Capitolo 4

‼️Leggete le note finali‼️

Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 8 ottobre 2019

«Por la mierda, Belle, sto venendo!»

«Aspettami, idiota!»

Cheslav però non resisté oltre e, con un'ultima spinta dentro di me, si lasciò trasportare dall'onda del piacere. Riversò il suo seme sul mio stomaco e si abbandonò sul materasso, stremato e sudato.

«Coño» farfugliò, con il respiro pesante. «È stato incredibile.»

«Parla per te, stronzo» borbottai, mettendomi seduta. Come al solito si era comportato da avido egoista, ignorando i miei bisogni.

«Posso sempre rimediare» propose, sghignazzando.

E anche se ero incazzata per l'orgasmo non pervenuto, non ero così stupida da rifiutare. «Faresti meglio a darti una mossa, allora.»

Mi spinse delicatamente contro la testiera del divano letto e mi divaricò le ginocchia. Calò il viso tra le mie gambe e mi fece vedere le stelle. Anzi, intere galassie.

Ci sapeva fare fin troppo bene, porca puttana. Bastarono pochi secondi per scordarmi di essere arrabbiata con lui.

Gli strinsi i riccioli castani tra le dita, mentre la sua lingua solcata dal piercing esplorava zone sconosciute. Un gemito mi scoppiò nel petto e mi liberai di quel peso opprimente. Sentii i miei muscoli contrarsi e rilasciarsi; Cheslav raccolse ogni singola goccia del mio piacere.

Appunto, avido egoista.

Alzò la testa e inchiodò i suoi occhi scuri nei miei. Si leccò le labbra e le incurvò in un sorriso arrogante. «È il momento della ricompensa, niña

Saltò giù dal divano letto e sparì oltre la tenda di frange colorate che separava la cucina dal salotto claustrofobico. La sua roulotte era un buco e disordinata da far schifo, eppure mi piaceva.

Era un luogo familiare. Mi aveva ospitata quando non sapevo dove rifugiarmi.

Tuttavia, Cheslav e le sue scorte mi piacevano di più.

Ritornò con una scatola di metallo in mano. Una delle frange della tenda gli si incastrò tra i riccioli, rimanendo impigliata finché non si allontanò troppo. Si sedette di nuovo al mio fianco e schiuse lo scrigno delle meraviglie.

Dentro c'erano pile di fogli di carta stagnola, filtri e cartine di sigarette, accendini e piattini metallici. Tutto l'occorrente per intossicarsi il sangue e l'anima e dimenticarsi dei problemi.

Cheslav appoggiò la scatola sul ripiano del tavolo e cominciammo a svolgere il nostro lavoretto post-sesso preferito.

Presi un foglio di carta stagnola e lo aprii delicatamente, rivelando un mucchietto di granelli blu. Lo versai in una cartina e in poche e abili mosse rollai la sigaretta. Aggiunsi il filtro e usai uno degli accendini di Cheslav per dare vita alla mia creazione.

L'effetto era immediato e travolgente: il mio corpo si rilassò e mi abbandonai contro il bracciolo del divano. Una sola aspirata aveva il potere di dissolvere gli orrori che mi imbrattavano il cervello e di donarmi un po' di serenità.

Lanciai un'occhiata distratta a Cheslav, che aveva posizionato tre strisce di polvere blu su un piattino. Arrotolò la sua inseparabile banconota da mille pesos, un omaggio alle sue origini colombiane, e inalò la prima striscia dal naso.

Gettò la testa all'indietro ed emise un verso di soddisfazione. Senza nemmeno attendere che la dose facesse effetto, passò alla seconda striscia.

«Vacci piano, Pablo Escobar» lo rimbrottai. La mia voce biascicava. «Così ti ammazzi.»

«Potrei dirti la stessa cosa, niña

Era vero, anch'io stavo giocando con la salute dei miei polmoni, ma a mia discolpa potevo dire che fumare il Sapfir era molto meno pericoloso che sniffarlo.

Specialmente se lo facevi con la frequenza di Cheslav. Mi chiedevo sempre quando sarebbe finito in overdose. Ci era andato vicino più di una volta, ma il suo Dio decideva sempre di risparmiarlo.

Meglio per me. Era la mia fonte principale di svago.

Mentre il mio amico - nonché spacciatore di fiducia - inalava la droga restante, io mi dedicai alla mia amatissima sigaretta. Mi piaceva fumarla lentamente, per assaporare l'aroma e impregnare le mie cellule di quel composto mortale.

Il Sapfir era un'invenzione miracolosa. Opera del nonno di Egor, il fondatore del Ghetto, consisteva in una miscela di Triazolam, semi di papavero blu ed eroina, dalle forti proprietà inibitorie e calmanti.

Una cazzo di bomba nucleare, eppure bilanciata abbastanza bene da non causare la morte immediata. Al contrario, era meno pericolosa di altre droghe diffuse a livello mondiale.

Ma il Sapfir era una nostra esclusiva. Il tesoro inestimabile del Ghetto, il suo giacimento petrolifero, la sua miniera d'oro. Ciò che ne costituiva le fondamenta.

La nostra organizzazione fluttuava su un campo di papaveri e sangue.

«Oggi hai missioni?»

La voce stordita di Cheslav mi ricondusse alla realtà. Aveva gli occhi gonfi e rossi e l'aria assonnata.

«Egor vuole che accompagni uno dei novellini al mercato nero, per procurarsi i documenti» gli riferii, aspirando un'altra boccata di fumo.

«Già che ci sei portami qualche syrniki.»

Lo additai con la sigaretta. «Solo perché sei tu.»

«E sei pazza di me.»

Gli schiaffeggiai la nuca e lui imprecò. In risposta provò a spingermi, ma i suoi movimenti erano lenti e deviati, quindi lo scansai e cadde di faccia sul materasso.

La scena doveva essere piuttosto ridicola, vista da fuori: due idioti nudi e in preda ai deliri della droga, che si facevano i dispetti e ridevano.

Cheslav non aveva tutti i torti. Lo amavo come se fosse stato il mio secondo fratello. Mi aveva introdotto al Sapfir, quando io avevo appena quindici anni e lui quattordici, mostrandomi così una via di fuga dalla mia vita disastrosa.

Al tempo il mio corpo era l'unica moneta di scambio che potevo dargli per una di quelle sigarette. E Cheslav, che era appena arrivato nel Ghetto e parlava solo spagnolo, non si tirò indietro.

Il nostro accordo non si era mai infranto. Io avevo ancora bisogno della droga e lui del sesso, ma ci eravamo resi conto che insieme era tutto più bello. Tutto meno sbagliato.

Era una specie di migliore amico, anche se per un periodo lui mi aveva considerata molto più di questo e avevamo rischiato di mandare tutto a puttane. Io avevo rischiato di mandare tutto a puttane.

Sembrava che avessi una laurea in Generazione di Catastrofi.

Gettai la sigaretta consumata nel posacenere a forma di coccodrillo e mi alzai per recuperare i miei vestiti, sparsi negli angoli più remoti della roulotte. Barcollavo leggermente sulle gambe e rischiai di sfracellarmi al suolo un paio di volte, ma alla fine riuscii a vestirmi. Annodai i capelli nelle solite trecce e indossai la cintura con il fodero della pistola di papà.

«Torno alla Villa» avvertii Cheslav, mentre allacciavo gli anfibi neri.

«Di già?» piagnucolò.

«Devo farmi una doccia e riprendermi. Non posso presentarmi strafatta davanti ai novellini.»

«Ti ricordo che sono appena diventati sicari della mafia russa. Non si dovrebbero traumatizzare alla vista di una drogata.»

Era vero, tuttavia mi consideravo una persona matura e rispettabile e non ci tenevo a mostrarmi ridotta in quello stato.

E poi non ero una drogata. Più o meno.

«Alla prossima, Ches» lo ignorai.

«Hasta luego» mi corresse. «Ricordati i syrniki.»

Stando quasi ogni giorno a contatto con lui avevo imparato qualche vocabolo spagnolo, quindi sbuffai. «Sì, okay. Non sniffare altra merda nel frattempo.»

«Non te lo prometterò, Belle.»

Lo guardai male e mi mandò un bacio volante. Non possedevo le facoltà mentali necessarie per discutere, quindi aprii la porta e uscii.

Scesi i tre gradini della scaletta in ferro e calpestai un tappeto di foglie cadute. La roulotte di Cheslav si trovata nel bel mezzo dell'unico parco del Ghetto, tra molte altre. Era da anni il rifugio degli spacciatori.

Ne incontrai qualcuno mentre raggiungevo l'uscita del parco. Li salutai di sfuggita. La maggior parte di loro collaborava con Egor e ormai avevano imparato a riconoscere la mia presenza. Probabilmente pensavano che io e Cheslav stessimo insieme.

Mi inoltrai nel cuore del Ghetto, verso Villa Zaffiro. Nonostante fosse piena mattina, sapevo che i criminali di strada erano in agguato. Posizionai una mano sul fodero della pistola, per sentirmi più sicura.

Giunsi alla Villa senza essere aggredita, il che era già un grande risultato. Intontita com'ero, mi scordai di usare l'entrata secondaria. Ignorai gli sguardi delle sentinelle e varcai l'imponente ingresso, con i battenti dai cardini d'oro e il pavimento così splendente da sembrare uno specchio.

Avevo appena iniziato a salire le scale, quando sentii qualcuno parlarmi: «Eccoti, finalmente».

Non lo riconobbi, inizialmente. Mi fermai sul gradino e portai lo sguardo dietro di me.

Connor Reed, in felpa e pantaloni grigi, mi osservava quasi spazientito. Le braccia erano incrociate al petto e le sopracciglia aggrottate.

«Scusa, parli con me?» dissi, confusa.

Si accigliò. «Devi accompagnarmi a prendere i documenti falsi, ricordi?»

Recuperai il telefono per controllare. Mancavano quaranta minuti all'orario stabilito per l'appuntamento.

«Sei leggermente in anticipo» lo schernii.

Ma il novellino era un pignolo della peggior specie: «No, ti sbagli. Il boss ha chiesto che uscissimo in orari diversi, per non attirare l'attenzione, e io ho il primo turno. Mi ha detto che mi avresti accompagnato tu. O ci sono altre Maybelle, qui?».

Fottuto Egor Bayan. Doveva sempre incasinarmi i piani.

«Lasciami precisare due cose, Reed.» Scesi i gradini fino a fronteggiarlo. «Primo: si dice vory, non boss. Secondo: non ho nessuna intenzione di accompagnarti adesso. Devo prepararmi. Fatti trovare qui tra mezz'ora.»

«Tra mezz'ora c'è il turno di Dimitri. Ma se ci tieni tanto ad andare con lui...»

«Quindici» ringhiai. «Quindici minuti.»

Meglio contrattare con Connor Reed che vedere di nuovo quel coglione biondo.

«Conterò i secondi, sappilo.»

Non che Connor fosse più simpatico. Tutt'altro.

Stavo veramente sul cazzo alla vita.

Solntsevo, ovest di Mosca

Solntsevo, uno dei tredici quartieri dell'Okrug Amministrativo Occidentale di Mosca, non era il luogo dove potevi girare indifeso e passeggiare in tranquillità.

Fortunatamente la mafiya della zona andava piuttosto d'accordo con noi del Ghetto. Ci accumunava l'astio verso i Lupi di San Pietroburgo e avevamo collaborato spesso nella rete del narcotraffico e del riciclaggio di denaro.

E, inoltre, per loro ero una specie di celebrità.

Sapevano tutti che ero stata io a uccidere Vladilen Petrov, il vory dei Lupi di Tambov. I criminali che mi riconoscevano mi fermavano per strada e si complimentavano con me. Non ero né lusingata né disgustata; mi limitavo ad accennare un ghigno e, se ne avevo voglia, a ringraziare.

«Non mi avevi detto che eri una specie di diva mafiosa» esordì Connor, dopo essere stati placcati da uno spacciatore che mi chiese addirittura l'autografo.

«Sono un sicario come un altro» mentii. Se non conosceva già la storia del mio arrivo a Mosca, non avevo nessuna intenzione di raccontargliela. «E non sono tenuta a dirti proprio un cazzo.»

«Sei sempre così scontrosa?» Il suo tono di voce suonava più incuriosito che altro.

«Sì. Quindi sta' zitto.»

Da bravo novellino, Connor mi ascoltò. Con la bocca chiusa era meno insopportabile. E soprattutto non mi distraeva dalla radiografia visiva che gli stavo facendo.

Era vestito come una persona qualunque, ma quell'aria casual a lui donava particolarmente. Ogni tanto sollevava la mano per spostarsi il ciuffo scarmigliato di capelli dalla fronte o per spingere gli occhiali sul ponte del naso. Piccoli gesti inconsapevoli ma che avrei osato definire adorabili.

Connor sembrava tutto tranne che un aspirante sicario, a guardarlo bene.

«È questo?» domandò all'improvviso, indicando uno stabile davanti a noi.

Seguii la direzione del suo sguardo, imbattendomi nell'insegna di legno usurato che recitava Solntsevo krytyy rynok.

Annuii e mi avviai verso l'ingresso. Era sorvegliato da un uomo in divisa nera, con lo stemma del quartiere sul petto. Gli mostrai il mio documento e, una volta assicurata la nostra identità, ci lasciò passare.

Il mercato coperto era un tripudio di banchi strabordanti di prodotti freschi e oggetti d'antiquariato in vendita. I prodavets gridavano per farsi notare e discutevano con i clienti sui prezzi migliori, in una cacofonia di voci mischiate.

In genere odiavo i luoghi confusionari, ma quello mi trasmetteva allegria. Klara mi ci portava sempre e avevo imparato ad affezionarmi ai suoi rumori e colori e alle persone che lo frequentavano quotidianamente.

«Stammi dietro e non perderti» raccomandai a Connor, quando ci amalgamammo con la folla.

«Non sono un bambino, sai?» rispose, piccato. «So orientarmi benissimo.»

Dio se era permaloso. E io che cercavo pure di favorire la sua incolumità.

A passo svelto - speravo che lo stronzo si perdesse davvero - superai i banchi dei beni alimentari e dei gingilli tanto luccicanti quanto inutili. In fondo c'era il mio obiettivo, la vera anima del mercato: i tavoli della falsificazione, delle scommesse e della tratta nera.

Mi fermai di fronte al primo e Connor, purtroppo, mi raggiunse. Be', mi sarei sbarazzata di lui in un'altra occasione.

«Guarda chi si rivede!» esclamò l'uomo dietro al banco, stravaccato su una sedia girevole. Un sigaro gli pendeva dalle labbra e indossava uno dei suoi soliti cappelli di merda. «La mia assassina preferita. Come stai, Holsen?»

«Ciao, Konstantin» lo salutai di malavoglia. Non mi era mai piaciuto, lui con i suoi atteggiamenti da sciacallo. «Mi manda Egor. Ci servono dei documenti.»

Il contraffattore si alzò dalla sedia, scrutando me e Connor con gli occhi acuti. «Per il tuo amico?»

«Ora non esagerare» borbottò il ragazzo al mio fianco.

Io, invece, confermai. «Carta d'identità, patente e passaporto. E già che ci sei rinnovami il visto d'entrata.»

«Consideralo fatto» dichiarò Konstantin. «Ho solo bisogno di una foto del ragazzo e di alcuni dati. Seguimi.»

Connor mi lanciò un'occhiata veloce e io gli feci cenno di andare. Mentre Konstantin lo accompagnava alla cabina fotografica, tornai indietro fino al banco dei dolci tradizionali e comprai un sacchetto di syrniki per Cheslav.

Guarda le cose che faccio per te, idiota.

Girai in qua e in là, salutando un paio di conoscenti e raccogliendo le loro lodi. Non ero abituata a essere venerata così e stavo cominciando a irritarmi sul serio.

Avevo solo svolto il mio lavoro. Che si calmassero.

Ritornai dopo una ventina di minuti al banco di Konstantin, trovando lui e Connor seduti e intenti a firmare alcuni fogli. Stavano chiacchierando allegramente.

«Avete finito?» mi intromisi, impaziente di tornare alla Villa.

«Le carte arriveranno tra una settimana. Vi chiamerò io per ritirarle. Ora devi pagare, Holsen» mi ricordò Konstantin, che oltre a documenti produceva anche sorrisi falsi.

Scavai nella tasca dei pantaloni, recuperai il portafogli e gli passai la carta di credito. Per quanto mi riguardava, poteva anche prosciugarmi il conto. Era intestato a Egor e non avevo bisogno di soldi, dato che vivevo alla sua mercé.

«È sempre un piacere fare affari col Ghetto!» ci salutò, una volta effettuata la transizione di denaro. «Ricordate di consigliare i miei servizi a tutti i vostri amici e familiari.»

«Contaci.»

Trascinai Connor lontano da lì, artigliandogli la manica della felpa. Non appena me ne resi conto, mollai subito la presa, e lui mi osservò stralunato.

«Che hai contro quel tizio? È divertente.»

«Ma non ti hanno insegnato che non ci si fida dei criminali?» risposi, severa.

«Noi siamo criminali.»

«Appunto, genio!» sbraitai. La sua ingenuità mi stava esasperando. «Non ci fidiamo mai l'uno dell'altro.»

«Il boss... cioè, il vory ha detto che posso fidarmi di te. Non eri il suo sicario migliore?»

Mi fermai in mezzo al corridoio principale, come un palo che bloccava la fiumana di gente. Piantai lo sguardo in quello nocciola di Connor.

«Impara questa lezione, Reed. Io posso anche difenderti dagli altri criminali, ma non ti prometto di difenderti da me. Se mi stai sulle palle, ti sparo. Hai capito?»

Ma lui aveva questa dannata capacità di farsi scivolare addosso le mie parole crudeli e di rispondere sorridendo. Sorridendo davvero. «Dovrei avere paura di una che va in giro con una pistola alla cintura e un sacchetto di dolci in mano?»

Sospirai e digrignai i denti, rischiando di spezzarmeli. Tuttavia mi imposi di mantenere la calma. C'erano troppi testimoni per azzardare un omicidio a sangue freddo.

«Torniamo alla Villa» decisi, e gli volsi di nuovo le spalle.

«Almeno mi dici per chi sono quelli?» additò i syrniki.

Era petulante. E fastidioso. Iniziavo a detestarlo.

«Un amico» riferii, giusto per farlo tacere.

«Non credevo che una come te avesse amici. Cioè, minacci la gente di continuo.»

«Scusa, riformulo. Il mio scopamico

Mi parve di sentirlo ridacchiare. «Adesso capisco, Maybelle.»

Mi bloccai vicino all'uscita dell'edificio. «May» lo corressi. «Soltanto May.»

«Non ti piace il tuo nome?»

«Lo usa Egor.»

Le sopracciglia di Connor si incresparono e una linea gli segnò la fronte spaziosa, mentre lasciavamo il mercato coperto. «È un privilegio che gli hai concesso?»

«L'unico privilegio che gli ho concesso è di non soffocarlo con il cuscino mentre dorme.»

«Rettifico ciò che ho detto prima. Mi fai decisamente paura.»

Fu così che riuscì a strapparmi un sorriso. «Adesso si ragiona, Reed.»

Angolo autrice

Salve readers miei 💘

Allora, la prima parte di questo nuovo capitolo è dedicata a May e Cheslav, spacciatore del Ghetto e ✨️migliore amico con beneficio✨️ di May.

Ches è il mio personaggio maschile preferito e tengo un sacco al suo rapporto con May. Vedrete nei prossimi capitoli come l'ho sviluppato e come è nato ;)

Lui e May condividono una passione un po' inusuale, e qui ci colleghiamo a un aspetto fondamentale del Ghetto: il Sapfir. Leggete la nota in basso per maggiori dettagli.

Nella seconda parte, invece, torna Connor. Da questa scampagnata al mercato cominciamo a capire come sta prendendo forma la "relazione" tra i due. È perlopiù basata su Connor che la provoca e May che si incazza. Ah, che bello l'amore 💞

Ci tengo a precisare subito che non sarà un enemies to lovers, perché Connor non detesta in alcun modo May. È lei che è semplicemente pazza 💀💀

Detto questo, fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto. Stellinate e se vi va seguitemi su IG: miky03005s.stories

Traduzioni:

1) Por la mierda/coño= porca puttana/cazzo
2) Niña= bambina
3) Hasta luego= a dopo
4) Solntsevo krytyy rynok= mercato coperto di Solntsevo
5) Prodavets= venditori

Note:

• I syrniki sono frittelle dolci tipiche della cucina russa e ucraina.

• Il mercato dove vanno May e Connor non esiste, ma a Solntsevo opera davvero un'organizzazione mafiosa, chiamata Solntsevskaya Bratva. Mi sono ispirata a loro per scrivere della mafia del Ghetto.

• Il Sapfir (dal russo "zaffiro") è una sostanza inventata e composta da tre elementi: Triazolam, un farmaco dalle proprietà sedative e dagli effetti di breve durata, utilizzato per trattare l'insonnia; l'eroina, una droga semisintetica con un grande potenziale di assuefazione; e infine i semi di papavero blu, a volte usati come rimedio naturale contro ansia e stress, grazie al loro effetto calmante.

Adesso avete capito perché si chiama Ghetto Zaffiro e cosa simboleggiano i papaveri blu 👀

Ovviamente non posso sapere se queste sostanze mischiate tra loro, anche a piccole dosi, siano mortali. Ma siamo pur sempre in una storia su Wattpad e immaginare non costa nulla.

Alla prossima! Xoxo <3

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top