Capitolo 35

Bentrovati, readers ♡

Dato che sono passati due mesi dall'ultimo capitolo (sono imperdonabile, lo so), vi consiglio di rileggere il breve riepilogo che ho scritto all'inizio di quello precedente. In più aggiungo qualche dettaglio che dovete tenere a mente, per non perdere il filo sempre più intricato della trama:

- Seguendo Wera fino a una gioielleria e parlando con la proprietaria, May e Connor hanno scoperto che collabora con Sidorov, dato che ha acquistato un anello con un bonifico a nome dell'imprenditore;

- A fare le rappresaglie non ci sono solo i poliziotti russi, ma anche gli agenti federali americani.

Se avete dubbi, non esitate a chiedere. Buona lettura!

Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 9 dicembre 2019

Sangue ovunque.

È la prima cosa che noto. Cammino con andatura incerta lungo il sentiero della serra della Villa e mi trovo circondata dai papaveri blu coltivati tra le pareti di vetro. Non ricordo come sono finita proprio in questo luogo: percepisco una fitta nebbia che mi stordisce i pensieri, azzerando le capacità di ragionamento.

Mi sento così frastornata che dubito della concretezza della scena che si presenta tutt'intorno a me, eppure l'odore pungente è inconfondibile. Grazie alle fredde luci artificiali che illuminano l'ambiente, attribuendo all'atmosfera un velo di inquietudine, riesco a distinguere le macchie cremisi che sporcano le corolle dei fiori. Le gocce scivolano dai petali blu, formando pozzanghere sul pavimento e producendo un ticchettio che rimbomba nella serra deserta.

Non saprei spiegare da dove proviene tutto questo sangue; è uno spettacolo macabro e privo di ogni logica. Forse è un'allucinazione frutto della droga che mi avvelena l'organismo, l'unica ragione del mio attuale stato di confusione mentale. Procedo un passo dopo l'altro, ma ho l'impressione di galleggiare sulla superficie di un oceano in tempesta, sopraffatta dalle onde che lottano per affogarmi.

Giungo al centro della serra, nel punto in cui la cupola che sormonta il soffitto si erge verso il cielo notturno. Osservo l'ambiente circostante, infestato dai fiori sanguinanti che mi scrutano come occhi malevoli. Un brivido di terrore mi serpeggia lungo la schiena, un presentimento negativo che mi fa tremare le membra.

Ho la percezione che stia per accadere un evento funesto, ipotesi confermata dalla pistola che stringo tra le dita. Non rammento nemmeno di averla impugnata, ma l'arma - che un tempo apparteneva a mio padre - è ben salda nella mia mano.

«Guardami, May» mi richiama una voce fin troppo famigliare, che echeggia nell'aria con il suo timbro spettrale e gelido.

Sposto l'attenzione di fronte a me e riconosco Danny. Mi fronteggia, anche se non l'ho visto arrivare da nessuna parte, e le sue iridi limpide mi fissano con inspiegabile crudeltà. A causa dei sensi ottenebrati, ci impiego qualche secondo di troppo ad accorgermi delle condizioni pessime in cui è ridotto mio fratello: i suoi vestiti sono strappati, le braccia segnate da linee profonde da cui sgorgano copiosi rivoli di sangue, il viso stravolto e imbrattato di lacrime.

Provo ad avvicinarmi, tuttavia indietreggia spaventato. Sembra che voglia scappare da me. Perché dovrebbe? Perché mi guarda con tanta paura e ribrezzo? Vorrei rassicurarlo, dirgli che non gli farei mai del male, che lui è tutta la mia famiglia e quel poco che rimane della mia anima lacerata. Vorrei dirgli che lo proteggerò fino al mio ultimo respiro, che finché gli resterò accanto non dovrà temere nulla.

Invece... invece sollevo il braccio e gli indirizzo la pistola contro. È un gesto naturale, dettato dal puro istinto di sopravvivenza. I tentativi di ribellione adoperati dal raziocino sono inutili.

I muscoli si muovono in completa autonomia. La coscienza è paralizzata, forse addirittura morta. Non sono più in grado di comandare il mio stesso corpo, che agisce guidato dagli impulsi folli della droga. È un'entità diabolica che si impossessa della mia mente, rendendomi schiava e prigioniera. Un vuoto asfissiante mi consuma il cuore e assorbe ogni barlume di emozione.

«Perché mi hai distrutto?» mi chiede Danny, un sibilo incrinato che si disperde nel silenzio tetro della serra. «Perché proprio tu mi hai fatto questo?» Adesso la sua voce è carica di una sfumatura di astio rabbioso, il rancore incupisce le iridi. «Ti odio, May. Mi fai soltanto schifo. Sei un mostro, ma questo lo sai già.»

«Mi dispiace.» Sono le uniche parole che riesco a mormorare. Non ricordo quale azione disdicevole io abbia compiuto, ma la consapevolezza di aver rovinato la vita di Danny è innegabile. Non mi perdonerà mai e non posso biasimarlo.

Forse è per questo che schiaccio il grilletto. Per donargli la pace che gli ho strappato con il mio sbaglio peggiore.

Forse è per questo che sparo. Per salvarlo dal dolore insopportabile che gli ho provocato con le mie stesse mani.

Il proiettile gli scava un foro in mezzo alla fronte, trapassando il cranio con precisione impeccabile. Lo uccide immediatamente, senza costringerlo a un'ulteriore sofferenza. E mentre il cadavere di mio fratello si accascia sul pavimento della serra, versando altro sangue innocente in questa gabbia di fiori e fantasmi, capisco che non sarebbe potuta finire diversamente.

Non siamo destinati alla serenità, io e lui, non in questa esistenza. Non saremo mai davvero felici.

In seguito, premo la canna della pistola sulla mia tempia. È ironico pensare che l'arma di papà ci giustizierà entrambi, però è la soluzione migliore. Devo ripulire il mondo dalla mia presenza tossica: è la punizione che merito per i miei crimini irrimediabili.

Non esito un solo momento e sparo il secondo colpo. Il mio ultimo pensiero è che sono finalmente libera, mentre annego nell'oceano di oscurità e mi lascio trascinare nel vortice della morte.

Mi svegliai di soprassalto dall'incubo peggiore della mia vita. Con un scatto brusco mi misi a sedere sul materasso, scalciando il groviglio di coperte che intrappolava il mio corpo imperlato di sudore.

Portai un palmo sullo sterno, dove il cuore scalpitava furioso. Cercai disperatamente di incamerare l'ossigeno nei polmoni, ma faticavo a respirare in modo regolare e annaspavo nel tentativo di catturare l'aria necessaria per restare vigile. Due mani invisibili si erano serrate intorno alla mia gola, minacciando di soffocarmi.

Non distinguevo i contorni della camera nella quale mi trovavo, a causa della patina di lacrime che mi offuscava lo sguardo. Socchiusi le palpebre e alcune gocce salate mi scivolarono sul viso, principio di un pianto angosciante che bruciava le retine implorando di essere sprigionato.

Quell'incubo orribile mi aveva scossa a tal punto che non smettevo di tremare. Brividi gelidi e violenti mi mordevano la pelle, si arrampicavano lungo le braccia e le vertebre, come a racchiudermi nelle fauci di un mostro che rappresentava la mia paura più terrificante.

Quella di perdere mio fratello e di essere l'unica responsabile del suo dolore.

Una fitta mi lacerò il cuore, quando realizzai ciò che avevo fatto a Danny nell'universo onirico. L'ho ucciso e sono stata così codarda da ammazzarmi subito dopo. Il ricordo della sua espressione devastata dal dolore e grondante di rancore nei miei confronti - seppur nata da un'irrazionale fantasia del mio inconscio malato - mi annientava a tal punto che desiderai strapparmi gli organi. Volevo cancellare quella scena dalla memoria, invece si era incisa a fuoco nei meandri della psiche.

Dalle mie labbra volarono singhiozzi spezzati, alternati a respiri sibilanti che raschiavano le corde vocali. Mi mancava l'aria e riconobbi il sintomo di un attacco di panico incombente, con la trachea bloccata da un nodo di tensione e i polmoni vittime di un incendio appiccato dall'ansia. I pensieri sconnessi che mi bombardavano il cervello mi stavano facendo impazzire; le immagini del sogno mi perseguitavano, una tortura che si ripeteva senza concedermi tregua nemmeno un istante.

Tra tutta quella confusione mentale e quello struggimento fisico, sapevo che a salvarmi sarebbe stata solo la droga. La stessa sostanza che, nella realtà dell'incubo, mi aveva istigata a sparare a mio fratello. Quel veleno deleterio era anche l'antidoto per guarire ogni male.

«Che succede, May?» mi domandò piano Connor, la voce arrochita dal sonno interrotto dai miei movimenti repentini e dal rumore dei singulti. Percepii il calore del suo corpo alle mie spalle; adagiò la mano sulla mia schiena scoperta e con l'altra mi discostò le ciocche di capelli dal volto madido di lacrime. «Stai... piangendo?»

Non volevo che mi vedesse in quello stato pietoso, né che assistesse al tracollo emotivo che mi rendeva fragile e vulnerabile. Avevo bisogno del Sapfir, non delle carezze confortanti di Connor o delle sue parole impregnate di tenerezza.

Per quella ragione respinsi ogni suo tentativo di sostenermi, mi divincolai dal suo tocco morbido e mi fiondai giù dal letto. Continuando a tremare in modo incessante, indossai la prima felpa che trovai abbandonata sul pavimento - dedussi che fosse di Connor, visto che mi copriva fin sotto i fianchi - per attenuare il freddo che mi irrigidiva le ossa, poiché mi ero addormentata solo con la biancheria intima.

Avanzai a tentoni nella stanza di Connor, dove ci eravamo rifugiati per sfogare l'euforia passionale della sera precedente. Avevamo replicato tra quelle quattro mura il momento di intenso ardore che avevamo condiviso nella macchina, al cospetto del panorama notturno di Mosca, dopo essere scappati dalle volanti della polizia. Avevamo trascorso le ore successive al ritorno alla Villa ad alternare il sesso e l'amore, in preda alla smania irrefrenabile di possederci ancora e ancora, marchiandoci con baci roventi e impronte sulla pelle e sull'anima. Ci eravamo uniti in modo indissolubile, legati da catene di brama e sentimento.

Adesso, però, mi serve qualcosa di più forte. Qualcosa in grado di esorcizzare i demoni che si nascondono nel buio della mia testa.

Recuperai la mia giacca dalla sedia posta davanti alla scrivania, poi frugai nelle tasche con gesti frenetici. Provai un barlume di sollievo quando impugnai un sacchetto contenente la polvere blu, insieme alla cartina e al filtro inutilizzati di una sigaretta. Per fortuna, portavo sempre con me una piccola dose e un accendino, per ogni evenienza. Non potevo andare nella mia stanza, altrimenti avrei disturbato il riposo Danny o lo avrei scovato in compagnia di Seimir.

«Che stai facendo? Mi puoi rispondere?» insistette Connor, confuso dal mio atteggiamento irrequieto. Schiacciò l'interruttore dell'abat-jour per rischiarare l'ambiente e si strofinò il viso per eliminare gli strascichi della dormita. «Hai avuto un incubo? Ti agitavi nel sonno e mi hai colpito. E cosa... quella è droga?» Assottigliò lo sguardo per scorgere gli oggetti che stringevo tra le dita e i suoi lineamenti si indurirono. «Fumare quella merda non ti aiuterà, lo sai?»

Ignorai la raffica di interrogativi. Non mi importava del suo giudizio e nemmeno della sua opinione negativa riguardo alla droga, che secondo lui aveva come unico effetto quello di danneggiarmi. Non poteva capire che il Sapfir mi salvava dalle crisi peggiori, nonostante le conseguenze pericolose della sua assunzione. Era un veleno infido, ne ero ben consapevole, eppure mi teneva a galla quando rischiavo di sprofondare nell'abisso della mia stessa coscienza.

Connor non avrebbe mai compreso il duplice significato della dipendenza che mi tormentava da anni. La droga mi rendeva schiava e padrona del mio organismo: mi spingeva sul ciglio della morte, tuttavia non riuscivo a privarmi della sua capacità di rinvigorirmi. Il bisogno impellente che caratterizzava l'astinenza, anche la più breve, culminava nella pace assoluta che mi donava la tossina. La quiete si opponeva a sua volta a un malessere incurabile, che derivava sia dalla mancanza che dall'inalazione della polvere.

Era una ruota letale che girava ininterrotta, un gioco meschino in cui ero una marionetta di poco valore. Sarei diventata una delle numerose vite falciate dal Sapfir, forse in un futuro molto prossimo, ma non avevo abbastanza coraggio per rompere quel circolo nocivo.

Mi appoggiai al davanzale della finestra socchiusa; gli spifferi di aria ghiacciata contribuirono ad aumentare la sensazione di gelo che mi martoriava dall'interno. Piegai la cartina tra il pollice e l'indice, poi rovesciai la polvere blu fuori dalla bustina, non prestando troppa attenzione ai granelli eccessivi che cadevano sul pavimento. Lo step successivo era rollare la sigaretta, ma le mani tremavano così tanto che risultò impossibile stabilizzare la presa e dare forma allo spinello. Il filtro scivolò più volte, una parte di Sapfir si disperse ai miei piedi, la cartina mezza vuota si stropicciò.

Chiusi gli occhi e respirai a fondo, nel vano tentativo di sopprimere l'affanno e arginare le lacrime. Quando riaprii le palpebre, trovai Connor che mi sostava di fronte, vestito solo con i pantaloni di una tuta. Racchiuse le mie mani tremule nelle sue, morbide e calde, e mi sfilò la droga. Temetti che volesse buttare la dose, invece stupì ogni mia considerazione e fu lui stesso a creare la sigaretta di cui avevo un prostrante bisogno. Dispose ordinatamente la polvere, inserì il filtro e chiuse la cartina con precisione minuziosa, come se fosse stato il suo passatempo preferito.

Avvicinò lo spinello di Sapfir alle mie labbra e lo racchiusi tra esse, infine Connor si munì dell'accendino per bruciare l'estremità. Allargò lo spiraglio lasciato aperto della finestra, in modo da permettermi di espellere il fumo tossico fuori dalla camera. Mi sporsi oltre il davanzale e, una boccata avida dopo l'altra, consumai la sigaretta in uno scarso paio di minuti.

Le componenti della sostanza stupefacente agirono nell'immediato: il mio organismo fu vittima di una catarsi totale e si svuotò di ogni sensazione che non riguardasse la droga. I muscoli si rilassarono, la mente si liberò dell'incubo spaventoso e delle emozioni negative. Il cuore si alleggerì del peso gravoso che lo comprimeva, mentre i polmoni furono di nuovo capaci di accogliere l'aria. I crucci che mi affliggevano si dissolsero, rimpiazzati dalla temporanea pace dell'animo.

Era un effetto ossimorico, un'apparente contraddizione. Il Sapfir mi uccideva con subdola lentezza, ma allo stesso tempo mi restituiva la vita.

Decisamente più rilassata, spensi il mozzicone della sigaretta sulla superficie di marmo del davanzale e lo abbandonai lì sopra. Mi godetti la sensazione di tranquillità totale che mi distese i nervi, respirai le folate gelide che si insinuavano oltre la fessura della finestra, sigillai le palpebre per immergermi in uno stato di beatitudine. Ero anestetizzata, vittima di un torpore che formicolava sotto la pelle e rendeva il corpo insensibile agli stimoli.

Ora sì che sto bene, dopo essermi avvelenata e autoinflitta l'ennesima ferita.

«May...» Connor richiamò la mia attenzione, il tono che indugiava. «Parlami, ti prego. Mi stai spaventando.»

Puntai lo sguardo nel suo, incrociando le iridi nocciola sporcate da un alone di preoccupazione. Era ancora fermo dinanzi a me e, quando sollevò il braccio per sfiorarmi il viso con i polpastrelli, respinsi il suo tentativo di toccarmi muovendo un passo indietro. Connor ritirò la mano e il suo volto si adombrò per la delusione.

«Mi serve un po' di tempo... per riprendermi» esalai, la voce spezzata e arrochita dal silenzio prolungato. «Perché mi hai aiutata a drogarmi?» gli domandai poi, colpita da quel dubbio.

«Non è ovvio? Perché stavi male e non avevo altra scelta. Non avrei sopportato di lasciarti soffrire senza poter fare niente» spiegò, impotente e avvilito.

Il rammarico mi travolse, interrompendo l'effetto lenitivo del Sapfir, e le lacrime tornarono a gonfiarmi gli occhi. «Giuro che stavo provando a smettere... devi credermi. Ci stavo provando davvero. Solo per te, Connor, per dimostrarti che... che posso diventare una persona migliore.» Non riuscii a impedire a una goccia solitaria di cadere dalle ciglia e rigarmi la guancia. Un cappio mi serrava la gola e le parole suonavano come rantoli frammentati. «È più forte di me, cazzo. Mi sento bloccata in un tunnel e non trovo la via d'uscita.»

Azzardò ad avvicinarsi di nuovo e stavolta gli permisi di accarezzarmi lo zigomo per scacciare quella lacrima. «Non devi dimostrarmi nulla, Milady. So che non si può guarire così facilmente da una dipendenza e non pretendo che tu lo faccia da un giorno all'altro. Non ti ho mai chiesto di cambiare, perché ti ho sempre considerata perfetta, nonostante tutti i problemi che ti trascini dietro» pronunciò con tanta dolcezza da rianimare il mio cuore torturato.

«Risparmiami queste stronzate stucchevoli, non mi consolano. Sono la persona peggiore che potesse capitare nella tua esistenza» emisi una risata dal gusto amaro.

Connor scosse la testa con ostinazione, i ciuffi scuri che ricaddero scomposti sulla fronte. «Allora non sei perfetta, sei un disastro impossibile da aggiustare, ma per qualche motivo mi piaci lo stesso. Preferisci che la metta in questo modo?»

«In qualsiasi modo la formuli, non cambia la realtà dei fatti» sospirai, arrendendomi sotto al peso del macigno che mi affossava.

Nutrivo un odio viscerale nei miei confronti: io stessa rappresentavo il mio nemico maggiore, una versione crudele e spietata della vecchia me bambina, l'antieroe da sconfiggere per riscoprire l'amor proprio. Nessuno sarebbe mai stato capace di farmi apprezzare fino in fondo, neanche il ragazzo che mi aveva conquistata e di cui mi fidavo oltre ogni limite immaginabile.

Non imparerò mai ad amarmi. Non riuscirò mai a guardarmi allo specchio senza detestare il mio riflesso. Non mi perdonerò mai per il mostro che sono diventata.

«Ascoltami, May. Sono qui per aiutarti e per essere il tuo sostegno, se lo vuoi, non per incolparti. Ho deciso di starti accanto per un motivo: ho visto qualcosa, dietro la maschera che usi per proteggerti, di cui vale la pena prendersi cura.» Le sue mani mi ingabbiarono con gentilezza il volto, fissando il mio sguardo nel suo. Le sue parole erano cariche di un'intensità in grado di abbattere le mie barriere recintate dal filo spinato, quindi lo ascoltai in silenzio, incapace di proferire verbo. «Ti chiedo solo di permettermelo, senza tagliarmi fuori. Adesso ti va di tornare a letto e raccontarmi cosa hai sognato, per esempio?»

Avrei preferito evitare di rivivere quelle immagini terrificanti, ma Connor aveva ragione: dovevo concedergli l'occasione di aiutarmi, altrimenti sarei sprofondata nell'oblio. Sospirai sconfitta, arrendendomi al suo potere di persuadermi con il semplice utilizzo di frasi ben formulate. Non apprezzavo l'idea di condividere le mie paure più intime e spiegarne l'origine, eppure sapevo che con Connor ad ascoltarmi - dotato della delicatezza e della sensibilità che lo caratterizzavano - sarebbe stato meno difficile.

«Va bene, sarò diretta. Ho sparato a mio fratello e poi mi sono suicidata» spiegai di fretta, come se avessi rischiato di ustionarmi. Poi andai a sedermi sul materasso, tra le coperte spiegazzate, vittima di un capogiro dovuto alle reazioni collaterali della droga. «Ora ho una brutta sensazione, ma forse sono solo suggestionata. Sono spaventata a morte dalla possibilità di fallire come sorella e che tutti i miei sforzi per salvare Danny dalla nostra vita di merda siano inutili. È l'ultimo pezzo di famiglia che mi è rimasto, non posso concepire un'esistenza senza di lui.»

«Sarà stato terribile, ma era solo un brutto sogno. È la manifestazione della tua angoscia di perdere Danny, niente che si possa davvero realizzare» mi rassicurò, affiancandomi sul letto.

Si appoggiò con la schiena alla testiera di legno e allargò le braccia per invitarmi a rifugiarmi vicino al suo corpo. Lo raggiunsi titubante, eppure ogni accenno di insicurezza fu dileguato quando mi strinse a sé. Adagiai il capo contro il suo petto solido, provando a rilassarmi grazie alla cadenza regolare del suo battito che mi echeggiava nell'orecchio, mentre le sue mani mi sfioravano la cute in dolci carezze.

Fino a quel momento, l'unico abbraccio in cui mi ero sentita protetta era stato quello di mio fratello, oppure dei miei genitori. Connor stava compiendo l'ardua impresa di riappacificarmi l'animo, concorrendo per superare la droga in termini di benessere. La differenza tra lui e la sostanza nociva, però, era evidente: Connor non mi avrebbe procurato alcun tipo di sofferenza, né mi avrebbe condotta all'irrimediabile distruzione.

«Sai cos'è che adoro di te, Milady?» mi questionò all'improvviso. «Hai un cuore immenso e neanche te ne rendi conto. Sei disposta a sacrificarti per le persone che ami, soprattutto quando si parla di tuo fratello. Sei più altruista e buona di quel che credi. Danny è fortunato ad averti e sarebbe d'accordo con me.»

«Dammi un'altra motivazione valida per cui dovrebbe piacerti un'assassina» lo sfidai, il tono carico di prostrazione. «Io ho mille ragioni per stare con te. Sei gentile, paziente, comprensivo e intelligente. Sai sempre cosa dire al momento giusto, vedi il lato positivo anche nelle situazioni peggiori, sei determinato a ottenere ciò che vuoi senza fermarti davanti agli ostacoli. E, ancora più importante, hai abbastanza coraggio per non scappare da me.»

Gli bastarono pochi attimi per elaborare una risposta adeguata: «Perché amo la fragilità che mostri solo a poche persone e allo stesso tempo amo la tua incredibile forza d'animo, che ti spinge a lottare ogni giorno per sopravvivere in questo inferno. Amo i tuoi occhi che brillano quando guardi un'opera d'arte e i tuoi sorrisi più unici che rari. Amo il tuo essere meravigliosamente complicata e caotica, intrattabile e impossibile. Forse sembrano dei comuni difetti, ma secondo me è ciò che ti distingue dal grigiore di questo posto».

«Anche se sono una drogata del cazzo? Anche se ho stroncato delle vite innocenti?» confutai con un accenno di aggressività.

«Non hai avuto molta scelta, vivendo nel Ghetto. O combatti per sopravvivere, anche con i mezzi più violenti, oppure diventi l'ennesima vittima in questa giungla» mi giustificò.

Non potevo negare che avesse ragione, almeno in parte. La prima regola che mi era stata insegnata, quando all'età di dodici anni avevo varcato le soglie di Villa Zaffiro e avevo capito che Egor mi avrebbe trasformata nella sua arma più affilata, era la spietata legge dell'autoconservazione.

Annienta i nemici prima che annientino te. Sii sempre la prima a schiacciare il grilletto, a versare il loro sangue. Se non li ammazzi in tempo, allora ti ammazzeranno senza pensarci due volte, al minimo accenno di debolezza.

E io, quella lezione così crudele, l'avevo imparata fin troppo velocemente. Ero stata costretta a piegarmi alla forza tirannica che muoveva gli ingranaggi del Ghetto, inserendomi in quel meccanismo di morte e corruzione, oscillando tra il ruolo di carnefice e di martire.

«Il fatto che sia necessario non significa che sia anche accettabile» replicai aspramente. Dopodiché, per chiudere la conversazione e liberarmi di quelle riflessioni tormentate, aggiunsi: «Perché non proviamo a dormire?».

Connor accolse la mia richiesta e spense l'abat-jour, senza insistere sul discorso che avevamo lasciato incompleto. L'oscurità tornò a stringermi nella sua morsa angosciante, ma l'abbraccio nel quale mi ero riparata riuscì a dissipare l'inquietudine.

Fu solo per merito di Connor se scivolai in un sonno privo di incubi. Avrei voluto ringraziarlo, eppure cedetti alla stanchezza senza pronunciare un'altra parola.

Ghetto Zaffiro, 11 dicembre 2019

"Ho fatto una scoperta e ho bisogno di parlartene subito. Vediamoci da me appena leggi il messaggio. Hasta luego, niña."

Quella mattina, un paio di giorni in seguito all'incubo, mi risvegliai con una notifica di Cheslav. Una certa urgenza traspariva dalla frase che aveva scritto, motivo per cui mi sbrigai a raggiungerlo senza esitazioni.

Non incontravo il mio migliore amico da almeno due settimane, poiché ero stata troppo impegnata con le missioni assegnate da Egor, il problema della polizia nel Ghetto e... be', anche Connor aveva contribuito a distrarmi, soprattutto da quando avevamo deciso di provare a portare avanti una relazione sentimentale.

Mentre arrancavo nello strato di neve soffice che copriva l'erba del parco degli spacciatori, pensai che sarebbe stato insolito entrare nella roulotte di Cheslav non potendo concedergli il mio corpo in cambio della droga. Avrei dovuto iniziare a pagarlo con dei soldi reali, dato che il sesso non era più un'opzione valida, non se volevo mantenere la fedeltà verso Connor.

Un'altra considerazione che occupava la mia testa in modo prepotente, invece, riguardava l'ultima rappresaglia avvenuta nel Ghetto. Io e Connor eravamo sfuggiti agli sbirri e la nostra corsa ad alta velocità aveva avuto un finale più che positivo, ma non si poteva affermare lo stesso per la gioielleria della famiglia Naumov. Annika, la giovane proprietaria, era stata arrestata nell'immediato e la riserva sotterranea di metalli e pietre preziose era stata confiscata dalle autorità statali, con l'aiuto di alcuni agenti federali americani.

La perdita di tutto quel lusso rappresentava l'ennesimo colpo inferto al patrimonio di Egor, che a ogni raid diminuiva a dismisura. Il vory stava vivendo un periodo di crisi dal quale avrebbe faticato a risollevarsi, nonostante avesse già intensificato i traffici illegali che gestiva. Il business del Sapfir era ancora la sua risorsa maggiore e, finché fosse rimasto protetto, non avrebbe dovuto temere di perdere la sua ricchezza sconfinata.

Tuttavia, tra le strade fatiscenti di quel quartiere abbandonato nelle periferie di Mosca, cominciava a innalzarsi un'atmosfera di paura soffocante. Chiunque aveva il terrore di essere la prossima vittima della giustizia, di finire in una squallida prigione russa e perdere sia la libertà che la dignità. Ci sentivamo in pericolo costante, consapevoli che la fortezza inespugnabile di Egor Bayan stava lentamente crollando e gli avversari stavano conquistando il nostro territorio.

Avevo pochi dubbi riguardo al coinvolgimento di Wera, il capo delle spie, nella misteriosa vicenda. Sapevamo che era alleata con Sidorov, l'imprenditore immobiliare nemico di Egor, e che la coppia stava tramando un piano per spodestare il vory. Avevo riferito i miei sospetti a quest'ultimo e lui sembrava disposto a concedermi di indagare più a fondo, a patto di non essere precipitosa nell'accusare e punire la sua collaboratrice. Si fidava della donna con cui aveva lavorato per anni, ma si fidava anche del mio intuito.

Ero determinata a dimostrargli di avere ragione, dunque mi servivano delle prove schiaccianti contro Wera, più credibili dell'acquisto di un anello nuziale e di un bonifico a nome di Sidorov. Avrei continuato a seguire i suoi passi in attesa che ne compisse uno falso.

Arrivai dinanzi alla dimora su quattro ruote di Cheslav e bussai alla porta di metallo arrugginito. Mi lasciò per una manciata di secondi ad aspettare nel gelo invernale, poi l'ingresso si aprì e il mio migliore amico si presentò sulla soglia. Un sorriso mi nacque spontaneo, nel rivedere la sua figura allegra, con gli occhi scuri che scintillavano di incomprensibile euforia e i riccioli ribelli che accarezzavano i tratti morbidi del suo viso raggiante. Disegnava un'impronta di solarità in quel posto lugubre e freddo, una delle ragioni per cui lo adoravo immensamente.

«Grazie per essere venuta il prima possibile, Belle» mi accolse, salutandomi con un veloce abbraccio. «Dai, entra, fuori si congela.»

Non me lo feci ripetere e mi rifugiai nella roulotte, guidata dalla sua mano che mi spingeva con delicatezza dietro la schiena. La sua "casa" era decadente e rovinata, eppure mi donava una sensazione di ospitalità e calore impareggiabili. Mi spogliai della giacca e mi sedetti sul divano-letto, sforzandomi di ignorare la quantità spropositata di Sapfir che campeggiava sul tavolino di fronte ai miei occhi, tra polvere e siringhe. Mi stavo impegnando al massimo della mia resistenza per non cedere alla tentazione di drogarmi.

«Vuoi una sigaretta?» mi offrì Cheslav, affiancandomi sul divano dal rivestimento sfilacciato.

Scossi il capo in un cenno di diniego. «Di cosa volevi parlarmi, così di fretta?» lo interrogai curiosa.

Riuscii a scorgere l'esaltazione che stava trattenendo, attraverso i suoi gesti agitati e la felicità scolpita tra i lineamenti. Le sue mani tremanti afferrarono le mie in una presa salda, come se avesse avuto bisogno di un appiglio per non sbriciolarsi sotto l'emozione intensa. Rimasi in rispettoso silenzio, per concedergli il tempo di metabolizzare le sensazioni che lo scuotevano, riordinare le idee e comunicarmi la notizia.

«Stanotte mi ha chiamato mio zio Ramiro, da Medellín, e mi ha detto di avere delle informazioni riguardo mia madre. Sai che non la vedo da quando avevo neanche cinque anni, perché è fuggita dalla Colombia per tornare in Russia e non avevo idea di dove si fosse nascosta. Non ricordo nemmeno il suo aspetto, soltanto il suo nome, Magda» esordì, respirando a fondo per placare il fremito nella voce. Quando il soggetto della conversazione era la donna che lo aveva abbandonato, Cheslav veniva schiacciato dall'insicurezza. «Da qualche mese sto provando a rintracciarla, perché ho il desiderio di conoscerla meglio e di parlare con lei. Ho chiesto aiuto a mio zio e, anche se non mi aveva promesso grandi risultati, ho riposto tutte le mie speranze nella sua rete di conoscenze.»

«Cosa ha scoperto?» lo incalzai, rafforzando la stretta delle mie dita intorno alle sue.

«L'ha trovata. Ha localizzato la sua nuova casa, in un paesino di campagna a pochi chilometri da Mosca. Abita con i suoi genitori, ma ha cambiato cognome: adesso si chiama Magda Klimova.»

Un sorriso gioioso sbocciò sulle mie labbra, consapevole di quanto avesse atteso di ricongiungersi con sua madre. La sua contentezza era talmente vasta da contagiarmi. «È una notizia bellissima, Ches. Hai intenzione di andare a farle visita, nei prossimi giorni?»

«Andrò oggi stesso, devo solo procurarmi una macchina. E a tal proposito... volevo chiederti di accompagnarmi. Con il tuo supporto sarà più semplice affrontare questa situazione. Ti prego, Belle, ho bisogno di te» mi implorò, con quegli occhioni che lo rendevano simile a un cucciolo irresistibile.

«Sarò al tuo fianco, d'accordo» ridacchiai con dolcezza. Per ringraziarmi, mi intrappolò in un abbraccio che rischiava di incrinarmi qualche costola, ma non mi divincolai. Gli scombinai la matassa di capelli ricci in modo affettuoso e inspirai il suo profumo familiare. «Conta su di me. Voglio darti il mio sostegno, perché tu non mi hai mai lasciata a brancolare nella solitudine, neanche durante i miei momenti peggiori. Ti ho promesso che ti sarei rimasta accanto nel bene e nel male, e questo non cambierà mai.»

«Sei la migliore, niña. Non solo la migliore amica che potessi trovare, ma la persona migliore che potesse capitare nella mia vita. Grazie a te, tutto sembra avere un senso.» Mi sganciò dall'abbraccio per guardarmi in faccia, le iridi marroni sature di un'emozione incontenibile. «Te quiero hasta la locura, cada día más

Il suo palmo aderì alla mia guancia e mi accarezzò piano il viso, come se avesse temuto di compiere un gesto errato. Io ero paralizzata dal suo sguardo impetuoso, perché l'ultima volta che mi aveva osservata così era stato anni prima, quando il nostro rapporto si era quasi spezzato a causa dei suoi sentimenti non ricambiati. Ero spaventata dal significato ignoto di quella frase, dalla possibilità di deluderlo e di allontanarlo di nuovo.

Avrei dovuto respingerlo con più prontezza, eppure lo capii solo l'istante successivo. La mia indecisione fu per lui l'opportunità giusta di accostare le nostre labbra, fino a coinvolgermi in un bacio improvviso. Forse si era lasciato trasportare dall'eccitazione del momento, forse le mie parole avevano risvegliato delle sensazioni sepolte, o forse non aveva mai smesso davvero di amarmi.

La mia unica certezza era che si trattava di uno sbaglio madornale. La sua bocca sfiorò la mia per un misero secondo, poi rinsavii dallo stato confusionale in cui ero piombata e piantai le mani sul suo petto per staccarlo da me. Cheslav non oppose resistenza e lo spinsi via con una durezza che non gli avevo mai riservato, dato che in svariate occasioni gli avevo permesso di toccare il mio corpo come preferiva.

Ma non stavolta. Ora è cambiato tutto. Niente sarà più come prima, tra noi due, e me ne sto rendendo conto troppo tardi.

«Scusa, mi sono fatto prendere dalla felicità. Avrei dovuto chiederti se avevi voglia» pronunciò dispiaciuto, gli zigomi accaldati da un rossore innocente. Non risposi, trincerata nel mutismo e nello sconcerto, e ciò preoccupò il mio migliore amico. «Non ti ho infastidita, vero? Ormai dovremmo essere abituati a baciarci. Lo abbiamo fatto un milione di volte.»

«Cheslav,» mormorai lapidaria, «non deve succedere mai più.»

Assunse un cipiglio frastornato. «Era un semplice bacio, che problema c'è? Mi sono scusato.»

«Il problema è che... non devi più baciarmi né toccarmi in quel modo. Dobbiamo terminare qualsiasi cosa ci sia stata tra noi, perché adesso... sto insieme a Connor» confessai, il tono debole e tentennante. «Sarai sempre il mio migliore amico, ma senza superare questo confine. Spero che tu possa capire. Non te ne ho parlato prima perché è accaduto inaspettatamente e sto ancora provando a farci l'abitudine.»

«Tu e Connor... state insieme» sibilò dopo un lungo minuto di sbigottimento, ma suonava più come un'affermazione che come un quesito. «Significa che è il tuo ragazzo? Tu, May Holsen, colei che rifiuta l'amore e le relazioni... ti sei fidanzata e non hai avuto nemmeno la decenza di farmelo sapere?» Mi fissò come se avesse avuto una sconosciuta davanti, un'intrusa nella sua dimora, e dalla sua voce trasudava un misto di rabbia e desolazione. «Sono diventato così insignificante, per te? Mi hai escluso dalla tua vita fino a questo punto?»

«No, Cheslav, non è vero. Ascoltami, per favore. Niente di ciò che è successo tra me e Connor era programmato o previsto. Ho provato a resistere all'attrazione per mesi, ma poi ho capito che la sua presenza non mi era indifferente e... non lo so, cazzo, credo di essermi innamorata

Quella parola volò dalle mie labbra in un sussurro impulsivo; era la prima volta che la pronunciavo in diciannove anni e aveva un sapore dolceamaro. Strofinai le mani sul volto e strattonai le ciocche di capelli, per sfogare il nervosismo dilagante, originato dalla consapevolezza di aver appena rovinato l'amicizia con Cheslav.

Era una verità innegabile; sarebbe stato difficile ricucire lo strappo. Pregai che quello non fosse un addio definitivo e che avremmo trovato una soluzione al disguido, anche se avevo irrimediabilmente tradito la sua fiducia.

«Ogni volta che mi hai ripetuto che non ti saresti mai innamorata di me, a causa del tuo passato e della tua incapacità di provare emozioni... stavi mentendo? Era una fottuta bugia per non illudermi? Mi hai solo usato per il tuo piacere personale e per la droga, mentre io speravo inutilmente che un giorno avresti ricambiato il mio amore?»

Il senso di colpa mi frantumò l'anima, scorgendo i suoi occhi inondati di lacrime che reprimeva a fatica. Avrei voluto rassicurarlo e ribadirgli quanto in realtà lui fosse importante per me, tuttavia non ebbi il coraggio di difendere la mia posizione.

«Ci conosciamo da anni, May. Sono sempre stato il tuo confidente e la tua spalla, ci siamo aiutati a vicenda a sopravvivere nel Ghetto, abbiamo condiviso ogni gioia e ogni dolore» continuò, ma i singhiozzi del pianto bloccarono il suo monologo. Le gocce salate gli scivolarono dalle ciglia e le cancellò con gesti furiosi. «Pensavo che non ti sentissi pronta a dare il tuo cuore a nessuno, dopo tutto quello che hai dovuto sopportare, ma a quanto pare mi sbagliavo. Il vero problema è che io non sono abbastanza per te. Ci hai messo poco a rimpiazzarmi con il primo ragazzo che ti è capitato, e vorrei tanto comprenderne il motivo.»

«Non sei inferiore a Connor. Ho una storia diversa con entrambi, ma tengo a voi allo stesso modo. Lui ha stravolto la mia visione del mondo e mi ha fatto provare emozioni che credevo fossero morte da tempo. Però tu, Cheslav, sei stato il primo a farmi sentire davvero apprezzata. Te l'ho detto prima: sei il mio migliore amico e questo non cambierà mai.»

Appoggiai la mano sul suo braccio per confortarlo, ma si distaccò come se lo avessi bruciato. La sofferenza che gli aveva distorto il viso, sopprimendo la contentezza e la giovialità, era da attribuire al mio comportamento meschino. Aveva tutte le ragioni per detestarmi.

«Vaffanculo, May. Non ti sei ricordata neanche che oggi è il mio compleanno. Come puoi considerarti la mia migliore amica o dire di tenerci a me?» proruppe, e quella rivelazione mi colpì con la violenza di uno schiaffo. «Esci da qui e torna dal tuo fidanzato, dato che hai riservato ogni attenzione a lui e ti sei dimenticata di ciò che abbiamo costruito. Sei proprio brava a distruggere tutto ciò che tocchi, complimenti» sputò parole intrise di fiele e cattiveria, furioso come non l'avevo mai visto. «Vattene e non farti vedere per un po', è un consiglio. Non c'è bisogno che mi accompagni da mia madre.»

«Cheslav...» tentai di richiamarlo, ma era irremovibile e i suoi lineamenti sfoggiavano una durezza imperscrutabile. «Magari per te non vale niente, ma sappi che ti voglio bene e che mi dispiace da morire. Sia per l'assenza degli auguri, sia per la situazione con Connor. Non sarebbe dovuta andare così.»

Sospirai sconfitta e mi alzai dal divano, poi indossai la giacca con l'intenzione di acconsentire alla richiesta di sparire dalla sua visuale. Mi trascinai fino alla porta, rallentata dal macigno che si era deposito sul cuore, e impugnai la maniglia di metallo. Tuttavia, a impedirmi di uscire fu proprio la sua voce, che rimbombò un'ultima volta nelle mie orecchie.

«Ho accettato per anni che non mi amassi quanto ti amavo io, ma non posso più accettare di essere la tua seconda scelta» concluse la discussione con freddezza incisiva.

Non avevo nient'altro da dichiarare. Abbandonai la roulotte e mi lasciai indietro il mio migliore amico, insieme ai cocci di quel rapporto sparsi nel parco innevato.

Non appena ero rientrata a Villa Zaffiro, il primo istinto fu di confessare a Connor cosa era accaduto con Cheslav, soprattutto riguardo al bacio che mi aveva rubato contro la mia volontà. Meritava di conoscere i fatti e non provai nemmeno per un secondo a nascondere la mia colpevolezza, rivelando che avevo esitato troppo a scostarmi dal colombiano.

Connor reagì come suo solito, con estrema pacatezza: fu ragionevole e comprensivo, non dubitò affatto della mia lealtà e, invece, si preoccupò maggiormente delle dinamiche del litigio. Gli ribadii che la causa principale non era la nostra relazione, ma la mia negligenza involontaria nei confronti di Cheslav. Lo avevo trascurato e sfruttato, giocando con i suoi sentimenti, senza curarmi di aggiornarlo sulla nuova piega della mia vita.

Secondo Connor, avremmo risolto presto quel conflitto. A detta sua era una questione di tempo, necessario per attenuare la collera e il disappunto. Ogni cellula del mio corpo sperava affinché avesse ragione, perché già percepivo l'insopportabile lontananza di Cheslav. Non mi mancavano lo spacciatore e la droga gratuita, ma il mio amico insostituibile e la sua allegria che rischiarava le mie giornate tetre.

Non riuscivo a scacciare quel pensiero, che mi tormentava persino durante la serata che stavo trascorrendo nella biblioteca della Villa insieme a Connor, Danny e Seimir. Da alcune settimane avevamo preso l'abitudine di riunirci in quell'angolo di serenità, per condividere qualche ora di spensieratezza e risate in comune. Si poteva definire come una specie di doppio appuntamento.

Mio fratello era immerso nella lettura di un libro, rannicchiato sulla poltrona con una spessa coperta di lana ad avvolgerlo, e gli altri due ragazzi si stavano sfidando con delle carte francesi, seduti sul pavimento di legno dinanzi al camino acceso. Il crepitio del focolare creava un'atmosfera rilassante, unito al sottofondo delle chiacchiere, eppure non era sufficiente a distrarmi dai miei crucci interiori.

«Vuoi fare una partita con noi, Milady?» provò a coinvolgermi Connor, spostando lo sguardo dalle carte a me. Nelle sue iridi, dietro alle lenti degli occhiali, si specchiavano le luci soffuse della biblioteca.

Stavo per rispondere che non ero dell'umore giusto per giocare, ma a interrompermi fu il rumore sordo della porta che venne spalancata all'improvviso. Ci voltammo tutti nella direzione dell'ingresso, che Larysa valicò a passo celere. Camminava spedita verso di noi, costeggiando le imponenti librerie colme di volumi, e si fermò proprio davanti a me.

«Perché cazzo non mi hai risposto? Ti ho chiamata dieci volte e ti ho scritto almeno cinquanta messaggi. Ho provato ad arrivare qui il prima possibile» esordì con tono grave. Il suo respiro era affannato, come se avesse corso per raggiungermi, e gli occhi celesti erano spalancati dal panico allarmante.

Frugai nelle tasche della felpa, senza trovare il mio cellulare. «Ho lasciato il telefono in camera. Cos'è successo?» le domandai seccata, mostrandomi ostile nei suoi riguardi.

Non tolleravo che mi rivolgesse la parola con tanta semplicità, dopo gli screzi che ci avevano separate. Realizzai solo in quel momento di aver perso i miei due migliori amici e di aver litigato con entrambi, a distanza di appena un mese. Era una constatazione dolorosa, ma soppressi qualsiasi accenno di malinconia.

«È Cheslav...» comunicò, catturando subito la mia attenzione. Mi intimorirono la sua espressione di sofferenza e la fatica con la quale pronunciò la seguente frase: «Gli sbirri hanno invaso il parco delle roulotte e hanno arrestato tutti gli spacciatori che si trovavano lì, oltre a sequestrare chili di droga».

Scattai all'in piedi e aggirai il divano per fronteggiarla. «Dove cazzo è Cheslav?» sbraitai, divorata dall'ansia che mi accelerava i battiti. «Lo hanno... portato in prigione?»

Quell'ipotesi era catastrofica, però non ero affatto pronta alla verità di cui Larysa mi informò l'attimo successivo. La raffigurai come una bomba che detonò dentro di me, incenerendo ogni brandello di anima in un vortice di fiamme mortali.

«No, May. Lo hanno trovato in stato di overdose.»

Angolo autrice

Buona domenica, forse non più molto "buona" dopo questo capitolo... Vi avevo avvisati che sarebbero iniziate le tragedie, e non avete ancora letto niente di ciò che vi aspetta.

Andiamo per ordine. Nella prima parte c'è l'incubo di May, abbastanza preoccupante per quanto riguarda Danny. Ho lasciato alcuni indizi nella descrizione del sogno e dettagli che torneranno in futuro, perché ormai sapete che non scrivo niente a caso.

Poi, dopo un momento di dolcezza con Connor, abbiamo il litigio di cui vi accennavo su IG. Cheslav è contento di aver rintracciato sua madre, ma la felicità viene rovinata quando scopre della nuova relazione di May. Sappiamo bene che lui è sempre stato innamorato di lei, quindi potete immaginare il suo dolore 💔

E infine scopriamo che Cheslav è vittima di un'overdose, oltre al fatto che la polizia ha preso il territorio degli spacciatori. Questi eventi segneranno profondamente il corso della storia e le conseguenze ci saranno già nel prossimo capitolo. Preparatevi al desiderio di vendetta di May e alla sua disperazione...

Cosa pensate che succederà? Cheslav riuscirà a salvarsi? Egor perderà definitivamente il suo impero?

Non insultatemi troppo, grazie. Ricordate che la situazione può sempre cambiare, che sia in meglio o in peggio 👀

Alla prossima! Xoxo <3

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Traduzioni:

Te quiero hasta la locura, cada día más= ti amo da impazzire, ogni giorno di più

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