Capitolo 8
Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 16 ottobre 2019
L'unica cosa peggiore della delusione che ricevi o provi per una persona che ami è la delusione verso te stesso.
Ero solita provare astio nei miei confronti. Mi odiavo da sette lunghi anni per ciò in cui mi ero trasformata, ma non avevo mai avuto dubbi o ripensamenti. Ogni mia azione, per quanto deplorevole, aveva un unico scopo: proteggere mio fratello da Egor Bayan.
Non importava se Danny mi guardava con gli occhi pieni di orrore. Non avrei mai cambiato idea. Avevo accettato di rinunciare ai miei principi morali, alla mia anima, solo per la sua incolumità, e avrei continuato su quella strada finché fosse stato necessario.
Ma la delusione... quel sentimento era sconosciuto, per me. Pretendevo la perfezione da me stessa, perché se dovevo diventare un mostro dovevo almeno farlo bene, e non avevo mai infranto le mie aspettative.
Fino a quel momento.
La consapevolezza di aver fallito era un tarlo che mi rosicchiava il cervello, senza darmi tregua. Era veleno distillato nel sangue, una sostanza corrosiva che ribolliva nelle arterie, degradando gli organi. La sconfitta bruciava come palpebre spalancate e rivolte al sole.
E cazzo se faceva male.
Non riuscivo a dormire, con quei pensieri che mi martoriavano. Inoltre, anche se avevo preso un antidolorifico, la ferita alla gamba continuava a pulsare.
Dannato Tolstoj. Dannato Critelli.
Dannata me.
Mi misi a sedere sul materasso. Oltre le tende di cotone sottile che coprivano la finestra, splendeva un debole bagliore argenteo. Mio fratello dormiva tranquillo nel letto accanto, avvolto dalle coperte. Il buio e la luce lunare duellavano intorno alla sua figura.
Decisi di alzarmi. Ero scalza e in pigiama, eppure uscii lo stesso dalla nostra camera. Avevo bisogno di sgranchirmi e sfogarmi. Prima, però, recuperai il mio accendino e un paio di sigarette già pronte dalla scatola che tenevo ben custodita sulla scrivania.
Scesi al pianoterra e andai in cucina. Aprii la porta finestra e mi trovai nel piccolo terrazzo che si affacciava sul giardino della Villa. Mi accomodai sul divanetto a dondolo a due posti, rivestito di tessuto verde.
Eravamo in pieno autunno, perciò il paesaggio che si intravedeva dalla ringhiera di ferro era secco e decadente. In compenso, il cielo era un vortice di stelle, raggruppate intorno alla luna piena.
Strinsi le ginocchia al petto per combattere il freddo, accesi una sigaretta e la infilai tra le labbra. Già al primo tiro mi sentii più leggera. La mia mente si liberò dell'angoscia, accogliendo la familiare illusione di pace.
Mi stupivo sempre della rapidità con cui le mie cellule nervose si ammorbidivano. Il Sapfir era un potentissimo calmante sparato dritto nel cervello.
Continuai a fumare, decisamente più serena. Almeno, fin quando qualcuno si palesò sul terrazzo e venne a sedersi al mio fianco. Lo ignorai, per preservare la poca sanità mentale che mi era rimasta.
«Lo sai che fumare quella roba fa male?»
Eccolo, con il suo tono saccente da perfettino del cazzo. Come se me ne fosse fregato qualcosa della sua opinione.
«Non ricordo di avertelo chiesto, Reed» borbottai, aspirando un'altra boccata di quella droga analgesica. «Cosa vuoi?»
«Volevo del tè e ti ho vista qui fuori» spiegò.
Scrutai Connor di sottecchi. Era in pigiama, i capelli scuri arruffati e gli occhiali che celavano le iridi assonnate. In mano, una tazza di ceramica rossa ripiena di liquido dorato.
Trattenni una risata di scherno. Chi diamine si preparava il tè alle due di notte?
«E perché non sei andato via?» gli domandai. Suonavo irritata, ma in realtà non lo ero. Il Sapfir mi impediva di esplodere.
Avvicinò la tazza alle labbra e bevve un sorso. «Non lo so. Credo che farti saltare i nervi sia diventato il mio nuovo passatempo.»
Mi rimangio ciò che ho detto.
Reed non si impegnava neanche per farmi incazzare. Gli bastava aprire bocca e pronunciare qualche parola che lui trovava divertente ma che per me era un affronto.
E la rabbia che provavo verso me stessa, mischiata alla mal sopportazione nei suoi confronti, era più potente del fumo tossico che stavo inalando.
«Taci o ti uso come posacenere» sbottai, serrando i denti sul filtro della sigaretta.
«Pazza» borbottò, continuando a bere. Il vapore rilasciato dal tè bollente gli appannò per un attimo le lenti degli occhiali. «E io che mi preoccupo anche.»
«Non ce n'è bisogno. La mia vita fa già abbastanza schifo. Questa merda non è niente.»
Nel dirlo, aspirai altro fumo, perché ero un'incoerente di prima categoria. Guardavo con disgusto i cocainomani e gli alcolisti in cui mi imbattevo, ma non ero poi così tanto diversa da loro. Anch'io avevo una dipendenza che con il tempo mi avrebbe uccisa.
Non importava se assumevo il Sapfir nella sua forma più leggera. Fumavo da cinque anni, ormai. Ogni giorno, senza eccezione e senza pausa. La droga del Ghetto era diventata un pilastro della mia esistenza.
Ne avevo bisogno, se non volevo perdere la ragione una volta per tutte e decidere di farla finita.
Connor mi scoccò uno sguardo curioso. «Non sembri una che odia la sua vita.»
«Non sai proprio niente, di me, Reed.» La voce mi uscì in un bisbiglio. Avevo una voglia tremenda di esprimermi liberamente, ma la sfiducia mi frenò. Decisi di essere crudelmente sincera almeno su una cosa: «Se non mi drogo, allora mi ammazzo».
Non ebbe reazioni drastiche. Non mi mostrò né compassione né dispiacere. Incrociò le gambe, provocando un lieve dondolio, e mi dedicò la sua piena attenzione, la tazza ancora stretta tra le dita. Evitai di osservarlo, concentrandomi sul cielo stellato.
«La soluzione non è intossicarti» dichiarò, calmo e ponderato come suo solito. «Ci sono altri modi, per affrontare un... trauma.»
Per la prima volta, nessuno dei due stava prendendo in giro l'altro.
«Sono una maledetta assassina. Come si rimedia, a questo?» mi si ruppe la voce per l'ira. O forse per la frustrazione, o per la tristezza. Chissà.
«Anche i mostri della peggior specie meritano di essere salvati, May.»
Mi voltai verso di lui. Nonostante il buio che incombeva su di noi, levigato solo dalla luce degli astri, vidi i suoi occhi nocciola colmi di una dolcezza disarmante.
Compresi in quel momento che Connor Reed possedeva un animo gentile. Stava cercando di aiutarmi, di comprendermi, anche se l'avevo sempre trattato malissimo.
E non me la meritavo, quella bontà. Soprattutto, però, non la volevo.
«Non tutti» dissi, semplicemente. Tornai a fumare; la sigaretta era quasi consumata. «Non tutti possono essere salvati, Connor. C'è chi nasce nelle tenebre, chi ci finisce per sua volontà e chi ci viene spinto dentro. Io non ho mai lottato per uscirne, e lì resterò fino al mio ultimo respiro.»
«E ti sei arresa così?» si infervorò.
Scrollai le spalle. «Ho solo accettato che le cose dovevano andare in questo modo e che non ho potere contro il destino.»
«Sei odiosamente cinica» ribatté.
«E tu sei odiosamente rompipalle.»
«Si può sapere perché continui ad aggredirmi verbalmente?»
«Perché devi lasciarmi in pace, cazzo!» alzai la voce, perdendo la pazienza. Gli schiaffai addosso le mie pupille incendiate dalla rabbia. «Tieniti per te il tuo stupido altruismo e vattene.»
«Ho capito» esalò. Ancora una volta, rispose al mio rumore con la sua quiete. «Tolgo il disturbo. Buonanotte.»
Si alzò dal dondolo e, con la tazza di tè in mano, rientrò in cucina. La tregua era durata neanche cinque minuti. Io e Connor Reed non eravamo proprio fatti per stare vicini senza scannarci o provocarci.
Be', non me ne importava. Non tolleravo chi tentava in ogni modo di salvare le persone irrecuperabili, e io sapevo per certo di appartenere a quest'ultima categoria. Ero talmente spezzata, talmente smarrita che nessuno sarebbe stato in grado di ricostruirmi mai.
Finii la sigaretta e la spensi nel posacenere appoggiato sul davanzale. In seguito accesi la seconda, perché il nervosismo e i brutti pensieri erano tornati e volevo sopprimerli con l'unico mezzo che funzionasse.
Mi rilassai e sollevai il naso verso la cupola blu e argentea che mi faceva da tettoia. Nel Ghetto le stelle e la luna erano quasi sempre visibili, in assenza di luce artificiale. L'unico aspetto gradevole di quell'inferno in terra.
Capitava, durante notti insonni come quella, che mi fermassi ad ammirare il cielo mentre permettevo a una sigaretta di sporcarmi di cenere i polmoni. Incuneavo gli occhi in una costellazione, ripercorrendone le linee immaginarie all'infinito, e mi chiedevo se i miei genitori riposassero sopra una delle stelle che la componevano.
Poi mi davo della povera illusa e riprendevo a fumare.
C'erano tante teorie per risolvere l'incognita della vita dopo la morte, ma io non credevo in nessuna. Non credevo nei regni dell'oltretomba, non credevo negli angeli e negli spiriti, non credevo nella benevolenza di una qualche divinità e neppure nella rassicurante idea di un sonno eterno.
Se io ero già intrappolata nel buio, dove sarei finita, se non in un'oscurità più profonda?
Ha ragione Connor, mi trovai a pensare, d'un tratto. Sono odiosamente cinica.
Forse sarebbe stato più semplice se ci fosse stata una fottuta tomba su cui piangere. Invece, non sapevo neanche se i miei genitori avessero ricevuto una degna sepoltura. I loro cadaveri erano rimasti a marcire nella nostra casa a San Diego.
Avevo letto su un giornale che l'abitazione era esplosa. Una fuga di monossido di carbonio, dicevano. E anche se al tempo avevo appena dodici anni, ero abbastanza sveglia da rendermi conto che la loro morte era stata insabbiata.
Mio padre, Tenente del dipartimento dell'FBI di San Diego, era a un passo dal catturare Egor Bayan e sbatterlo in prigione. Aveva racimolato delle importanti prove contro l'organizzazione del Ghetto, con l'aiuto della mamma, il suo braccio destro.
E il vory non solo si era sbarazzato di loro, ma aveva rapito me e mio fratello, gli unici testimoni oculari della tragedia. Ci aveva reclusi nella sua preziosa base operativa e mi aveva addestrata duramente per anni, finché non mi ebbe reputata pronta per spedirmi in missione come sicario.
Sebbene desiderassi denunciarlo o ucciderlo io stessa, non potevo. I suoi scagnozzi avrebbero perseguitato me e Danny per il resto della vita.
Perciò non ebbi altra scelta se non quella di obbedire. Mi rivelai un'eccellente assassina, ed Egor mantenne la sua promessa: garantire la nostra sopravvivenza e tenere Danny lontano dalle armi e dal sangue.
Erano passati sette interminabili anni e, se non avevo ancora mollato, era perché mio fratello era l'unica cosa che mi dava la forza di andare avanti.
Quando anche la seconda sigaretta terminò, decisi di tornare in camera da lui. Lo trovai seduto sul bordo del suo letto, i piedi saldi sulle mattonelle del pavimento e le dita che stringevano con foga le coperte aggrovigliate. La luce giallastra dell'abat-jour evidenziava i ciuffi di capelli che gli coprivano la fronte sudata e gli occhi spalancati dal terrore.
Il cuore mi si infranse contro le costole. Conoscevo quella versione di Danny: si era appena svegliato da un incubo. E io non ero lì. Mi stavo drogando mentre mio fratello combatteva contro i suoi demoni notturni, e mi odiai ancora di più per averlo abbandonato.
«Danny,» lo chiamai, affiancandolo sul materasso, «guardarmi.»
Non lo fece. Sapevo che la sua mente aveva bisogno di tempo per metabolizzare le immagini che l'avevano stravolta, perciò rimasi in silenzio. Mi limitai a spostargli i capelli dalla fronte in una carezza delicata, di quelle che regalavo solo a lui, e spinsi con dolcezza la sua testa nell'incavo del mio collo. Lo circondai con le mie braccia e mi tremò addosso, ricordandomi di quando la mamma ci aveva fatto nascondere in quel cunicolo.
«Sempre lo stesso incubo?» gli chiesi in un sussurro.
Annuì, il naso che mi solleticava il collo. «Non ce la faccio più, May.» La sua voce era rotta, cartapesta intrisa di disperazione. «Quando troverò la pace?»
Conoscevo la sensazione di svegliarsi nel cuore della notte in preda all'affanno. I primi due anni dopo il mio arrivo alla Villa, ero tormentata dai brutti sogni, in particolare dalla scena della mamma nuda e legata a quella sedia che veniva uccisa con un colpo secco di fucile.
Poi avevo iniziato a fumare regolarmente e gli incubi erano spariti, anche se a volte, quando ero più stressata del solito, tornavano a farmi visita.
Danny, invece, ogni notte diventava bersaglio dei ricordi più oscuri nascosti negli anfratti della memoria. Vederlo in quello stato mi distruggeva, ma egoisticamente preferivo che soffrisse piuttosto che si riducesse come me, schiavo della droga del Ghetto e dei suoi effetti calmanti.
Dagli incubi potevo salvarlo, almeno.
Portai una mano sulla sua nuca e intrecciai le dita con le ciocche biondo scuro. Gocce d'acqua mi bagnarono la pelle e capii che stava piangendo, quindi aumentai la presa intorno al suo corpo esile, stringendomelo contro il petto.
«Un giorno ti porterò via da qui, Danny» promisi, impulsiva come lo era solo una sorella maggiore che avrebbe fatto e detto di tutto, per proteggere il suo fratellino. «Non so quando, ma accadrà. Te lo giuro.»
In fondo ero sempre stata brava, a raccontare bugie.
Angolo autrice
Buonasera readers miei 💘
Allora, capitolo più tranquillo del solito. Non ci sono omicidi né missioni speciali, soltanto una May particolarmente triste e arrabbiata.
Lei e Connor hanno per la prima volta un momento di tregua e May trova il coraggio di aprirsi un pochino con lui, che la ascolta senza giudicare. Come avrete capito May non sta bene e non trova pace con se stessa da anni, e l'unico modo che ha per affrontare i suoi demoni è la droga.
Capiamo anche qualcosa in più riguardo l'omicidio dei genitori di May e cos'è successo in seguito al suo arrivo alla Villa. Non può denunciare o uccidere Egor perché i suoi uomini gliela farebbero pagare per il resto della vita.
Infine c'è un piccolo momento fraterno, con Danny devastato dagli incubi e May che gli promette di portarlo via. Ci riuscirà?
Ho amato scrivere questo capitolo e spero che vi sia piaciuto altrettanto, probabilmente è il mio preferito finora✨️
Alla prossima! Xoxo <3
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