Capitolo 37

Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 12 dicembre 2019

«Dobbiamo parlare» decretò Connor, la voce grave e lo sguardo severo che mi perquisiva.

Staccò la schiena dalla porta della mia stanza, di fronte alla quale stava aspettando che arrivassi. Assunse una postura tesa, con i lineamenti del volto rigidi, come se stesse trattenendo una scarica di parole furiose da riversarmi addosso.

Si limitava a osservare il sangue che mi imbrattava i vestiti e i capelli, rinchiuso nel silenzio di chi non sapeva da dove cominciare una conversazione impegnativa. Nonostante volesse apparire gelido e inscalfibile, riuscivo a intuire i suoi pensieri: provava ribrezzo e delusione, detestava quella versione crudele e spietata di me, tuttavia si sforzava di restare calmo per non causare una discussione violenta.

«Non mi va di parlare, adesso» replicai atona, dileguandolo con menefreghismo.

Ignorai la presenza di Connor e mi avvicinai alla porta per inserire la chiave nella fessura. La serratura scattò e aprii l'uscio, dopodiché entrai nella camera, pedinata dal ragazzo che non aveva intenzione di concedermi spazio e riposo. Sbuffai, infastidita dal suo rifiuto di lasciarmi da sola; la sua testardaggine era insopportabile.

«Invece ne abbiamo bisogno entrambi» insistette Connor. In genere ammiravo la sua determinazione, ma in quel momento lo trovai irritante. «Credi che io sia in grado di fingere che non sia accaduto nulla, quando sei ridotta in questo stato? Ti sei vista allo specchio, May?»

«Ho svolto una missione come tante. Ormai dovresti averlo capito, che il nostro lavoro è compiere omicidi, che ci piaccia o no» ostentai indifferenza, mentre rimuovevo la giacca e i guanti pregni di sangue per abbandonarli sul pavimento.

Ripulii la lama del coltello sotto al getto d'acqua del lavandino del bagno, cancellando le tracce ematiche di Wera e recuperando il precedente splendore. In seguito, riposi il pugnale e la pistola nel cassetto contenente la mia collezione di armi. I miei gesti erano meccanici e all'apparenza tranquilli, come se non avessi torturato e assassinato una donna in un lurido vicolo del Ghetto.

Il peso di quell'azione raccapricciante non mi stava affossando come avrebbe dovuto. La mia anima era macchiata, sporca dell'essenza di morte e brutalità, ma non percepivo alcun segno di rimorso. Mi sentivo soddisfatta per aver terminato l'opera della mia vendetta personale, sebbene non avessi la certezza di aver scelto la vittima adeguata.

Non è importante sapere se ho ucciso la vera colpevole o una delle numerose pedine di questo gioco malato. L'unica cosa che conta è aver ottenuto giustizia per Cheslav, anche se ciò non riporterà il mio migliore amico indietro.

«Non è stato uno dei tuoi soliti crimini. Ti ho seguita, da quando sei uscita dalla Villa all'alba, e ho assistito alla scena» rivelò all'improvviso. I muscoli si paralizzarono e il mio sguardo scattò sulla figura di Connor, la cui espressione si era indurita ancora di più. «Ho guardato abbastanza per realizzare che eri fuori controllo e che avevi perso il lume della ragione. Hai rapito un'innocente e l'hai eliminata come un animale al macello, te ne rendi conto?»

«Se ti dispiaceva così tanto per quella stronza, perché non sei intervenuto?» sibilai in risposta. Detestavo che mi avesse spiata durante quello sfogo di pura follia, che fosse stato uno spettatore della mia indole malvagia.

«Saresti stata capace di ferire anche me, in quelle condizioni. Eri terrificante, May» notificò amareggiato. «Ho fatto fatica a riconoscerti. Non eri la stessa ragazza con cui sono stato negli ultimi giorni. Non eri la mia ragazza.»

La mia pazienza cominciò a esaurirsi: non ero dell'umore adatto per ascoltare i suoi rimproveri, nemmeno per farmi rinfacciare i miei comportamenti scorretti e poco etici. Non serviva che lui rincarasse la dose, perché ero già a conoscenza della gravità del mio atto ignobile. Soprattutto, però, non volevo subire l'impeto del suo sdegno.

«Sapevi a cosa andavi incontro, scegliendo una come me. Ti ho avvertito ripetutamente, Connor: non cambierò mai e sarò sempre l'assassina cresciuta nel circo di Egor. Se pensavi che sarebbe bastata la tua compagnia e qualche parola dolce per trasformarmi in una persona migliore, ti sei soltanto illuso» sputai la verità schietta.

Un'ombra di sconforto gli rabbuiò lo sguardo ed emise un sospiro arrendevole. «Non voglio accusarti né condannarti. Sono consapevole del fatto che, nella realtà in cui viviamo, a volte è necessario sacrificare qualcuno. Non sono così ingenuo da pretendere che tu la smetta di fare il tuo mestiere, oppure che la nostra relazione ti salverà dal marcio della gente del Ghetto.»

«L'ho fatto per Cheslav. È finito in coma e, se dovesse miracolosamente risvegliarsi, verrà subito arrestato. Probabilmente non lo rivedrò mai più e questo mi fa impazzire» confessai, la voce che traballò pronunciando il nome del mio migliore amico. Una fitta di dolore minacciò di sbriciolare il mio scudo difensivo, tuttavia ebbi la resistenza necessaria a vincere l'afflizione, impedendomi di crollare tra le lacrime.

«Cosa c'entra Wera, con l'overdose di Cheslav e l'invasione del parco degli spacciatori?» indagò con espressione confusa.

«Wera aveva un legame con Sidorov, il quale collaborava con l'FBI. Non poteva essere del tutto estranea alle rappresaglie. Forse non era l'unica responsabile, ma ho rimosso un ostacolo che intralciava la nostra organizzazione.» E, cosa più importante, ho rilasciato la mia rabbia incontenibile.

«Ti aiuterò a trovare una soluzione per rivedere Cheslav» mi assicurò, «anche se non condivido la tua vendetta. Credo che tu cercassi una semplice valvola di sfogo e perciò abbia aggredito la prima persona che è capitata nel tuo mirino. È stata la disperazione ad agire per te.»

Connor provò a sfiorarmi con cautela, ma respinsi il suo tentativo di starmi vicino. Non avevo bisogno delle sue carezze e della sua inutile premura, ripudiavo il suo tocco e non tolleravo la compassione che trapelava dai lineamenti ammorbiditi. Si stava sforzando di comprendere le ragioni del mio gesto atroce, utilizzando la sua immensa empatia, ma io avevo eretto una muraglia inespugnabile.

«Non m'importa di aver colpito il bersaglio sbagliato. Ho ascoltato l'istinto e non me ne pento. Se ti interessa saperlo, mi sono divertita parecchio ad ammazzarla» sfoggiai un ghigno soddisfatto.

L'alternativa sarebbe stata esternare la sofferenza che mi logorava l'anima, tuttavia non era un'opzione valida. Pur di evitare di affrontare quell'angoscia, scelsi di indossare la maschera della perfidia. Mi calai nei panni della psicopatica incapace di provare emozioni, azzerai i sentimenti e mi lasciai avvolgere da una freddezza imperturbabile.

Connor lasciò ricadere il braccio lungo il fianco, sbigottito dalla mia meschinità. Assomigliavo sempre di più al sicario insensibile che aveva conosciuto al suo arrivo a Villa Zaffiro, sempre di meno alla ragazza che gli aveva donato il cuore. Colei che aveva amato in una piscina termale, in una serra di papaveri blu, durante un ballo in maschera e in un'auto da corsa era seppellita sotto un cumulo di macerie.

«Che stai dicendo, May? Sei davvero compiaciuta della cazzata che hai fatto?» si alterò.

«Sì, moltissimo. Non dovresti esserne così sconvolto, Connor. Se avessi imparato a conoscere la mia vera natura, invece della versione buona che hai costruito nella tua fantasia, sapresti che questa è la mia quotidianità da circa sette anni. Sono un'assassina esperta e traggo piacere infliggendo del male agli altri. È un lato di me che non riesco a tenere a bada, è più forte della mia volontà.»

Non era una completa menzogna, almeno in parte. Nel corso delle settimane trascorse al fianco di Connor, grazie alle carezze delicate e alle frasi piene d'amore che mi aveva riservato, avevo creduto per un effimero frangente che sarei potuta cambiare. Mi ero pentita di alcuni crimini commessi; la mia visione del mondo aveva assunto sfumature più positive e colorate; avevo cominciato a sperare di liberarmi dal vortice di odio in cui ero stata risucchiata.

Lui aveva fatto rinascere la mia anima tormentata, aveva riportato a galla le emozioni che tentavo di annegare. La realtà dei fatti, però, era più dolorosa: i nostri sentimenti, per quanto puri e travolgenti, non mi avrebbero strappata dalle grinfie dei miei demoni interiori. Necessitavo di un supporto professionale, che avrei continuato a evitare finché fossi rimasta prigioniera nella Villa.

L'amore non basterà a scarcerarmi da questa prigione maledetta, se non sarò io la prima a espiare i miei peccati. Non raggiungerò mai la redenzione, di questo passo.

«Sono disposto ad accettare qualsiasi compromesso per stare al tuo fianco e non voglio rinunciare a ciò che abbiamo costruito insieme, ma questo... questo è troppo persino per te» mi accusò Connor, scuotendo la testa incredulo. Il ribrezzo era visibile nei suoi occhi, incatenati ai miei con la vana speranza di scorgervi un barlume di lucidità. «Non posso tollerare certe azioni e soprattutto la tua indifferenza. Se non vuoi rimediare ai tuoi sbagli, non mi tratterrò oltre. Non si può salvare qualcuno che respinge ogni forma di aiuto.»

«Ti sei innamorato di un mostro e te ne sei accorto tardi» proferii in tono lapidario. «Non dire che non ti avevo avvisato, però. Ti ricordi una delle nostre prime conversazioni? Mi sono talmente abituata al buio del tunnel in cui sono intrappolata, che non voglio più uscirne. Appartengo al Ghetto e ai suoi criminali.»

«Sai qual è la parte peggiore? Che ho ingannato me stesso e mi sono convinto di poterti tirare fuori da questo inferno» mormorò flebile. «Pensavo che, in fondo, anche l'assassina più temuta della città avesse delle qualità buone. Mi hai appena dimostrato il contrario.»

Marciai in direzione della porta, scansando Connor con una brusca spallata. Abbassai la maniglia e spalancai il battente, per indicargli l'uscita. «Se ti disgusta così tanto questo lato di me, allora vattene e non cercarmi più» gli suggerii duramente. «Sarebbe una scelta incoerente, considerato che avevi detto che ero perfetta e che non avresti voluto nessun'altra al mio posto.»

«È stato tutto un errore. Non avrei dovuto chiederti la possibilità di starti accanto. Avevi ragione quando mi mettevi in guardia, perché è vero che sei la persona peggiore che potesse entrare nella mia vita» ribatté, i pugni serrati dalla collera che gli sporcava i lineamenti. «Meriti di restare da sola, con le tue armi e la tua preziosa droga, tutto ciò di cui ti interessa.»

Neanche l'astio velenoso che trasudava da quelle frasi sciolse la mia barriera inossidabile. Il proiettile rimbalzò contro l'acciaio del mio cuore senza perforarlo. Ero invulnerabile a qualsiasi attacco mirato a ferirmi.

Connor non mi rivolse un'ultima occhiata o parola. Abbandonò la mia stanza e scomparve nel corridoio, lasciandosi alle spalle un addio silenzioso che alleggiò nell'aria. Solo in quel momento fui attanagliata dalla sensazione che qualcosa andasse in frantumi, dentro di me. I ricordi delle esperienze vissute con lui mi bruciarono le retine, una pellicola incandescente che ero costretta a ripercorrere.

Chiusi la porta generando un rumore sordo, trascinata dal peso di aver distrutto la mia unica fonte di felicità. Quella consapevolezza si palesò come una coltellata in pieno petto, che aprì uno squarcio nella mia corazza vacillante. Mi imposi di mantenere la compostezza, di non sgretolarmi sul pavimento macchiato di gocce vermiglie.

Al fine di reprimere l'agonia e cancellare i rimasugli di sangue dal mio corpo, decisi di fare una rapida doccia. Ottenni l'effetto desiderato: l'acqua gelida mi purificò dal sangue e dai pensieri assillanti. Il liquido denso scivolò nello scarico, spazzando via con sé il groviglio di dolore che mi occludeva il respiro.

Uscii dalla doccia e indossai un abbigliamento pulito e più comodo. Mentre legavo i capelli umidi nelle consuete trecce, osservai il mio riflesso sullo specchio appannato dal vapore. I miei occhi, spenti dalla prostrazione e dalla fatica, avevano perso il colore limpido che mi accumunava a papà e Danny. Le iridi burrascose rivelavano quanto mi sentissi svilita e stremata, a causa della discussione avvenuta poco prima.

Sospirai e sigillai le palpebre, percependo il tarlo del rammarico, subdolo e silenzioso, che mi divorava le membra. Avrei dovuto pentirmi del modo raccapricciante con cui avevo ucciso Wera; invece, a torturarmi, era il disprezzo evidente nella voce e nello sguardo di Connor. Lo avevo deluso oltre ogni limite e avevo tradito la sua fiducia. Non lo avrei biasimato, se avesse deciso di non perdonarmi: non meritavo il suo amore, non l'avrei mai meritato.

Tornai in camera con il proposito di accendere una sigaretta per tranquillizzarmi. La droga mi restituì l'apatia tanto agognata, mi aiutò a inibire il cervello e a distendere i nervi. Consumai in fretta la dose, per poi assumere anche la seconda, aspirando velocemente la tossina che ristabiliva la quiete nel mio organismo. Dato che la finestra era sigillata, il fumo permeò l'aria della stanza e mi circondò in una nebbia nociva.

Ero precipitata nell'abisso lugubre ma confortevole del Sapfir; la mente era offuscata dalla sostanza stupefacente che rallentava gli stimoli e sedava il raziocino. Nella foschia procurata dalla droga, il suono di una serie di colpi battuti alla porta mi giunse ovattato e distante. La persona che reclamava la mia attenzione bussò con più violenza, e mi risvegliai appena dallo stordimento.

Muovere quei pochi passi mi costò uno sforzo notevole. Raggiunsi l'ingresso della camera e spalancai la porta, trovandomi dinanzi due figure famigliari. Assottigliai le palpebre per metterle a fuoco: Danny e Seimir occupavano il mio campo visivo, il ragazzo più grande che precedeva mio fratello, riparato dietro alla sua schiena.

«Possiamo entrare?» mi domandò Seimir. Mi accorsi vagamente del tono brusco che mi rivolse e della punta di contrarietà nella sua espressione. Sembrava adirato con me, nonostante non gli avessi recato alcun fastidio. O, almeno, lo credevo.

Mi limitai ad annuire e la coppia superò la soglia della stanza. Provai a intercettare lo sguardo di Danny, ma le sue pupille fuggivano dalle mie, incastrandosi tra le assi del pavimento macchiato di sangue. Richiusi la porta e mi appoggiai di schiena alla superficie del battente, poi studiai i due ragazzi, in attesa che mi spiegassero il motivo di quella visita.

«Non voglio tirarla per le lunghe, quindi sarò diretto. Le notizie circolano abbastanza velocemente, in questo posto, e ciò che si vocifera su di te nelle ultime ore è abbastanza preoccupante» esordì Seimir, gli occhi verdi che mi fissavano in maniera truce. «Non sono stupido, May, sono cresciuto in una famiglia di mafiosi e so come funzionano certe dinamiche. Anch'io mi sono sporcato le mani e ho rovinato la vita di persone innocenti, quindi non fingerò di essere migliore di te» specificò. «Ma credo che tu abbia esagerato, stavolta, o mi sbaglio?»

Pressai i polpastrelli contro le tempie, che pulsavano per l'emicrania martellante. «Ho già ricevuto una predica, non me ne serve un'altra. Ti scandalizza il fatto che io sia un'assassina? Non ti hanno messo in guardia, prima di venire nel Ghetto? Sei un po' suscettibile, per definirti un criminale» lo derisi.

«Non sto parlando di me. Dubito che tu lo capisca, visto che sei palesemente strafatta» sibilò accusatorio.

In quel momento capii a chi si stesse riferendo. Guardai Danny, seduto sul bordo del letto, il suo volto pallido e la postura agitata, gli impercettibili scatti dei muscoli tesi dall'ansia. Non osava girarsi verso di noi, ma non avevo dubbi che ci avesse ascoltato e che captasse l'insistenza delle mie iridi su di lui. Teneva la testa china e torceva le mani in grembo, scosso da fremiti irregolari.

Un allarme esplose nella mia testa, facendomi rinsavire dallo stato confusionale. Era ovvio che mio fratello fosse turbato da qualcosa; il mio istinto protettivo mi spinse ad avvicinarmi. Tuttavia, il braccio di Seimir mi sbarrò la strada e mi obbligò a indietreggiare.

«Sta' lontana da lui. Potresti fargli del male, per quanto mi riguarda, e non permetterò che succeda» provò a intimorirmi.

Una risata nervosa rotolò dalle mie labbra. «Stai scherzando, spero. Con quale coraggio me lo stai dicendo in faccia? Sono sua sorella, cazzo! Non riuscirei a torcergli un capello neanche se lo volessi. E adesso levati, oppure...» Guidata da un impulso furente, agguantai il colletto della camicia di Seimir e lo strattonai. «Ringrazia che ci sia Danny, perché niente e nessuno mi proibisce di farti rimangiare quella stronzata.»

«May, lascialo stare, ti prego» mi interruppe il timbro sottile di mio fratello. Si decise a sollevare gli occhi, e notai le lacrime annidate in essi. «Gli ho chiesto io di accompagnarmi qui. Volevo parlarti per smentire le voci sul tuo conto, per avere una spiegazione. Ciò che hai fatto a quella donna, come l'hai uccisa... è tutto vero?» Una crepa solcò il quesito, la medesima che mi attraversò il cuore, nel realizzare che Danny fosse spaventato. «Non mentirmi, per favore. Voglio conoscere i dettagli.»

Staccai la presa dalla camicia di Seimir e lui rispose con uno sguardo ostile, lisciando le pieghe del tessuto stropicciato. Non mi curai del contabile, fossilizzata sul viso di mio fratello, dall'aria satura di terrore mal represso. Accettai che la scelta più saggia fosse restare a debita distanza e comportarmi con cautela, per non incrementare la sua paura.

Danny non mi aveva mai interrogata sui miei crimini. Sapeva perfettamente che Egor mi aveva assoldata come sicario, dopo averci rapiti da San Diego. Con la promessa di non coinvolgere mio fratello negli affari loschi del Ghetto, in cambio mi ero addestrata per eliminare i suoi nemici.

Mi ero arresa al volere dell'uomo che ci aveva distrutto la vita, con il solo scopo di proteggere Danny dalla sua pericolosità, e mi ero impegnata per diventare il più abile sicario dell'organizzazione. Avevo distrutto la mia psiche, pur di salvaguardare la sua.

Mio fratello si era sempre tenuto fuori dal sudiciume che mi attorniava. Non gli riferivo i particolari scabrosi degli omicidi, per non rompere la sua fragile serenità. Mi considerava la sua ancora di salvezza, un faro nel mare in tempesta della sua coscienza marchiata dal tedio. Se avessi condiviso con lui le caratteristiche più infime delle mie azioni, l'immagine ingenua che aveva conservato di sua sorella si sarebbe incenerita.

«Parla, May» mi incalzò, leggendo le mie considerazioni combattute. «Cos'hai fatto a quella donna?»

Inalai un profondo respiro e, senza preamboli inutili, gli fornii una spiegazione secca e concisa. Illustrai in breve la modalità con cui avevo prelevato, torturato e assassinato Wera; non gli risparmiai la spiacevole realtà dei fatti. Fui onesta con mio fratello - e con Seimir che non smetteva di tenermi d'occhio - anche se ciò lo destabilizzò visibilmente.

Non riuscì a celare la sua reazione: un guizzo di ripugnanza gli ottenebrò le iridi cristalline, gli occhi si spalancarono dallo sconcerto. Mio fratello, sangue del mio sangue, la persona che amavo più di chiunque altro al mondo e l'unica ragione per cui avevo scelto di sopravvivere, mi scrutava come se fossi stata una sconosciuta.

Era disgustato e sconvolto, forse addirittura terrorizzato dall'imprevedibilità della mia spietatezza. Non poteva immaginare che sarei caduta così in basso, e non riusciva ad accettare che io fossi la stessa May che lo aveva protetto sin dal giorno della morte dei nostri genitori. In quel momento Danny si trovò a fronteggiare il mio lato più vergognoso.

Un principio di senso di colpa mi investì. Davanti allo sguardo giudicante di mio fratello, mi pentii dell'atrocità commessa. Provai l'impulso di scusarmi con lui, sebbene la vittima del delitto fosse un'altra. Mio fratello era l'unico di cui mi importava davvero e non volevo rischiare che il nostro legame si guastasse.

«Puoi uscire, Seimir? Vorrei restare da solo con mia sorella» chiese Danny al suo ragazzo, infrangendo d'un tratto il silenzio carico di tensione. La sua voce risuonò fioca, eppure non mostrò segni di cedimento.

Seimir apparve restio e incerto, ma alla fine acconsentì al volere di Danny. Si accostò a lui - ancora seduto sul proprio letto - e si piegò alla sua altezza, in modo da sfiorargli il viso con una carezza confortevole e posargli un bacio leggero sulle labbra. «Se hai bisogno di qualcosa, scrivimi o vieni a cercarmi, va bene? Non esitare a correre da me. Ti amo, Dan.»

Danny ricambiò con un sussurro appena udibile e gli regalò un sorriso, paragonabile a un raggio di luce che filtrò attraverso le nubi originate dalla mia confessione. I ragazzi si salutarono e, prima di uscire dalla camera, Seimir mi lanciò un'occhiata tagliente che interpretai come un muto avvertimento. Lo ignorai e attesi che la sua presenza svanisse, dopodiché mi fiondai da mio fratello.

Desideravo abbracciarlo e promettergli che lo avrei difeso a costo della vita, ma temevo che avrebbe respinto la mia vicinanza. Dunque mi limitai a stare in piedi di fronte a lui, osservandolo dall'alto, fallendo nel tentativo di instaurare un contatto visivo. Le sue iridi non si azzardavano a specchiarsi nelle mie, dall'identica sfumatura acquamarina, ma infangate da un'ombra sanguinaria.

«C'è un motivo dietro al tuo gesto, May? Se hai una giustificazione, ti scongiuro di dirmelo» mi implorò, incontrando il mio viso. «Dimmi che non l'hai fatto per sola cattiveria. Dimmi che posso capirti, perché non posso pensare che tu ti sia spinta così oltre senza una ragione.»

«Io... cercavo vendetta» esalai in un soffio.

Gli raccontai dell'overdose e dell'arresto di Cheslav, aggiungendo che Wera aveva architettato alcune delle invasioni della polizia nel Ghetto, supportata dall'FBI americana. Danny ebbe un sussulto quando nominai l'intelligence federale per cui avevano lavorato i nostri genitori, dedicandosi alle investigazioni finché Egor non li aveva fatti uccidere dinanzi ai nostri occhi da bambini.

Gli spiegai che avevo punito Wera anche per lui. Mesi prima, la spia aveva scoperto che avevo liberato una giovane prostituta da uno dei bordelli del Ghetto e che avevo consegnato Emma alle pattuglie di polizia, quindi mi aveva additata come mittente delle denunce anonime. Danny aveva subito le conseguenze di quell'accusa sulla propria pelle, con le percosse inflitte da Egor come punizione nei miei confronti.

Wera meritava di pagare sia la sofferenza patita da mio fratello che la cattura di Cheslav. Oppure, più semplicemente, il mio cervello aveva rielaborato la vicenda per sfogare la mia collera su una persona che mi aveva già arrecato un torto. Anche se avesse contribuito all'invasione del parco degli spacciatori, non c'entrava nulla con l'attuale stato comatoso di Cheslav.

La colpa di quello era soltanto mia, che lo avevo abbandonato nel momento in cui necessitava della sua migliore amica. Sua madre gli aveva sbattuto la porta in faccia e io non ero lì, al suo fianco, pronta a consolarlo. Non aveva sopportato quel dolore in completa solitudine: se Cheslav si era iniettato una dose letale di Sapfir, era anche a causa del mio egoismo. Avevo preteso ciecamente di scaricare quel peso sul cadavere di Wera.

«Allora è per questo che l'hai assassinata? Perché Egor mi ha picchiato, ascoltando la sua spia? Perché ha collaborato con l'FBI e magari ha parlato dei traffici di droga nel Ghetto? Perché gli agenti hanno trovato Cheslav in overdose e, se si sveglierà, finirà in carcere?» riepilogò Danny, il tono infarcito di disappunto.

«Non guardarmi così, Danny. Sapevo ciò che facevo. Wera ha tradito il Ghetto, era una nostra nemica» difesi la mia posizione.

«Ne sei davvero sicura, May? L'hai uccisa perché eri convinta della sua colpevolezza, per fare giustizia a me e Cheslav? O ti sentivi così uno schifo che, da brava codarda, hai puntato il dito contro un'innocente? Te lo sei domandata?»

«Sì, cazzo, hai ragione! Volevo un capro espiatorio e ho attaccato Wera» sbottai, perdendo definitivamente il controllo. Il fiume della mia coscienza straripò e l'argine non lo contenne. «Non ho ancora scoperto chi denuncia le attività del Ghetto, non sapevo fino a che punto lei fosse responsabile, ma non le ho concesso il beneficio del dubbio. Cheslav rischia di morire per colpa mia, non sua. È andato in overdose pochi giorni dopo che abbiamo discusso.»

Danny continuava a fissarmi esterrefatto, come se fossi stata un'intrusa da cui scappare. «Hai privato una donna della vita, togliendole il diritto di difendersi, solo perché così ti saresti sentita meglio. Adesso rispondimi con sincerità: ha funzionato?»

«Credevo di sì, all'inizio. Ero soddisfatta, ma ora...» La frase si incastrò in gola, bloccata dal nodo che mi aggrovigliava le corde vocali. Deglutii e mi sforzai di terminare. «Ora penso di aver combinato un casino irrimediabile e di non aver risolto nessun problema. Cheslav potrebbe morire da un momento all'altro, in quel letto d'ospedale, e l'FBI non si arrenderà finché non avrà catturato Egor.»

«Dovevo accettarlo sette anni fa, che mia sorella è sparita. Sei morta insieme a mamma e papà, non ti riconosco più. Per tutto questo tempo ho finto che non fosse cambiato niente, che non fossimo prigionieri e che tu fossi rimasta la May che costruiva i castelli di sabbia con me. La realtà è che tu sei la creazione di Egor, mentre io sono troppo debole per sopportare ancora questa situazione.» Schiacciò con il palmo della mano la singola lacrima che gli graffiò la guancia.

Il discorso pronunciato da Danny, con voce tremante e sillabe infrante, mi scavò una voragine nel petto. Fu il colpo di grazia che smantellò l'armatura del mio cuore, affondando una pugnalata che lo spaccò in migliaia di pezzi. Le lacrime mi inondarono gli occhi e mi bagnarono il volto, senza che potessi trattenerle.

«Hai... hai davvero paura di me? Non ti farei mai del male, lo sai. Sono sempre io... tua sorella» rantolai, e un singhiozzo mi scosse.

«Non ho paura per me, ne ho per te e per chi ti circonda. Ho paura di ciò che sei diventata e di cosa potresti fare in futuro.»

Le mie gambe cedettero e le ginocchia impattarono contro il suolo. I singulti mi mozzarono il respiro, i fremiti mi sconquassarono e il pianto esplose tra le palpebre. La sensazione miserabile del rimorso mi travolse in un'ondata: mi pentivo di essermi allontanata da Cheslav, di aver respinto Connor, di aver deluso Danny e, in minima porzione, anche dell'omicidio di Wera.

Mi vittimizzai tra le lacrime che scorrevano impetuose, rifugiando la testa nel grembo di mio fratello. Nonostante le sue parole rigide e inclementi, non mi scostò da sé. Al contrario, mi dedicò le sue carezze più affettuose e delicate, lambendo la mia nuca con le dita e facendo scivolare i polpastrelli lungo la mia schiena incurvata.

«So che sono una sorella pessima e una persona altrettanto terribile, però... non lasciarmi anche tu» bisbigliai, il timbro frammentato dai singhiozzi. Quella supplica giunse ovattata dal tessuto dei pantaloni di Danny, che assorbiva le gocce salate della mia disperazione.

«Resto qui, May, non ti abbandono» mi promise con la sua voce morbida, senza interrompere quella coccola. Cercò di sopprimere i tremori del mio corpo e di quietare il pianto, aggiungendo: «Non perderai anche me. Ti tengo io, sempre, qualsiasi cosa succeda. Sei la mia famiglia e ti amerò nonostante tutto. Ci proteggeremo a vicenda, come avrebbero voluto i nostri genitori».

Mi aggrappai a mio fratello, l'unico appiglio nell'uragano che mi stava dilaniando.

Jasenevo, sud-ovest di Mosca, 17 dicembre 2019

Introdurmi nell'ospedale situato nel quartiere di Jasenevo, dove Cheslav era stato trasportato d'urgenza, non fu un'impresa troppo ardua. Mi bastò indossare l'uniforme rubata a una delle infermiere per camuffarmi nell'ambiente, in modo che nessuno intralciasse la mia strada.

La mia destinazione era il reparto di terapia intensiva. Per la precisione, la stanza in cui era stato ricoverato il mio migliore amico, che avevo identificato consultando il registro dei pazienti. Stretta nella divisa verde petrolio, marciavo a passo spedito lungo i corridoi ampi e dalle pareti immacolate, gremiti di dottori e famigliari in visita. La luce pallida delle lampade a neon e l'odore di disinfettante erano insopportabili.

Avevo incaricato una spia del Ghetto - dopo averla pagata profumatamente - di sorvegliare le condizioni di Cheslav e avvisarmi qualora ci fossero state novità. Temevo che mi avrebbe portato informazioni tragiche, invece era avvenuto un risvolto inaspettato e positivo: Cheslav era uscito dal coma e, grazie a un vero miracolo, la sua vita era fuori pericolo.

L'overdose non era stata fatale, ma necessitava di alcuni giorni di riposo per recuperare le piene facoltà fisiche e mentali. Inoltre, era fondamentale che i medici gli somministrassero i farmici mirati alla disintossicazione, altrimenti l'astinenza dalla droga lo avrebbe fatto impazzire. Quella era la fase più critica, perché il suo organismo rischiava di collassare a causa della mancanza di Sapfir.

Nell'apprendere che il mio migliore amico sarebbe sopravvissuto, un sollievo sconfinato mi aveva invasa. Avevo trascorso gli ultimi giorni trincerata nella mia camera, a consumare sigarette e a sfogare le lacrime trattenute, e soltanto quella notizia mi aveva restituito un bagliore di gioia. Non avevo esitato nel raggiungere l'ospedale, guidata dall'obiettivo di parlare con Cheslav e salvarlo da quella situazione avversa.

Non appena fosse stato dimesso, lo avrebbero arrestato e rinchiuso in una squallida cella, per scontare il reato prolungato di spaccio e consumo di sostanze stupefacenti. Per accedere alla sua camera e conversare con lui senza destare sospetti, dovevo superare i due poliziotti che ne vigilavano l'ingresso costantemente.

Sfilai davanti agli uomini armati, mostrandomi sicura nell'uniforme da infermiera, e loro non mi bloccarono. Mi tirarono una rapida occhiata, dopodiché intavolarono un discorso in russo di cui compresi poche e sporadiche parole. Esultai internamente per la buona riuscita della missione, mentre oltrepassavo la soglia della camera ospedaliera.

La stanza era piccola e soffocante: tra le mura spoglie riecheggiavano i suoni dei macchinari che monitoravano i parametri vitali di Cheslav. Lui era disteso sulla brandina, la bocca coperta da una maschera per l'ossigeno e una flebo inserita nel braccio. I riccioli castani erano adagiati sulla fronte e le tempie; il suo colorito era cereo, di un bianco spaventoso.

Occupai una sedia posta vicino al letto e, timorosa di disturbarlo, allungai la mano per accarezzare il dorso della sua, attraversato dalle vene in rilievo. Le sue palpebre tremolavano, e ipotizzai che fosse immerso in un dormiveglia tormentato. Notai solo in quel momento che il suo polso era ammanettato al telaio della brandina, per vietargli qualsiasi tentativo di fuga.

Il contatto che instaurai con la sua pelle, seppur tenue, fu sufficiente a risvegliarlo. Aprì lentamente gli occhi, rivelando le iridi marrone scuro che tanto adoravo. La sua espressione si increspò dal dolore e un mugolio sofferente volò dalle labbra, come se avesse provato una stilettata di male intenso e acuto.

Non ci impiegò molto a incrociare il mio sguardo. Dal suo viso trapelò la confusione, nel vedermi vestita da infermiera, e forse pensò che fossi frutto di un'allucinazione. Pronunciai il suo nome in un sussurro e intrecciai le nostre dita; ero talmente contenta di rivederlo che una lacrima mi solcò la guancia, infrangendosi sulle lenzuola candide.

Cheslav, invece, non condivideva la mia emozione. Non appena realizzò che mi ero intrufolata nella sua stanza, la rabbia ottenne il controllo e ritirò la mano dalla mia stretta. Con estrema fatica, abbassò la maschera respiratoria sotto al mento, scoprendo le labbra esangui e screpolate.

«Che cosa... ci fai qui?» mi questionò, la voce gracchiante interrotta da un colpo di tosse. Tra le sillabe rauche percepii un principio di furia.

«Volevo assicurarmi che stessi bene. E avevo bisogno di chiarire con te, dato che ci siamo lasciati con una discussione in sospeso. Abbiamo poco tempo, prima che qualcuno entri e si accorga che non lavoro in ospedale.»

«Vattene o chiamo la sicurezza» mi minacciò adirato. «Non voglio sentire nulla di ciò che dici.»

«Ascoltami, ti scongiuro. Ero spaventata dall'idea di perderti, non puoi immaginare quanto mi sentissi in colpa» confessai, sul ciglio dell'ennesimo pianto. «Perché ti sei iniettato quella dose mortale, Cheslav? Che intenzioni avevi?»

«Solo... smettere di soffrire. La visita a mia madre non è andata come speravo. Mi ha cacciato da casa sua e mi ha urlato di non presentarmi più.» Si fermò per recuperare fiato, portando il palmo contro lo sterno. Era cagionevole e stremato, ma proseguì comunque. «Non vuole avere niente a che fare con me, il figlio del bastardo che era violento con lei ogni singolo giorno. Mi ha insultato come se fossi stato Hélmer. In fondo non posso biasimarla, per essere scappata dalla Colombia e avermi abbandonato con mio padre.»

«Mi pento immensamente di non essere rimasta al tuo fianco. Potrai mai perdonarmi?» gli chiesi in tono spezzato.

«Sai di cosa mi pento io, May? Che questa cazzo di overdose non mi abbia ucciso. Avrei preferito finire sottoterra» sibilò aspramente. «Mi hanno già comunicato il mio destino: la prossima settimana sarò trasferito in carcere e rischio di restarci per i prossimi dieci anni. L'alternativa è essere estradato in Colombia e seguire un percorso di riabilitazione, per poi scontare il resto della pena in prigione.» Liberò una risata intrisa di fiele, strattonando il polso circondato dalle manette d'acciaio. «Vuoi sapere i capi d'accusa? Vendita e consumo di sostanze psicotrope, tossicodipendenza, collaborazione con la criminalità organizzata. Nemmeno il migliore avvocato in circolazione riuscirebbe a difendermi. La mia vita è fottuta e tu mi chiedi se posso perdonarti

«Escogiterò un piano per aiutarti. Devi fidarti di me. Non permetterò che tu trascorra i prossimi anni in una galera di merda, né a Mosca né a Medellín» decretai, illudendomi di avere il potere e i mezzi per contrastare la giustizia.

«Vaffanculo, May. Non voglio il tuo aiuto. Ti sei comportata da stronza, mi hai usato e rimpiazzato, e non me lo dimenticherò mai. Forse c'è stato un tempo in cui ti amavo, ma ora non posso che detestarti» mi sputò addosso il suo odio velenoso. «Non scapperò, affronterò il processo e la punizione che mi spetta. Se vuoi farmi un favore, sparisci dalla mia esistenza. Magari ci rivedremo dietro le sbarre, quando la polizia assalterà Villa Zaffiro e anche tu avrai ciò che meriti.»

Posizionò di nuovo la mascherina sulla bocca, decidendo che quella breve conversazione era terminata. Ero stata nella camera per una scarsa manciata di minuti, eppure sembrò un'eternità. Osservai il mio migliore amico un'ultima volta, incisi la sua figura e i suoi lineamenti nella memoria, poi mi obbligai a dileguarmi.

Uscii dall'ospedale, accompagnata dalla consapevolezza di aver rovinato un'altra persona che amavo e priva della certezza di rivederla in futuro.

Angolo autrice

Ciao a tutti, cari lettori ♡

Come promesso, sono riuscita ad aggiornare entro il mese di agosto. Ormai l'estate sta giungendo al termine (per la mia immensa gioia), ma spero che abbiate trascorso le vacanze al meglio 🫶🏻

Tornando al capitolo, May non affronta un bel momento, dopo l'omicidio di Wera. Ha avuto un brutto litigio con Connor, che ha scoperto ciò che ha fatto e non lo accetta, e persino Danny ne è rimasto deluso. Alla fine May si rende conto dello sbaglio che ha commesso, ma sarà tardi per rimediare?

Abbiamo però una notizia positiva: Cheslav è vivo e si è salvato dal coma, anche se il suo futuro è in carcere. Purtroppo questa è stata la sua ultima comparsa, almeno fino all'epilogo della storia, quindi salutatelo per un po' 😭

È stato complicato scrivere tutti i dialoghi di questo capitolo, ma credo che il risultato sia soddisfacente. Aspetto di leggere il vostro parere!

Ci vediamo nel prossimo capitolo, dove si torna all'azione e qualcuno si farà parecchio male 🎀🎀

Xoxo <3

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