EXTRA - Azhar

Dubai, quartiere Deira, 30 settembre 2019

«Non lo ripeterò un'altra volta, vecchio. Apri la cassa e dammi cinquemila dirham, se non vuoi trovarti un buco in testa.»

Mio fratello Kaalim perdeva velocemente la pazienza. Ne era la prova tangibile quella scena: stava puntando la pistola contro il proprietario della gioielleria, dopo che per la seconda volta si era rifiutato di consegnarci gli incassi del negozio.

L'uomo, un certo Rajan, non si scompose più di tanto. Si aspettava quella minaccia. Di solito non fiatava e ci recapitava la somma richiesta senza imputarsi, o almeno così era stato negli ultimi sei mesi. Oggi, d'un tratto, aveva cambiato approccio e si era ribellato, rispondendo con un no assoluto all'ordine di Kaalim.

E mio fratello non l'aveva presa bene. Una vena sporgente gli pulsava sulla tempia. Ero certo che tra poco avrebbe sparato al vecchio e derubato il negozio di tutti i gioielli d'oro sfavillante esposti.

«Non ti conviene continuare questo gioco, Rajan» intimò mio fratello, i denti serrati in un ringhio furioso. «Sappiamo dove trovare la tua famiglia. Vuoi davvero mettere in pericolo tua moglie e i tuoi sette figli per qualche banconota?»

Il gioielliere alzò il mento e sfidò Kaalim con lo sguardo. «Sono le banconote che io ho guadagnato, producendo e vendendo i miei articoli, e se ti permetterò di sottrarmele non mi resterà nulla per provvedere alla mia famiglia. Adesso basta. Non avrete un altro dirham, da parte mia.»

L'aria era talmente tesa da risultare irrespirabile. Mi affacciai dalla porta a vetri per assicurarmi che non ci fosse nessuno per strada. Mi sudavano i palmi per l'agitazione; alternavo freneticamente gli occhi dall'uscita a mio fratello.

«Come desideri.» Kaalim posizionò il dito sul grilletto e si avvicinò all'uomo, indirizzando la canna lucida della pistola verso la sua fronte rugosa. «Di' le tue ultime preghiere, prima che...»

Non terminò la frase perché Rajan afferrò un pendente quadrato in oro massiccio e lo sbatté con forza sulla tempia di mio fratello. Kaalim urlò, portandosi le mani sul punto colpito da cui sgorgava un rivolo di sangue, e la pistola gli scivolò sul pavimento. Il gioielliere ne approfittò per precipitarsi fuori dal negozio e darsi alla fuga.

Io ero rimasto paralizzato, troppo sorpreso da quel gesto. Mi risvegliai e mi accostai a mio fratello per assicurarmi che stesse bene, ma lui mi spinse via. La sua espressione ribolliva di rabbia.

«Azhar! Inseguilo, cazzo!» gridò.

Non me lo feci ripetere e corsi all'esterno. Individuai la figura dell'uomo in fondo alla via, avvolto in una kandura bianca. Mi lanciai al suo inseguimento, con il sole cocente che mi bruciava la cute e il caldo asfissiante che inaridiva i polmoni. Nonostante ciò, i miei piedi sfrecciavano sulla strada acciottolata, mangiandosi i metri che mi dividevano dalla mia preda in ampie falcate. Ero sempre stato un buon corridore, sin da bambino.

Raggiunsi in poco tempo Rajan e, prima che potesse svoltare in una via secondaria, gli agguantai un lembo della tunica e lo strattonai. Finì per cadere a terra con un lamento.

«Ti prego, risparmiami» mi supplicò, ansante per la corsa e per la paura.

Lo guardai dall'alto. Le sue iridi scure erano imploranti, il volto solcato dai segni della vecchiaia contratto in un cipiglio disperato. Lo stomaco mi si annodò, pensando ai sette figli e alla moglie che lo attendevano a casa.

Presi la mia pistola, incastrata nell'elastico dei pantaloni di cotone, e la rivolsi con titubanza verso Rajan. Avrei dovuto ucciderlo, o mio fratello avrebbe ucciso me, eppure mi sembrava così ingiusto. Quell'uomo non ci aveva arrecato alcun danno, in fin dei conti. Era stata la mia famiglia, a rovinare la sua attività con il racket e a costringerlo a vivere nel terrore.

Non posso farlo.

Abbassai l'arma e porsi una mano al gioielliere, per aiutarlo ad alzarsi. Lui, dapprima confuso, accennò un sorriso di gratitudine e strinse le mie dita. Ma proprio mentre si rimetteva in piedi, un colpo di pistola esplose, rimbombando nella strada deserta.

Il corpo di Rajan stramazzò sul terreno, un foro nell'addome da cui defluiva inarrestabile il sangue. Il liquido vermiglio sporcò il tessuto candido della tunica e formò una pozza sul suolo. I suoi occhi erano sbarrati in un'espressione agonizzante e mi notai con inquietudine che non smise di fissarmi un solo attimo, mentre rantolava i suoi ultimi respiri.

«Che razza di problemi hai, eh?» mi sbraitò addosso Kaalim. Era stato lui a sparare; mi aveva mancato per un soffio. «Scommetto che lo avresti aiutato a scappare. Hai un solo compito: impedire alle vittime di fuggire. Non riesci a completare neanche un'azione banale come questa. Sei una nullità, Azhar.»

Sei una nullità.

Quante volte mi ero sentito chiamare con quel termine dispregiativo, sia da mio fratello che dai miei genitori. Per loro ero un peso da trascinare. Non servivo a niente.

«Andiamo a prendere i soldi, prima che qualcuno si accorga del cadavere. Datti una mossa.» Mi strattonò verso la gioielleria, aggiungendo in tono minaccioso: «A casa te la vedrai con papà».

Downtown Dubai, Mall Hotel

Mio padre faceva scorrere le banconote tra le sue dita callose, per accertarsi che gli avessimo portato la somma stabilita. Quando terminò di contare, alzò lo sguardo su me e Kaalim, seduti al tavolo della cucina di fronte a lui.

«Ottimo lavoro, ragazzi» si complimentò, la voce incolore. «Potreste, però, spiegarmi perché avete ucciso Rajan? Era uno dei nostri migliori... clienti

Le labbra di Kaalim assunsero la forma di un ghigno e mi lanciò un'occhiata derisoria. Quel bastardo non aspettava altro che denigrarmi davanti a papà. Strinsi i pugni, consapevole di ciò che sarebbe successo.

«Rajan si è rifiutato di pagare la somma e Azhar, il solito incompetente, stava per farselo sfuggire. Sono dovuto intervenire io, e come ben sai non mi piace perdere tempo. Troveremo un altro negozio a cui estorcere denaro. Nel suq dell'oro è pieno.»

Mio padre serrò le labbra in una linea dura e spostò i suoi occhi marroni, inflessibili come pietra, sul mio viso. Scorsi una vaga sfumatura di disappunto nel suo sguardo.

«È vero, Azhar?» mi chiese conferma, anche se non ne aveva bisogno. Avrebbe creduto a prescindere a Kaalim, piuttosto che a me.

«Sì» mi limitai a rispondere, monocorde. «Avanti, puniscimi.»

«Vieni qui, razza di ingrato» sibilò, mettendosi in piedi.

Mi alzai e lo fronteggiai. Mi scrutò per un lungo secondo, scintille di collera e odio nello sguardo, poi il suo palmo si schiantò con violenza sulla mia guancia. Ruotai la testa per la forza del colpo e un doloroso pizzicore si diffuse sulla pelle.

«Non hai ancora imparato come funziona? Il tuo unico compito è correre, dato che sai fare solo quello. Perché continui a fallire? Perché ti rifiuti di capire che questa è la tua vita e che devi accettarla?»

Sigillai le palpebre e trattenni il respiro, preparandomi al secondo schiaffo. Fu ancora più potente, il rumore echeggiò nell'aria e, quando percepii una scia liquida colarmi dallo zigomo, compresi che aveva utilizzato la mano con l'anello e che mi aveva aperto un taglio.

«Come può un ragazzo stupido come te essere mio figlio?» si infervorò e cominciò a urlare.

Notai di sbieco la mamma che si affacciava dalla porta della cucina, attirata dalla confusione. Invece di intervenire e allontanare suo marito dal suo figlio più piccolo, rimase ferma e in silenzio a osservare quella bestia che mi prendeva a schiaffi. A lei non importava niente, d'altronde. Le bastava acquistare carrellate di gioielli con i soldi ricavati dal racket e dagli hotel di lusso che gestivano.

«Va' in camera tua e non uscire fino a domattina. Prega, già che ci sei» mi impose mio padre, autoritario, quando mi ebbe assestato il terzo schiaffo. Poi si rivolse a tutti i presenti: «Stasera abbiamo un ospite importante a cena, per stabilire alcuni accordi. Viene dalla Russia. Non fatemi fare brutte figure».

Dopodiché uscì dalla cucina e io mi rifugiai nella mia stanza, una delle numerose della suite. Disinfettai il taglio sulla guancia e mi sdraiai sul letto matrimoniale, scrutando il lampadario sfarzoso appeso al soffitto decorato. Cercai di rimuovere dalla mente il bruciore causato dagli schiaffi, la delusione che impregnava le parole di papà, lo sguardo impassibile della mamma e la soddisfazione di Kaalim, ma ben presto mi ritrovai con gli occhi colmi di lacrime che non riuscii a contenere.

Vaffanculo a loro. E vaffanculo a me, che sono il figlio inutile e non sono mai in grado di dimostrare il contrario.

Non so per quante ore restai a contemplare il vuoto, perso nelle mie riflessioni funeste. Sentii una voce sconosciuta provenire dal salotto e i miei genitori che accoglievano il loro famoso ospite, poi il tintinnio di piatti e stoviglie. Il mio stomaco si lamentava per la fame, ma non osai presentarmi in cucina. Mio padre mi avrebbe distrutto.

Proprio quando stavo per abbandonarmi al sonno, la porta della camera si spalancò e mia madre comparve sulla soglia, agghindata con il suo hijab di seta rossa e il suo abito migliore. Intorno ai polsi scintillavano spessi bracciali in oro e argento, costellati di pietre preziose.

«Tesoro, puoi raggiungerci in sala?» mi domandò, usando un tono stucchevole che mi fece quasi vomitare, per quanto suonasse falso. Mi chiamava tesoro e poi se ne fregava della mia salute e dei miei desideri. «Il nostro ospite vuole vederti. Ha una proposta per te.»

Non avendo molte alternative, fui costretto ad alzarmi e a seguirla. Non mi sfuggì l'occhiata di disapprovazione che mi tirò, notando il mio abbigliamento sciatto e i piedi scalzi, ma la ignorai. Arrivai in sala e, seduto a capotavola dal lato opposto a quello di mio padre, individuai un uomo sulla quarantina, con i capelli scuri e la barba curata. La sua postura era rilassata eppure rigida, di chi non voleva perdere il controllo neanche nei momenti più tranquilli. Emanava ricchezza e potere da ogni angolo del viso austero. Sembrava il tipo di uomo che poteva convincerti a fare qualsiasi cosa con un solo sguardo; che poteva portarti alla gloria o alla rovina con un misero schiocco di dita. Aveva un'aria inscalfibile, solenne, e la sua presenza bastò a intimidirmi.

«Piacere di conoscerti, Azhar» mi accolse in arabo, nonostante il suo accento russo ben marcato. Mi allungò una mano ornata di anelli e la strinsi. «I tuoi genitori mi hanno parlato di te. Sei molto veloce nella corsa, vero?»

«Già» mormorai, a disagio. Cosa voleva da me? E, soprattutto, chi diamine era?

Come se avesse percepito la mia titubanza, si spiegò: «Mi chiamo Egor Bayan e gestisco alcuni... affari a Mosca. Ho dei contatti a Dubai e alcune proprietà. Io e i tuoi genitori stavamo discutendo su un accordo, se così si può definire».

«Io cosa c'entro, esattamente?» espressi la mia confusione.

«Vedi, Azhar, tu sei parte di questo accordo. Io cederò alcuni clienti importanti ai tuoi genitori e, in cambio, vorrei che tu mi seguissi a Mosca. Diventerai uno dei miei sicari. Ho bisogno di uomini fedeli e allenati che mi aiutino a sbarazzarmi della concorrenza. Accetti?»

Non riuscivo a emettere suono. Tutto ciò era semplicemente assurdo. Avrei dovuto lasciare Dubai, che era stata la mia unica casa per diciannove anni, sebbene molte volte l'avessi vista più come una prigione. Mi sarei trasformato in un assassino professionista e avrei lavorato per un uomo del quale non conoscevo neanche l'attività, ma supposi che non fosse niente di legale.

«Capisco che tu abbia bisogno di tempo per pensarci» concesse, notando la mia insicurezza. «Tra due giorni ripartirò per Mosca. Conto di ricevere una risposta nel mentre.»

Non mi servivano altre quarantotto ore per riflettere. Era una proposta malata e pericolosa, e probabilmente ci avrei rimesso la vita, ma dovevo accettare. Me lo ordinarono gli occhi di mio padre, che mi fissava con sguardo categorico. Mi stava mandando un messaggio esplicito: se avessi rifiutato, mi avrebbe di nuovo picchiato. E stavolta non ne sarei uscito indenne, lo sapevo.

Perciò, deglutii il nodo che mi ostruiva la gola e mormorai: «Accetto, signor Bayan».

Notai che l'espressione perentoria di mio padre si sciolse leggermente. Addirittura sollevò l'angolo delle labbra in una specie di sorriso soddisfatto, una reazione più unica che rara, da parte sua. Non mi aveva mai rivolto un cenno di affetto in quasi vent'anni di vita.

Forse quella sarebbe stata la mia occasione di riscatto. Avrei potuto finalmente dimostrare che non ero un incapace, anche se per farlo mi sarei dovuto macchiare di crimini imperdonabili. Ne sarei stato in grado? Ero disposto a spingermi fino a quel punto? Non che avessi altra scelta: i miei genitori mi avevano praticamente svenduto.

«Perfetto. Ti aspetto dopodomani all'ingresso dell'aeroporto. Ti procurerò passaporto e visto» stabilì Egor Bayan. Le sue iridi brillavano di una luce sinistra. «Sono certo che la mia squadra ti piacerà, Azhar, e che la nostra collaborazione porterà molti risultati positivi.»

Dubai, quartiere Al Fahidi, 2 ottobre 2019

«Cosa significa che ti trasferisci in Russia?!»

Aisha era la persona più calma e pacata che conoscessi, ma in quel momento un uragano di furia e delusione imperversava nei suoi grandi occhi neri. Forse avrei dovuto essere un minimo più delicato e spiegarle nei dettagli la situazione, invece di spiattellarle in faccia la notizia della mia partenza senza tanti preamboli.

«Devo svolgere alcuni compiti per i miei genitori» minimizzai, come se non fossi in procinto di diventare un serial killer. «Tra qualche ora ho l'aereo.»

«E me lo dici così?!» continuò a sbraitare, attirando l'attenzione di qualche passante. Si scusò con un sorriso imbarazzato e regolò la voce: «Stai per andartene e mi avvisi il giorno stesso? Credevo che fossimo amici, Azhar. Capisco se non vuoi parlarmi dell'attività della tua famiglia, ma mi merito uno straccio di spiegazione, non credi?».

Sospirai, passando una mano tra i capelli e scombinando i riccioli. Odiavo mentire ad Aisha e nasconderle la mia vera vita, ma volevo proteggerla dal sudiciume di cui ero circondato. Lei, per fortuna, non aveva mai insistito perché le raccontassi la mia situazione familiare. Non a caso la sua maggiore qualità era la discrezione: rispettava il silenzio altrui e, se le rivelavi un segreto, l'avrebbe portato con sé nella tomba, pur di non tradirti.

Era un'amica leale e il pensiero di perderla mi devastava. Ci eravamo conosciuti al terzo anno di liceo, quando eravamo due emarginati che si sostenevano a vicenda, finché non diventammo inseparabili. In seguito al diploma - ottenuto qualche mese fa - Aisha aveva iniziato a frequentare l'Università di Scienze Moderne, grazie alla borsa di studio che aveva vinto, mentre io ero stato costretto a seguire l'impronta dei miei genitori e dedicarmi al racket.

«Non posso dirti altro» risposi, in tono dispiaciuto. «Vorrei parlartene, davvero, ma ti metterei solo a rischio.»

Assunse un cipiglio preoccupato. «Non ti sarai cacciato in qualche guaio?»

«Ho tutto sotto controllo» la tranquillizzai, però non suonavo convincente neanche alle mie stesse orecchie.

Aisha torse un lembo dell'hijab celeste - il mio regalo per il suo sedicesimo compleanno - come faceva ogni volta che era agitata. «Promettimi che non combinerai casini e che tornerai sano e salvo. Me lo devi giurare, Azhar.»

«Tornerò prima della fine dell'anno» decretai, ignorando il fastidioso presagio negativo che mi raschiava le membra.

Mi puntò l'indice al petto, aggrottando le sopracciglia con stizza. «Sarà meglio per te.»

Restammo un altro po' seduti sulla panchina di pietra, all'ombra di una palma dalle fronde ampie, a chiacchierare come una qualsiasi coppia di amici. Mi aggiornò sulle lezioni che seguiva all'università e mi parlò di tutte le persone che aveva conosciuto. Mi rendeva felice sapere che almeno lei potesse realizzare il suo sogno e studiare per diventare una biologa.

Dopodiché la accompagnai a casa. Ci infilammo in un dedalo di strade coperte da teli di stoffa, per ripararci dal sole. Le vie strette erano costeggiate da edifici bassi e dalle mura color sabbia, alternati a negozietti caratteristici, con le insegne dipinte di scritte vivaci. Dalle finestrelle delle abitazioni provenivano i rumori della quotidianità delle famiglie e il profumo di cibi speziati. Incrociammo un gruppo di bambini che giocavano col pallone e due uomini che discutevano sull'uscio di un emporio del caffè.

Al Fahidi, uno dei quartieri storici di Dubai, mi piaceva per la sua caratteristica impronta araba, lontana dalla frenesia dei distretti più commerciali e disseminati di grattacieli mastodontici. Era un luogo modesto, dall'atmosfera allegra ed energica, tutto il contrario della zona ultra lussuosa dove vivevo.

Arrivammo davanti alla porta di casa di Aisha. Quando giunse il momento di salutarsi, l'abbracciai con forza e le promisi nuovamente che ci saremmo rivisti presto. Si trattava di pochi mesi, alla fine. Sarebbero passati velocemente.

Le rivolsi un ultimo cenno, poi chiamai un taxi che mi condusse nello sfarzoso quartiere di Downtown Dubai, il centro assoluto della città. Sgomitai tra la folla di turisti che fotografavano gli spettacoli acquatici della Fontana di Dubai e la facciata di vetro del Burj Khalifa - il grattacielo più alto del Paese e del mondo - che rifletteva i raggi solari come un enorme specchio.

Quando raggiunsi l'appartamento della mia famiglia, situato in cima a uno dei sontuosi hotel che possedevamo, pensai che mi avrebbe fatto bene allontanarmi dallo smog e dal chiasso costante. Salii per fare le valigie, ignorando completamente i miei genitori e mio fratello. Quando ero pronto ad andarmene, mi fermai all'ingresso, in attesa di neanche io sapevo cosa.

Una parte di me si aspettava che mi salutassero, o che mi augurassero buon viaggio, ma erano futili speranze. Infatti, tutto ciò che ricevetti fu un obbedisci al signor Bayan e non metterci in cattiva luce da mio padre. La mamma era troppo occupata a sistemarsi i capelli sotto il velo e Kaalim mi dedicò un ghigno sprezzante. Non vedeva l'ora di sbarazzarsi di me.

Scacciando il dolore che mi pungolava lo sterno, uscii dall'appartamento e mi diressi all'aeroporto, pronto a ricominciare da capo.

Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 24 ottobre 2019

Durante il volo sul suo jet privato, Egor Bayan mi spiegò in cosa consisteva la sua occupazione. Quando scoprii che mi ero immischiato con una banda di mafiosi che vendevano droghe da laboratorio, ebbi l'impulso di gettarmi dall'aereo per fuggire. Tuttavia, non persi la compostezza. Volevo dimostrarmi degno dell'incarico, dato che il boss russo sembrava riporre particolare fiducia in me.

Dopo cinque ore, atterrammo a Mosca. Egor mi lasciò l'indirizzo del monolocale in cui avrei abitato, non distante dal Ghetto, e mi ordinò di presentarmi qualche giorno dopo a Villa Zaffiro, la sua base operativa. Lì conobbi il resto dei sicari novellini e alcuni dei più esperti, tra cui Maybelle Holsen.

Non so cosa mi colpì immediatamente di quella ragazza, all'apparenza fredda come il ghiaccio eppure animata da un fuoco violento, che non permetteva a nessuno di calpestarla e uccideva i suoi nemici senza pensarci due volte. Non fu soltanto la sua bellezza algida, ma la determinazione che le lessi nello sguardo. Era consapevole delle proprie capacità e non esitava nel raggiungere i suoi scopi. Era tutto ciò che avrei voluto essere io e che non sarei mai stato: sicuro di me, spudorato, tenace. Ma dietro quella corazza di piombo, intuii che si nascondesse altro, una parte più fragile della sua anima che non mostrava a chiunque.

Improvvisamente desiderai conoscerla a fondo, per esplorare quel lato che restava nell'ombra. Volevo avvicinarmi a uno dei più temuti sicari del Ghetto e imparare a comportami come lei. Volevo che mi insegnasse ad abbandonare la paura, a spegnere le emozioni a comando, così da non lasciarmi più sopraffare. Allora sarei tornato a Dubai con un nuovo volto, e i miei genitori non mi avrebbero più etichettato come il figlio debole e inetto.

«La ragazza con i capelli neri, Maybelle... la conosci?» trovai il coraggio di chiedere un giorno a Larysa, che si occupava dell'addestramento dei novellini, durante una pausa dall'allenamento. Avevo notato la complicità tra loro due e avevo dedotto che fossero amiche.

Larysa mi squadrò con i suoi occhi da gatta, l'espressione scettica. «Sì, la conosco, e proprio per questo ti consiglio di starle alla larga. Non è un tipo semplice. È la beniamina di Egor, sai?»

«Ricevuto» borbottai, ma nella mia mente gli ingranaggi avevano già cominciato a ruotare, e ormai mi ero deciso: avrei perseguito il mio obiettivo e avrei parlato con quella ragazza.

«Se vuoi un consiglio,» aggiunse Larysa, d'un tratto, «chiamala solo May.»

Così feci, e la mia impresa si rivelò più semplice del previsto, perché non avevo messo in conto l'attrazione fisica che nutrivamo l'uno per l'altra. Per assurdo, piacevo a May. E nonostante mi avesse avvertito che non desiderasse intraprendere relazioni e che non avrei ottenuto niente se non amicizia da lei, cominciò a occupare un posticino fisso dentro di me e ben presto non riuscii più a togliermela dalla testa. Sicuramente i baci che ci scambiammo, guidati da un impulso irrefrenabile, non mi persuadevano a mantenermi distante. Anzi, bramavo la sua compagnia sempre di più.

Ma non era solo per il suo aspetto esteriore, che desideravo starle vicino. May era l'unica che mi avesse dimostrato un briciolo di comprensione e supporto, a tal punto che le raccontai della mia famiglia. Mi promise che mi avrebbe aiutato a superare la mia prima missione, e mi baciò di nuovo. Chissà fino a dove saremmo arrivati, se Connor Reed non ci avesse interrotti.

E mentre tornavo nel mio appartamento, mi resi conto che non ero spaventato dalla missione come lo ero prima di confrontarmi con May. Adesso sapevo che, con lei al mio fianco, sarebbe andato tutto per il verso giusto. Non avevo niente di cui preoccuparmi.

Teatro Bol'šoj, centro di Mosca, 28 ottobre 2019

Successe così in fretta che non me ne accorsi finché non arrivò il dolore lancinante, che mi travolse a ondate. Rovinai al suolo, sbattendo la nuca sull'asfalto.

Il proiettile si conficcò nel mio petto, forse bucandomi un polmone, perché mi sembrava di annaspare nel mio stesso sangue. Mi riempiva la bocca. Ogni respiro era una coltellata in mezzo alle costole, e ben presto mi trovai a corto di ossigeno.

Divenne tutto confuso. Il mondo si annebbiò, smisi di udire i suoni e un insopportabile odore ferroso mi penetrò le narici. Il mio corpo si stava abbandonando lentamente alla morte. La consapevolezza che quelli sarebbero stati i miei ultimi secondi di vita mi terrorizzò. Schiusi le labbra per urlare, per chiedere aiuto, ma ne uscì solo un rantolio sconnesso.

Non posso morire, cazzo, non adesso. Devo completare la missione. Devo dimostrare a Egor Bayan e alla mia famiglia che non sono l'inetto che tutti credono, che valgo molto di più di quanto pensino. Devo abbracciare di nuovo Aisha. Gliel'ho giurato. Devo camminare almeno un'altra volta per le vie di Al Fahidi e comprare al mercato oggetti che non userò mai. Devo fare così tante cose...

Sentii l'eco di un grido disperato, poi una figura si gettò sopra di me, cercando di arginare l'emorragia. Nel disorientamento riconobbi il volto di May, gli occhi chiari lucidi di lacrime, e le carezze tremanti delle sue dita che mi reggevano il volto. Mi scosse con delicatezza, mentre pronunciava il mio nome con voce rotta, nel vano tentativo di risvegliarmi.

Avrei voluto dirle un sacco di cose. Che non era colpa sua se era diventata una macchina spietata, che in realtà la sua anima era coraggiosa e buona, anche se non se ne capacitava. Che se si fosse liberata di quel peso che la opprimeva e la rendeva così feroce, avrebbe trovato pace con se stessa. Doveva solo smetterla di odiarsi, e avrei voluto accompagnarla in quell'impresa, ma non era il mio destino.

Devo dirti che non è vero che sei incapace di amare. Sei riuscita a farmi sentire speciale per qualche secondo, come nessuno ha mai fatto prima d'ora, e ti ringrazio per questo.

Invece non le dissi niente, perché qualcuno la strattonò via da me non appena esalai l'ultimo respiro.

Angolo autrice

Ciao a tutti readers 💖💖

Come vi avevo anticipato, ecco l'extra su Azhar. Scopriamo alcuni retroscena della sua vita, riguardo la sua famiglia, le sue amicizie e il luogo in cui abita, e soprattutto i suoi pensieri su May. Mi sento un po' in colpa per aver dato questa fine al suo personaggio, lo ammetto 🥲

Spero che vi sia piaciuto! Nel prossimo capitolo torniamo da May e Connor.

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Alla prossima! Xoxo <3

Note:

• 5000 dirham corrispondono a 1400 euro

• La kandura (tunica) e l'hijab (velo) sono indumenti tipici dei Paesi arabi

• La parola suq indica un mercato organizzato in corporazioni, come il commercio dell'oro, il più famoso di Dubai

Luoghi:

• Al Fahidi

• Downtown Dubai

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