sia disastrata o quanto tu sia arrogante e scontrosa, la maggior parte del tempo. Mi sono innamorato di te quando mi hai salvato, quando abbiamo rollato insieme la tua prima sigaretta, quando ci siamo spogliati e incastrati, quando sei partita per la tua prima missione e hai voluto che dormissi con te. Mi sono innamorato di ogni bacio, di ogni risata, di ogni lacrima che hai trattenuto perché non vuoi mai mostrarti debole davanti a me. Ogni volta che ti vedo scopro parti di te che non conoscevo e mi dai una ragione diversa per amarti. E la cosa bella è che mi spingi ad amare anche me stesso, che mi sono sempre detestato.»
Le sue palpebre si sgranarono a dismisura. Si staccò di colpo, indietreggiando sul materasso e lasciandomi una sensazione di freddo opprimente addosso. Scuoteva la testa a ripetizione, i capelli neri che oscillavano sulle guance.
«No, Ches, no. No, cazzo. Non lo pensi davvero. È la droga che parla per te» stabilì, ma la sua voce tremava di insicurezza.
«Sono sincero. Ti ho mai mentito, Belle?» Mi accostai di nuovo a lei per sistemarle una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Mi sono veramente innamorato di te, lo giuro.»
May mise altra distanza tra noi. Scese dal divano letto e raccolse il suo vestito dal pavimento. La osservai disorientato e anche un po' deluso, mentre infilava l'abito e cercava di sollevare la cerniera danneggiata.
«Perché te ne stai andando?» le chiesi, troppo annebbiato dal fumo per capire il casino che avevo appena combinato.
«Tu non puoi amarmi, Cheslav. Non puoi e basta. Togliti dalla testa la possibilità che tra noi possa nascere qualcosa, va bene? Avevamo detto che non saremmo andati oltre al sesso.»
Mi alzai per raggiungerla e aiutarla col vestito, ma si scansò bruscamente. Nelle sue iridi imperversava una tempesta, e notai solo adesso che aveva gli occhi lucidi.
«Non l'ho deciso io, joder. E' successo e basta. Perché te la prendi così?» cominciai ad alterarmi.
«Perché non sono un'adolescente normale e non posso permettermi il lusso di una relazione stabile, cazzo!» urlò, riversandomi contro la sua rabbia. «Per me non sarai mai niente più del mio spacciatore o del ragazzo da cui vado ogni tanto per distrarmi, chiaro? Ti sei costruito castelli di sabbia. Ti sei illuso. Io non ricambierò mai i tuoi sentimenti.»
Successe in quel momento, con una fitta destabilizzante tra le costole e le lacrime che spingevano dietro le retine. Si spaccò qualcosa dentro di me, si formò una crepa che non sapevo se si sarebbe mai richiusa. E la parte peggiore era che la causa della mia sofferenza era lei, la stessa ragione della mia felicità degli ultimi anni.
«Vattene, May» riuscii solo a sibilare. Non mi ero mai sentito così a pezzi. «Se davvero per te non valgo un cazzo, vattene e non tornare più.»
Non se lo fece ripetere. Senza neanche chiudere quella maledetta cerniera, imbracciò la giacca e le scarpe e uscì dalla roulotte, sbattendo con forza la porta alle sue spalle.
Solo allora ruppi gli argini e piansi.
Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 13 gennaio 2018
Non rividi May per un mese. Fu incredibilmente triste trascorrere le festività natalizie da solo, con l'esclusiva compagnia della droga che saliva fino al cervello. Il mio mondo aveva smesso di girare. Senza lei al mio fianco, con la sua pelle contro la mia e i suoi capelli tra le mie dita e le sue labbra sulle mie, mi sembrava tutto così inutile.
Non ricordavo il momento preciso in cui avevo iniziato a dipendere più dalla sua presenza che dalla droga. Mi mancava da morire, e non solo per il sesso: mi mancava scherzare con lei, confidarmi, scambiare curiosità sulle nostre vecchie vite.
Tuttavia non avevo nessuna intenzione di tornare sui miei passi, non dopo il modo in cui mi aveva trattato. Se per lei contavo così poco, avrei dovuto mettermi l'anima in pace e dimenticarmi di tutto ciò che mi aveva fatto provare.
E giuro che ci stavo quasi riuscendo, a cambiare pagina, quando lei decise di bloccarmi la strada per la redenzione. Qualcuno bussò alla mia porta e, semplicemente, me la ritrovai sulla soglia di casa, bella da star male e coperta di fiocchi di neve.
Il primo impulso fu di strapparle il cappuccio della giacca e di baciarla fino a perdere l'ossigeno, ma ebbi la decenza di contenermi. Esibii un'espressione apatica e la scrutai in silenzio.
«Possiamo parlare?» mi domandò, dopo alcuni istanti di mutismo. Sembrava piuttosto a disagio.
«Fammi indovinare. Hai finito la roba e d'altronde io ti servo solo a questo, no?» la accusai, il tono di voce che era un misto di furia e scherno. Provò a ribattere, ma la anticipai: «Prendi quello che vuoi e togliti dalle palle. Non preoccuparti, non c'è bisogno che mi scopi per sentirti meno in colpa».
I suoi lineamenti si contrassero nell'irritazione. «Se mi dessi il tempo di parlare, razza di idiota, capiresti che non sono qui per quella merda. Sono qui per te.»
Incrociai le braccia al petto, un sopracciglio arcuato. «Sentiamo, che c'è?»
«Mi sono resa conto che non ha senso compiere diciotto anni, se non posso festeggiare con le persone a cui tengo. E tu sei tra quelle, Ches.»
«Mi pare che questo problema riguardi comunque te, non me» le rinfacciai. «Se ti aspetti degli auguri o qualche regalo, hai sbagliato persona.»
Feci per chiudere il battente, ma lei lo bloccò assestandogli un calcio. Adesso la sua espressione era adirata. «Piantala di fare l'offeso e ascoltami, porca puttana! Sto cercando di avere una conversazione civile, e sai che non sono abituata a queste cose. Quindi, per favore, fammi entrare e parliamo.»
May mi stava davvero implorando? Mi crogiolai per una manciata di secondi nella sensazione di onnipotenza che quella constatazione mi provocò, poi presi la mia decisione.
«Ti do cinque minuti netti. Dopodiché, se non avrò sentito una spiegazione ragionevole per il tuo comportamento... sayonara y hasta nunca.»
Si sbrigò a entrare nella roulotte e richiusi la porta. May si osservò un po' intorno, lo sguardo malinconico, come se le fosse mancato questo buco di fogna. Si sedette sul divano letto e mi invitò ad affiancarla, ma rifiutai. Restai in piedi davanti a lei, a muso duro, in attesa che cominciasse a parlare.
«Sappi che ciò che ti sto per raccontare non ha lo scopo di intenerirti o suscitarti compassione. Anzi, non voglio sentire nessun mi dispiace, in nessuna lingua» esordì con una premessa grave. Poi respirò profondamente, forse per darsi coraggio, e confessò: «Credo sia il momento giusto per dirti come sono arrivata a Mosca. Sai già che sono nata in California, ma ti ho nascosto che i miei genitori lavoravano per i servizi segreti americani. Nel 2012 furono scelti per indagare sulla comunità del Ghetto Zaffiro e, in particolare, su Egor. Raccolsero prove schiaccianti su di lui, che l'avrebbero incarcerato seduta stante, ma chissà come venne a conoscenza di tutto e si presentò a San Diego, a casa nostra. Uccise i miei genitori e rapì me e mio fratello, portandoci qui. Ho ancora un'immagine impressa, quella dei suoi uomini che stuprano mia madre e le sparano una pallottola in fronte.» Sollevò una mano per impedirmi di commentare. «Ricordi il nostro primo incontro e l'uomo che ti stava aggredendo? Ti ho detto che era la terza persona che uccidevo. Le mie prime due vittime sono state quei bastardi. Li ho uccisi per vendicarmi di ciò che avevano fatto a mia madre. E la cosa peggiore è che quando lo ha scoperto, Egor era fiero di me.» Le sfuggì una risata amara. «Il resto della storia lo conosci. Mi ha allenata per trasformarmi in una delle sue macchine da guerra, e ci è riuscito alla perfezione.»
A un certo punto doveva essermi sparita la voce, perché non riuscivo a emettere alcun suono. Riuscivo solo a guardare May, che era rigida e immobile. La freddezza nei suoi occhi era una pugnalata al cuore. Non aveva battuto ciglio per tutta la durata del monologo.
«Il punto è che sono incapace di amare, Ches» riprese. Stavolta mostrò un briciolo di emozione; la sua voce si frantumò. «Non so neanche da dove si parte, per costruire una relazione, e in realtà preferisco non doverlo fare. E' rimasto così poco di me che non sarei mai in grado di donarmi a qualcuno. Mi distruggerei al primo tocco.» Strinse le palpebre per cacciare le lacrime. «Non voglio giustificarmi, voglio solo che tu capisca. Mi dispiace se ti ho ferito ed ero sincera quando ti ho detto che mi rendi felice, ma non ti darò altro. Perciò... se vuoi essere mio amico e continuare con il nostro accordo, va bene, ma non chiedermi più di questo.»
Mi sentii una merda. Avevo pretesto che ricambiasse i miei sentimenti e l'avevo mandata via senza curarmi di quale problema la affliggesse. Ero stato cieco ed egoista. Mi vantavo di conoscerla meglio di chiunque altro e non mi ero accorto della fragilità che nascondeva dietro la facciata da assassina impeccabile.
Non esistevano parole in grado di esprimere il mio pentimento, dunque mi avvicinai e la strinsi tra le braccia. Le mormorai delle scuse tra i capelli e serrai la presa intorno al suo corpo, terrorizzato dall'idea di separarmi di nuovo da lei. Mi tremò contro il petto e percepii delle gocce bagnarmi la pelle del collo.
«Perdonami, Belle. Sono stato un coglione. Perdonami, perdonami» bisbigliai, piangendo insieme a lei. «Se l'avessi saputo sarei stato più comprensivo.»
«Perdonami tu per averti detto che non conti niente. Sei una delle persone più importanti della mia vita, Ches.» Alzò la testa per allacciare i nostri occhi. «Ti amo anche io, lo sai? Non nel modo che vorresti, ma è l'unico che conosco.»
Le accarezzai le guance con i pollici, per asciugarle le lacrime. «Va bene così. Amami come vuoi. Basta che non te ne vai più.»
Amami come vuoi, che tanto io ti amerò sempre per entrambi.
Non avrei saputo dire quanto tempo passammo così, a ricomporci l'uno contro l'altro. D'un tratto May si staccò e aveva una luce diversa nelle iridi. Sorrise in quel suo modo e afferrai al volo il messaggio.
«Sei proprio sicuro di non avere un regalo di compleanno per me? Neanche improvvisato?»
Finsi di rifletterci su, mentre la tiravo sulle mie gambe. «Forse ho un'idea. Ma mi toccherà baciarti.»
«Non se lo faccio prima io.»
Allora lo fece, e tornò tutto a posto, perché eravamo di nuovo io e lei, nella mia casa che era anche la sua.
Angolo autrice
Io amo da impazzire questi due 😭💘 Se non ci fosse Connor probabilmente finirebbero insieme...
Anyway, seconda parte dell'extra, un pochino più triste della prima (e anche più lunga). Assistiamo a un momento significativo nel loro rapporto: la dichiarazione di Ches e il rifiuto di May, che porterà quest'ultima a confidarsi con lui sul suo passato.
Spero che questo extra infinito vi sia piaciuto! Ricordate di darmi il vostro parere, con una stellina o un commento ✨️ E se vi va, mi trovate su IG come miky03005s.stories
Sabato torniamo al presente con il capitolo 10. Xoxo <3
Note:
• Il bong che Ramiro ha regalato a Cheslav:
E ringraziamo WikiHow per le dritte.
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