Capitolo 34
I'm back ✨️✨️✨️
Come al solito, vi lascio un piccolo riepilogo e un paio di info prima di leggere il capitolo:
• Abbiamo scoperto che Sidorov (l'imprenditore immobiliare nemico di Egor) collabora con l'FBI, a cui suggerisce delle informazioni per chiudere le attività del Ghetto;
• Egor sospetta che ci sia una talpa tra i suoi collaboratori, responsabile delle denunce alla polizia;
• May ha dei dubbi riguardo Wera, il capo delle spie di Egor, e decide di tenerla d'occhio.
Preparatevi alla lettura, perché sarà spericolata e intensa (in ogni senso).
Vi suggerisco delle canzoni che rispecchiano le vibes del capitolo: Getaway Car / I Know Places / So It Goes... di Taylor Swift, Slow Down dei Chase Atlantic, Breakin' Dishes di Rihanna.
Ci ritroviamo nello spazio autrice 👀
Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 8 dicembre 2019
«Dov'è finita quella stronza? L'ho persa di vista» esclamai in preda al nervosismo. Battei il palmo sul volante per sfogare la tensione accumulata.
«È entrata in quel vicolo. Parcheggia la macchina e proseguiamo a piedi» suggerì Connor, scrutando fuori dal finestrino. La sua serenità contrastava con il mio atteggiamento irascibile.
Stavamo seguendo gli spostamenti di Wera, la sovrintendente delle spie personali di Egor, già da qualche giorno. Era stata Larysa a indirizzare le indagini su quella pista, instillando in me un principio di dubbio nei confronti della donna, durante la nostra ultima conversazione. Wera era uscita dalla Villa a sera inoltrata e si era diretta con la propria macchina verso la zona commerciale del Ghetto, dove erano situate le attività illegali da cui Egor guadagnava parte delle sue ricchezze.
Io e Connor, rimasti vigili e guardinghi con l'intento di pedinarla, ci sbrigammo a salire su una delle automobili del vory - nientemeno che una Porsche nera dai cerchioni dorati appariscenti, in perfetto stile Bayan - e imboccare la stessa strada della nuova sospettata, ma guidando a debita distanza per non rischiare di essere scoperti.
Ascoltai il suggerimento di Connor e accostai la macchina sul ciglio della carreggiata, dal lato opposto rispetto a dove aveva parcheggiato Wera. Spensi il motore e i fari, così il manto del buio calò intorno a noi, inframmezzato solo dalla luce debole dei pochi lampioni. Scendemmo dal veicolo e, fianco a fianco, ci incamminammo nella via secondaria dove era sparita la donna. Sarebbe stato saggio proseguire con lentezza, per non incontrarla, tuttavia la mia impazienza era difficile da contenere.
Smaniavo di cogliere in flagrante il capo delle spie, per vendicarmi personalmente dell'ultimo tiro che mi aveva giocato. Era stata lei ad additarmi come la traditrice del Ghetto, settimane prima, ed Egor le aveva creduto al punto da picchiare a sangue mio fratello per punirmi in modo indiretto; un castigo più doloroso da sopportare di una serie di batoste, perché assistere alla sofferenza di Danny era sempre stata la mia condanna maggiore.
In quel momento, i ruoli si sarebbero invertiti: io avrei accusato Wera e gliel'avrei fatta pagare per quell'episodio. Perché la sua colpevolezza risultasse veritiera, però, necessitavo di una prova schiacciante da consegnare a Egor. Era lo scopo della missione notturna in cui Connor mi aveva accompagnata, ormai diventato il mio partner insostituibile nei crimini che effettuavamo.
Gli dedicai una breve occhiata: con il cappuccio della felpa calato in testa e la giacca pesante a coprirlo dal freddo tagliente di dicembre, risultò arduo scorgere le sue fattezze. Il mio abbigliamento era simile, con una sciarpa a celarmi la parte inferiore del volto e gli scarponi che affondavano nello strato di neve che rivestiva l'asfalto. Non era consigliabile lasciare impronte durante una missione di spionaggio, ne ero consapevole, ma quasi nessuno osava aggirarsi tra le strade del Ghetto dopo l'ora del tramonto, a eccezione delle prostitute e degli spacciatori.
«Ha svoltato a destra» mi comunicò Connor, la voce ridotta a un sussurro che si disperse nell'aria gelida. «Dove si trova la gioielleria di cui ti ha parlato Larysa?»
«Proprio in quella direzione» affermai. «Aspettiamo che se ne vada, così possiamo entrare e interrogare Annika, la ragazza che gestisce l'attività. Forse ha qualche informazione utile da riferirci.»
«Sicura che sia una buona idea? Le due potrebbero essere alleate» ipotizzò Connor, non convinto del mio piano.
«Annika non ci guadagnerebbe niente, nel cospirare contro Egor. La sua famiglia fa parte di una banda della mafia estone che collabora con il Ghetto da prima che nascesse. Hanno un accordo basato sul traffico di gioielli contraffatti e rubati, oltre a una riserva di metalli e pietre preziose da spartirsi. La polizia confischerebbe tutto, quindi ci perderebbero entrambi.»
Connor si limitò ad annuire, in segno di conferma. Continuammo ad avanzare lungo il vicolo dalle pareti soffocanti e diroccate, con il tanfo della spazzatura che impediva di respirare. Mi sembrò di udire in lontananza il rimbombo di uno sparo e delle urla, ma non me ne curai troppo: le aggressioni e gli omicidi erano all'ordine del giorno, in quel quartiere dimenticato dal mondo.
Le strade erano sporche quanto l'anima delle persone che abitavano nelle catapecchie dismesse, marce fino al midollo, abbandonate alla povertà e destinate a un'esistenza tinta di sangue. La vita era pessima, nel Ghetto, eppure la popolazione locale era ben radicata e non sarebbe fuggita, perché l'influenza di Egor era una forza incontrastabile che dominava chiunque.
Siamo tutti i suoi schiavi, dal primo all'ultimo, e non ci concederà mai la libertà.
Non appena girammo l'angolo, davanti ai nostri occhi si palesò l'insegna di legno sbeccato della gioielleria, camuffata per apparire come un semplice negozio di vestiti logori di seconda mano. La facciata rovinata nascondeva i tesori inestimabili custoditi nel sotterraneo, una delle riserve più cospicue di Egor. Ci rintanammo nello spazio tra due edifici, in attesa che Wera uscisse dal negozio e fosse stato sicuro procedere.
Io e Connor eravamo stretti, i corpi in tensione che si sfioravano, e mi costò un enorme sforzo di autocontrollo reprimere gli impulsi che ardevano nelle vene. Lui notò che mi ero irrigidita e un sorrisetto candido gli incurvò le labbra; allungò un braccio per cingermi il bacino e attirarmi al suo torace, trasmettendomi calore. Posò le labbra sulla mia mandibola, scostando l'orlo della sciarpa ingombrante, e il suo respiro tiepido mi solleticò il volto.
«Sai cosa non mi piace dell'inverno? Che sei troppo coperta per i miei gusti, Milady, ma è meglio evitare che tu muoia di ipotermia» sibilò al mio orecchio in tono scherzoso e provocatorio. «Spero che mi darai il permesso di rimediare a questo problema, quando torneremo alla Villa.»
«Non ti serve il permesso per togliermi i vestiti, idiota» lo canzonai. «Mi piace quando ti comporti da gentleman, ma preferisco quando sei meno delicato nel toccarmi, se capisci cosa intendo.»
«Forse dovrei fare un altro po' di esercizio per affinare la tecnica, non sei d'accordo?» bisbigliò suadente.
Finsi di riflettere sulla proposta, mentre gli accarezzavo le spalle e mi premevo contro il suo petto ampio. «La tua tecnica mi era sembrata più che accettabile, ma hai ragione, un po' di esercizio non guasta. Anzi, lo apprezzerei molto.» Gli scoccai un bacio fuggente sulle labbra screpolate dal vento gelido. «Adesso, però, restiamo concentrati sull'obiettivo.»
Il mio sguardo si dedicò di nuovo a ispezionare l'ingresso della gioielleria, sul quale Wera fece la sua comparsa, appena una decina di minuti più tardi rispetto a quando era entrata. Uscì dal negozio e, dopo aver studiato rapidamente i dintorni, si immerse a testa china nella coltre notturna; notai la presenza di una sacca di tela sfilacciata che pendeva dalla sua spalla. Aspettammo che si distanziasse dalla nostra posizione, prima di camminare fuori dal nascondiglio e avvicinarci al negozio.
Spinsi il portone a vetri, facendo suonare una campanella arrugginita che annunciò l'arrivo di nuovi clienti, e varcai la soglia con Connor al mio seguito. La gioielleria, di primo impatto, sembrava un outlet scadente che offriva poca scelta di abbigliamento: cumuli di stracci erano accatastati tra gli scaffali e nei cestini di metallo, senza alcuna cura nell'esposizione. Nessuno si sarebbe azzardato a scavare in quel caos, o meglio, nessuna persona comune.
Infatti, era una maschera per ingannare i malcapitati che si addentravano nel quartiere. I residenti del Ghetto che conoscevano la reale attività della famiglia Naumov, invece, erano consapevoli di trovarsi sopra a una miniera d'oro e diamanti. Nonostante questo, solo una manciata di collaboratori di Egor poteva vantare l'onore di acquistare e vendere gioielli preziosi, grazie al salario concesso dal vory per ripagare il nostro lavoro sporco.
«Come posso aiutare i sicari di Egor Bayan?» La voce melliflua di Annika, la proprietaria del negozio, ci accolse. «Vi avverto che tra poco chiuderò i battenti, quindi siate veloci.»
La ragazza restò dietro al bancone, dove era posizionato un registratore di cassa antiquato, con i gomiti appoggiati alla superficie del ripiano. Eravamo coetanee, ma il fisico pronunciato e il viso truccato in modo impeccabile la facevano apparire di qualche anno più grande. La chioma di riccioli biondi era legata in una coda e gli occhi chiari ci osservavano con interesse, soffermandosi in particolare sulla figura di Connor, probabilmente un estraneo per lei.
«Non siamo qui per i gioielli. Dobbiamo farti un paio di domande riguardo la donna che è entrata prima di noi» puntualizzai subito.
«Wera? Cosa volete sapere?» replicò confusa. Il suo accento estone era a malapena udibile.
«Ha frequentato spesso il negozio nell'ultimo periodo? Stasera ha acquistato della merce?» la inquisì Connor, con la sua praticità che non si smarriva in futili preamboli.
«Ha soltanto ritirato dell'oro e alcuni oggetti di valore. Si è presentata con un assegno firmato da un certo Sidorov, se ho letto bene.» Si interruppe per alcuni secondi, rammentando i dettagli dell'incontro con Wera, poi aggiunse: «Ora che ci penso meglio, ha comprato un anello molto costoso. Le ho chiesto se avesse uno spasimante o un compagno, per curiosità, e ha risposto che tra poco se ne sarebbe finalmente andata via dal Ghetto. Non ho capito cosa intendesse dire, ma ho lasciato perdere».
Ogni muscolo si paralizzò e i miei sensi scattarono sull'attenti, quando pronunciò il nome di Sidorov. Io e Connor ci scambiammo un'occhiata eloquente, che esprimeva la stessa consapevolezza: Wera conosceva l'imprenditore immobiliare nemico di Egor, che collaborava con l'FBI e che avevamo seguito a Nizhny Novgorod; forse i due erano addirittura amanti, oltre che alleati. Quell'informazione ribaltava la prospettiva dell'indagine e inseriva un tassello fondamentale, che senza ombra di dubbio ci avrebbe condotti alla soluzione. Stavamo percorrendo la pista giusta alla caccia della talpa del Ghetto, ormai ne ero sicura.
«Grazie per l'aiuto.» Connor rivolse un cenno riconoscente a Annika, in seguito controllò l'orologio appeso al muro. «Adesso togliamo il disturbo. Si è fatto tardi.»
«Non avere fretta» lo ammonii. «Puoi mostrarci l'elenco delle firme dei clienti?» domandai alla ragazza.
«Non potrei, ma farò un'eccezione perché non voglio mettermi contro l'assassina fidata del capo. Seguitemi» ci incalzò, voltandosi per aprire una porta dietro al bancone.
Non me lo feci ripetere e, senza perdere tempo a indugiare ancora, mi incamminai nella stessa direzione di Annika. Lanciai uno sguardo interrogativo a Connor, che invece esitò e rimase impalato davanti all'ingresso del negozio. Anche se non riuscì a diradare il sottile velo di preoccupazione che gli copriva i lineamenti, non protestò e decise di raggiungerci, trattenendo l'inquietudine - secondo la mia opinione - immotivata. Che cos'era che gli procurava timore?
Oltre la soglia della porta, Annika cominciò a scendere una scalinata di gradini marmorei che conduceva fino al piano interrato, il cuore pulsante del traffico illegale della famiglia Naumov. La rampa terminò in un corridoio angusto e lugubre, dalla scarsa illuminazione, che a sua volta si interrompeva in un vicolo cieco. Al limitare sorgeva un battente di ferro blindato, la cui serratura era resa inespugnabile da un complicato meccanismo. Annika inserì un codice segreto, schiacciando i pulsanti del tastierino digitale installato sul margine della porta, e ruotò un ingranaggio della serratura; in seguito a uno stridio metallico e a uno scatto rumoroso, spinse il battente per liberare l'accesso al caveau della gioielleria.
Lo spettacolo che si presentò di fronte ai nostri occhi fu tanto incredibile quanto accecante: le vetrine, disposte lungo tutte le pareti, custodivano monili scintillanti che variavano da collezioni di gemme rare a intere parure di diamanti, che brillavano sotto le luci calde dei faretti. Il deposito era tappezzato di gioielli luccicanti, di ogni tipologia e forma, accumunati solo dall'inestimabile valore conferito dai materiali preziosi che li componevano. Individuai una fila di lingotti d'oro, catene d'argento puro, i colori sgargianti delle pietre più ricercate al mondo incastonate nelle collane e i girocolli, i bracciali e gli orologi, gli orecchini e gli anelli.
Eravamo al cospetto di uno scrigno del tesoro sontuoso, una cassaforte di ricchezze sgargianti che chiunque avrebbe bramato, anche in minima parte. Mi meravigliai del fatto che una miniera di lusso così cospicua si nascondesse tra le radici delle fondamenta del Ghetto, un angolo di estremo splendore e sfarzo che contrastava con la povertà del quartiere lurido. Due universi paralleli, uno di proprietà del boss e l'altro abitato dai suoi servitori non ripagati. Ritenni ingiusto quell'equilibrio disomogeneo: da un lato c'era il tutto, simbolo di potere e prestigio, e dall'altro il niente siderale.
«Puoi farci vedere velocemente l'elenco?» Connor affrettò i gesti di Annika, la quale si sbrigò a recuperare un fascicolo rilegato in pelle, appoggiato sopra a un tavolino nell'angolo del caveau.
Mentre sfogliava le liste colme di dati anagrafici scritti in diverse calligrafie e di informazioni relative agli acquisti dei clienti, intavolò una conversazione con lui: «Sei un nuovo sicario, vero? Non ricordo di averti visto in giro, prima di oggi. Come ti chiami?».
«Non sono affari tuoi» risposi al posto di Connor, il tono brusco. «Facci vedere questa firma, così possiamo andarcene.»
Le sue occhiatine languide verso il mio partner non mi erano di certo passate inosservate. Conoscevo Annika da abbastanza tempo per confermare la sua fama di seduttrice spietata, che amava particolarmente attirare gli uomini impegnati in altre relazioni. La sua spudoratezza si confondeva dietro all'espressione innocente, ma sapevo che Connor non si sarebbe mai lasciato abbindolare da un bel viso.
«Sei sempre più simpatica e amichevole, Holsen» mi rispose stizzita, riservandomi un breve sguardo accigliato. Non sprecai ossigeno per risponderle, dunque proseguì in silenzio con la ricerca, finché non si imbatté nella sezione che ci serviva. «Ecco, guardate. Qui ci sono i codici degli ultimi prodotti venduti nella categoria dell'oro, il nome del compratore e la rispettiva firma. Scattate pure una foto, se dovete mostrarla a Egor.»
Eseguii quanto suggerito, afferrando il telefono per immortalare la pagina. Riuscivo a tradurre solo alcune frasi in russo, grazie alle lezioni private di Connor, tuttavia molti significati mi sfuggivano ancora. Avremmo analizzato quella nuova prova con più attenzione appena saremmo rientrati alla Villa.
«Grazie,» le disse Connor, «ora ti lasciamo chiudere il negozio in pace.»
Annika gli regalò un sorriso stucchevole da voltastomaco. «Torna quando vuoi, mi raccomando, non mi muovo mai da qui.»
«Ne sei proprio sicura?» ribatté Connor, l'ombra di un ghigno astuto che gli incurvava le labbra. Non capii subito a cosa si riferisse, con quella domanda strana.
«Sì, dorogoy, fidati» rispose la ragazza, civettuola. L'irritazione mi bruciò il sangue, nel sentire quel "tesoro" pronunciato con fin troppa confidenza e malizia. Se non avesse finito di comportarsi da oca sdolcinata, non mi sarei più controllata e l'avrei aggredita in quell'esatto istante, strappandole i riccioli biondi uno dopo l'altro.
Ma starò calma, lo giuro. Calmissima. Non vale la pena commettere un omicidio in mezzo a tutto questo lusso. Sarebbe un peccato macchiarlo di sangue.
«Va bene, abbiamo finito. Grazie e arrivederci» tagliai i convenevoli, incamminandomi verso l'uscita del caveau.
Connor scattò al mio seguito, mentre Annika sigillava la serratura della porta blindata; risalimmo al piano dove sorgeva il negozio d'abbigliamento scadente. Non mi degnai di salutare la proprietaria, ma mi voltai per superare l'ingresso e abbandonare il posto. L'aria ghiacciata intrappolò di nuovo me e Connor nella sua morsa, non appena ci ritrovammo all'esterno, e i fiocchi di neve che avevano cominciato a scendere dal cielo ci volteggiarono intorno.
Superammo i vicoli disagevoli e le abitazioni logore, finché non tornammo davanti alla macchina. Stavolta fu Connor a occupare il sedile del guidatore e io ad affiancarlo come passeggera. Il mio cipiglio di fastidio non gli passò inosservato, a giudicare dalla risatina che rotolò dalle sue labbra, una volta che ci ritrovammo da soli nella vettura.
«Sai che amo la tua gelosia, Milady? Però ti chiedo cortesemente di non compiere nessun omicidio per marcare il territorio. Non sentirti minacciata da nessuno, perché appartengo solo a te, hai capito?»
Quelle parole mi procurarono una contrazione violenta al cuore e allo stomaco, a causa dell'emozione intensa che suscitarono; un sorriso nacque spontaneo sul mio volto. Mi piaceva l'idea che si considerasse mio, tanto quanto io mi consideravo ormai sua.
«Ho avuto anche troppo autocontrollo» replicai, per mascherare quel principio di felicità irrazionale. Mi sentivo libera di esprimere il mio stato d'animo davanti a Connor, ma preferivo evitare di cadere nel romanticismo. Dovevo ancora farci l'abitudine, ad avere un ragazzo che non fosse una mera valvola di sfogo, piuttosto una persona che aveva deciso di restarmi accanto nonostante le mie problematiche.
«Lo apprezzo davvero» mi lusingò, intanto che accendeva il motore e azionava il riscaldamento, per disperdere l'aria fredda dell'abitacolo. «Comunque, ripeto, non devi preoccuparti. Non mi interessa Annika da nessun punto di vista. E ho l'impressione che tra poco sparirà dalla circolazione.»
Mi girai a guardarlo, disorientata dal tono fiducioso con cui aveva pronunciato quella constatazione. «Da cosa lo deduci? L'attività dei Naumov è fondamentale per Egor. Non sognerebbe mai di sbarazzarsi di loro.»
A impedirgli di fornirmi una spiegazione, fu uno squillo sordo e continuato che all'improvviso esplose tutt'intorno. Il respiro mi si bloccò e un'ondata di terrore mi travolse, quando identificai la natura di quel suono molesto: erano le sirene inconfondibili delle volanti della polizia.
«Oh, cazzo!» imprecai ad alta voce. Connor era diventato una statua di marmo, pallido e pietrificato con le mani sui comandi della macchina. In preda a una scarica di panico che riattivò ogni funzione del cervello, gli artigliai il braccio per scuoterlo dal torpore dello sgomento. «È un'altra rappresaglia. Dobbiamo andarcene subito!»
La mia esclamazione allarmata risvegliò i suoi sensi, che tornarono vigili e scattanti. Accantonò la paura e si sbrigò a uscire dal parcheggio, per poi immettersi nella strada. Non poteva aumentare la velocità per colpa degli ostacoli che intralciavano la via e quell'impedimento diventò un vero problema quando, sporgendomi per osservare lo specchietto retrovisore, scoprii che una vettura bianca e blu ci stava inseguendo a sirene spianate.
Ci hanno presi di mira. Siamo fottuti.
«Abbiamo gli sbirri alle calcagna» lo informai con voce carica di urgenza. «Dobbiamo seminarli. Non possiamo farci prendere, oppure ci sbatteranno in qualche lurido carcere russo e dopo ci spediranno negli Stati Uniti per farci condannare all'ergastolo, se non addirittura a morte» esalai le ansie che mi attanagliavano. «Non guidare verso la Villa. Lasciamo il Ghetto e confondiamoci nelle zone trafficate della città, così avremo più possibilità di salvarci.»
«Sta' tranquilla, okay? Ci tirerò fuori da questa situazione di merda» mi giurò, eppure colsi un'agitazione dirompente nelle sue parole.
In tanti anni di servizio come sicario di Egor, non era mai capitato che le autorità arrivassero a un soffio dal catturarmi. A dire il vero, non erano neanche mai successe rappresaglie così aggressive, animate dallo scopo di sequestrare le proprietà gestite dall'organizzazione mafiosa. Mi domandai quale edificio fosse il loro obiettivo, durante quell'ennesima incursione nel nostro territorio. Mi augurai che non riuscissero a invadere la gioielleria, perché il patrimonio di Egor avrebbe subito un durissimo colpo, una perdita ancora più grave e irrisolvibile delle precedenti.
«Posso provare a sparare alla macchina per rallentarla» proposi, fulminata da un'idea che avrebbe potuto farci guadagnare un vantaggio notevole.
Connor annuì, seppur titubante. La stretta delle sue dita intorno al volante era così forte che le nocche erano sbiancate. «Prova a non ferire gli agenti, d'accordo? Punta alle ruote, non al parabrezza.» Lo sguardo che mi tirò fu caduco, poi tornò a concentrarsi sulla guida. «Non trasciniamoci dietro una scia di sangue innocente, per favore.»
Tutto ciò di cui mi interessava, al momento, era semplicemente sfuggire agli sbirri e sopravvivere a quella corsa spericolata tra le strade di Mosca, eppure non contrastai la raccomandazione di Connor. Agguantai la pistola nascosta nella giacca, caricai un colpo in canna e, dopo aver abbassato il finestrino, mi sporsi oltre il bordo con l'arma ben salda tra le mani. Il vento feroce rendeva pressoché impossibile avere una mira adeguata, e a causa delle sterzate brusche la pistola mi scivolò quasi.
Dovevo agire con rapidità, oppure i poliziotti mi avrebbero preceduta e sarebbero stati loro ad aprire il fuoco ai nostri danni. Senza indugiare ancora, schiacciai il grilletto e il proiettile strisciò lungo la portiera della volante, producendo scintille sulla lamiera. Digrignai i denti per l'errore commesso e ci riprovai: sparai un secondo colpo che volò completamente fuori traiettoria, perché Connor svoltò l'angolo in modo troppo repentino e persi di vista l'obiettivo.
«Porca puttana!» inveii, ritraendomi dal finestrino. Sfogai la furia e la tensione sbattendo la pistola sul cruscotto; non mi importò di ammaccarne la plastica. «Sono sempre più vicini, ci stanno raggiungendo. Non riesco a fermarli, se andiamo a questa velocità.»
«Hai altre alternative?» mi domandò retorico. Compì un'altra virata inaspettata per cambiare direzione, rischiando di sfracellare il muso dell'auto contro un muro, e ringraziai di aver allacciato la cintura che mi trattenne dallo sbandare. «Siamo usciti dal Ghetto. Verso dove mi dirigo?»
Mi accorsi che la carreggiata era più ampia e che gli edifici in rovina erano svaniti dalla visuale. «Verso il centro non è una buona idea, sarà pieno di pattuglie. Sull'anello dei giardini a quest'ora non dovrebbero esserci ingorghi, ma ci saranno abbastanza veicoli per mischiarci e passare inosservati. Dirigiti lì, fino al ponte Krymskij, poi prendiamo la strada panoramica.»
«Cosa stanno facendo i nostri amici?» mi interrogò Connor. La luce blu delle sirene illuminava i dintorni e macchiava il suo viso a intermittenza, fendendo l'oscurità notturna.
Guardai lo specchietto retrovisore, sporgendomi di poco dal finestrino lasciato aperto, per notare che il poliziotto nel lato del passeggero aveva sfoderato la pistola. Imitò le mie precedenti mosse, puntando l'arma contro la nostra macchina. Fui svelta a ritirarmi al sicuro nell'abitacolo, proprio mentre sparava un proiettile che si conficcò nel vetro posteriore, disegnando una ragnatela di crepe intorno al bossolo incastrato.
«Ci stanno attaccando» annunciai, come se non fosse stato ovvio. Lo spavento mi serpeggiò tra le viscere e le annodò nelle sue spire.
«Tieniti forte, Milady. Testiamo la potenza di questo giocattolino» mi avvisò Connor, poi scalò la marcia e affondò il piede sull'acceleratore. Il motore della Porsche ringhiò feroce e la lancetta del contachilometri superò il limite consentito su quella strada periferica.
La macchina deviò fuori dalla corsia, a ridosso della banchina, e il fianco stridette rumorosamente contro la barriera di confine. Il sibilo del metallo graffiato si accompagnò al boato degli spari che si infrangevano sul telaio della vettura, componendo una sinfonia assordante insieme al fischio ininterrotto delle sirene.
Connor riuscì con destrezza a riprendere il controllo della situazione, occupando di nuovo il centro della corsia e schivando lo sciame di proiettili. Io, invece, attesi che il poliziotto esaurisse le munizioni, dopodiché approfittai dell'istante di pausa per rispondere al fuoco. Caricai anche la pistola di Connor e impugnai un'arma in entrambe le mani; sparai un doppio colpo e la fortuna mi assistette, lasciando che una pallottola centrasse la ruota anteriore della volante.
Gli agenti furono costretti a inchiodare e la loro vettura si arrestò sul ciglio della strada. Emisi un'esclamazione soddisfatta per averli eliminati dalla gara. Le lampeggianti blu divennero una chiazza di colore sempre più lontana, mentre ci distanziavamo dagli sbirri.
«Ottimo lavoro.» Connor si complimentò e mi sorrise orgoglioso. «Stiamo per entrare nell'anello dei giardini. Ci abbiamo messo solo dieci minuti e abbiamo infranto ogni codice stradale, ma dubito che qualcuno avrà il coraggio di recapitare una multa a Villa Zaffiro.»
«Non canterei vittoria troppo presto. Stanno arrivando altre pattuglie. Adesso ce ne sono tre.» Il compiacimento sfumò non appena adocchiai il gruppo di volanti che aveva ricominciato a seguirci. «Questi sbirri sono un tormento. Li preferisco di gran lunga quando si fanno corrompere da Egor e fingono di non vederci.»
«Non preoccuparti, li semineremo sull'anello» attestò Connor.
Riconobbi sull'orizzonte le strutture più importanti della città e i profili dei monumenti inconfondibili, segno che eravamo nei pressi della zona più rilevante di Mosca. Connor entrò nella strada circolare che gli avevo indicato, l'anello dei giardini, dal distretto di Arbat. Come avevo previsto, le nove corsie non erano brulicanti di mezzi ma neanche deserte, una condizione ideale per scappare senza essere bloccati e ingannare le pattuglie.
La polizia era ancora dietro di noi, perciò Connor ignorò le regole del traffico e superò i veicoli che ci circondavano, sfrecciando come una saetta lungo l'asfalto. Percorse la curva dell'anello, che costeggiava le mura di mattoni rossi del Cremlino, ricevendo le proteste e gli insulti degli altri conducenti. Anche se non ce n'era motivo, una risatina divertita mi scappò dalle labbra: percepivo l'adrenalina che pulsava nelle vene, saturandomi di euforia ed ebrezza.
«Ti fa ridere che ci vogliano arrestare, Milady?» mi chiese il mio partner in tono ironico.
«Non avevo mai partecipato a un inseguimento in pubblico. È esaltante, soprattutto adesso che siamo in vantaggio» notificai con una sfumatura di diletto.
«Lasciamo i festeggiamenti a più tardi, quando saremo certi di aver scampato la galera» mi redarguì Connor. «Siamo quasi al ponte. Qual è la strada panoramica a cui avevi accennato?»
«Sulla prospettiva Leninskiy c'è una terrazza d'osservazione. Possiamo fermarci lì sopra.»
Sgusciammo tra le automobili e i camion, lasciandoci alle spalle le volanti che rimasero impantanate nella strada trafficata. Connor attraversò il ponte Krymskij senza diminuire la velocità elevata, sfrecciando lungo quel tragitto sospeso sul fiume Moscova, le cui acque ghiacciate riflettevano le luci della città in un tripudio di bagliori. Infine, abbandonammo l'anello dei giardini per imboccare la Leninskiy e dirigerci verso il punto panoramico che avevo suggerito.
Fu un sollievo giungere sulla terrazza, liberi dal fastidioso sottofondo delle sirene lampeggianti e dagli spari dei proiettili. Potevamo concederci un po' di meritata pace e rilassarci, prima di tornare alla Villa. Connor parcheggiò la macchina in prossimità della ringhiera e spense il motore insieme ai fari, calandoci nel buio inframmezzato solo dai pochi lampioni e dagli edifici illuminati in lontananza. Nel paesaggio panoramico - di cui era visibile uno scorcio - svettavano i grattacieli principali di Mosca, la sagoma del fiume che abbracciava il Cremlino e le guglie delle torri colorate.
«Il nostro momento "Bonnie e Clyde" si è concluso» scherzò Connor. Si girò a guardarmi con un sorriso furbo stampato in faccia. «Sei la migliore partner in crime che potesse capitarmi, Milady. Siamo una coppia formidabile.»
«Allora mi prendo una piccola ricompensa, se permetti.»
Slacciai la cintura d'intralcio e mi allungai per unire le nostre labbra, stringendo il colletto della sua giacca per attirarlo a me. Connor non esitò nel ricambiare il bacio, che divenne una collisione ardente di lingue intrecciate e denti che si scontravano. Avevo bisogno di scaricare l'adrenalina e l'euforia, perciò il mio organismo le tramutò lentamente in un concentrato di desiderio impetuoso.
«Ti ricordi cosa ho detto prima, riguardo a tutti questi vestiti ingombranti?» bisbigliò, il respiro alterato che mi accarezzava il viso. Le sue iridi rispecchiavano la brama che cominciava a scuotermi le membra. «Non ho intenzione di aspettare fino al rientro alla Villa, sappilo.»
Lo precedetti e mi sbottonai la giacca pesante, per poi gettarla con noncuranza sui sedili posteriori, seguita dalla sciarpa di lana. Connor fece lo stesso, restando con una semplice felpa addosso, dopodiché schiacciò il pulsante per regolare il riscaldamento a una temperatura più mite. Distolsi la sua attenzione dal cruscotto, artigliando i suoi zigomi tra le dita per riappropriarmi della sua bocca morbida, una fonte d'ossigeno puro da cui faticavo a separarmi per troppi minuti.
Le nostre labbra si consumarono a vicenda, al punto da perdere la sensibilità e bruciare come le fiamme che ci animavano. Connor mi ghermì i fianchi e lambì la pelle sotto l'orlo del maglioncino aderente, sfiorando le costole e cingendo la schiena. Indietreggiò con il sedile, in modo da avere abbastanza spazio per trascinarmi sulle sue gambe: mi trovai incastrata tra il suo petto e il volante, le cosce serrate intorno al suo bacino e le intimità che sfregavano tra loro. Quel fugace contatto fu sufficiente per accendere una vampata di calore pulsante che defluì nel ventre, e quando percepii la sua erezione dedussi che lui provasse la medesima attrazione irruente.
Connor si sbarazzò della felpa e della maglietta, lanciandole in qualche angolo della macchina. Non mi diede neanche l'occasione di bearmi della visuale in penombra del suo petto nudo, che afferrò il bordo del mio maglioncino e lo tolse con decisione. Rimasi coperta solo dal reggiseno, che fu lui stesso a sganciare e rimuovere, smanioso di ammirare il mio corpo e marchiarlo con i segni del suo passaggio.
Ingabbiò i miei seni nelle mani, stuzzicando i capezzoli tra i polpastrelli, e nel frattempo le sue labbra disegnarono una scia di baci umidi lungo la curva della mandibola e del collo. Inclinai la testa per facilitargli il lavoro, ed emisi un sospiro appagato da tutte quelle attenzioni ben volute. Per giocare con il suo autocontrollo e condividere la necessità fervente di possederci a vicenda, mi dimenai con straziante flemma sul cavallo dei suoi pantaloni, strusciando la mia intimità contro la sua erezione rigida.
«La pazienza non è proprio la tua virtù, Milady. Vuoi veramente essere scopata in questa macchina, dopo che siamo fuggiti dalla polizia per tutta la città?» mi provocò, sussurrando nel mio orecchio, con una cadenza lasciva a sporcare la voce roca. «Voglio sentire una risposta.»
«Sì» ringhiai un misero monosillabo. «Poi voglio che tu lo faccia anche quando torneremo alla Villa, intesi?» gli ordinai, determinata a ottenere ciò che desideravo. «Ma ora non sprecare più fiato e pensa ad accontentarmi, Reed.»
«Tu mi ucciderai,» replicò, «ma almeno sarà una morte soddisfacente.»
Raccolse i miei capelli intorno al pugno e mi costrinse a inarcare la schiena, tirando le ciocche dalle radici della nuca, così da potersi dedicare a torturare il mio seno esposto all'altezza del suo viso. Intrappolò un capezzolo tra le labbra, mordicchiando e leccando la pelle cosparsa dai brividi, mentre strizzava quello libero tra le dita; invertì i movimenti per concedere lo stesso trattamento all'altro seno. Ansimai e continuai a sfregarmi contro il suo sesso, nell'avido tentativo di soddisfare l'eccitazione che mi stava facendo impazzire.
Connor lasciò il mio petto, che si gonfiava e sgonfiava in affanno, e sciolse la stretta intorno ai miei capelli. Mi fece sollevare di quel poco sufficiente a sfilare l'ostacolo dei pantaloni e della biancheria, liberando l'erezione dalla prigione della stoffa. Anche io finii di spogliarmi e, non appena mi sedetti nuovamente a cavalcioni sopra di lui, la vicinanza dei nostri corpi nudi mi procurò una fitta prepotente di piacere.
Il sangue pompava come benzina infuocata nelle arterie, rendendomi febbricitante per la lussuria; la mia pelle bollente e imperlata di sudore aderiva perfettamente alla sua. Serrai le dita intorno al suo sesso turgido, accarezzandolo piano e rubando un gemito a Connor. Volevo sentirlo dentro di me, agognavo l'istante in cui si sarebbe addentrato tra le mie pieghe per donarmi l'estasi che attendevo con agitazione.
I nostri occhi si incrociarono per un frangente di secondo, si incatenarono nella semioscurità sfilacciata dai bagliori distanti delle luci, che disegnavano ombre sulle nostre figure scoperte. C'era solo il panorama innevato di Mosca ad assistere, racchiudendoci in una barriera taciturna e delicata. Non dovevamo chiedere nessuna conferma, perché sapevamo entrambi che quello fosse il momento ideale, nonostante la situazione impervia che l'aveva preceduto e il rischio di essere visti da qualcuno. Volevamo realizzare l'asfissiante desiderio di legarci in modo indissolubile.
Connor reclinò di qualche centimetro il sedile, per sistemarci in una posizione più comoda. Gli accarezzai il torace, scosso dal respiro irregolare, e appoggiai il palmo sopra al cuore che martellava le costole: batteva allo stesso ritmo forsennato del mio. E sembrò quasi che fossero cuciti insieme da un filo invisibile, che i corpi e gli spiriti si plasmassero in un'unica entità, quando riempimmo ogni spazio d'aria che ancora ci distaccava.
Si introdusse tra le mie gambe, con lentezza eppure tenacia, arrivando a sfiorare corde che non credevo esistessero. Mi modellai e contrassi intorno a lui, avvolgendolo tra le mie pulsazioni, separati solo da un sottile involucro di protezione. Lo aiutai a scivolare dentro di me, oscillando piano sopra al bacino, con i palmi schiacciati sul suo petto per sorreggermi; le sue braccia mi circondavano i fianchi e mi guidavano in quell'alternanza di spinte e risalite. Stoccate di appagamento mi trafiggevano il ventre, riverberarono in tutto l'organismo, e mi sentii annegare in quell'oceano tempestoso di piacere.
Eravamo armonizzati, come se avessimo saputo già in che modo incastrarci l'uno nell'altra, come se l'avessimo fatto mille volte e quella non fosse stata la prima. Percepivo la sua presenza ovunque, nel corpo e nella mente, che mi invadeva al pari della droga, un veleno letale ma indispensabile. Connor, però, era molto più potente di qualsiasi sostanza tossica. Mi distruggeva e ricomponeva a ogni affondo, piantava le sue radici e si inerpicava in zone sconosciute persino a me stessa.
Incrementò il ritmo delle penetrazioni fino a sottrarmi il fiato e io lo accompagnai in quella corsa folle, simile alla fuga che avevamo attuato poco prima. Ci muovevamo scomposti, accecati dalla voglia di superare il limite, e gli ansimi che sfiatammo furono la manifestazione di quella sete disperata. Mi rubò l'ossigeno rimasto e divorò i miei gemiti rumorosi con un ennesimo bacio veemente, carico di emozioni non espresse a parole.
«Sei... sei... non so neanche come descriverti» mormorò affannato, appena le nostre labbra si concessero una tregua.
«La cosa più bella che ti sia mai capitata?» provai a concludere al suo posto, con la voce spezzata dalla burrasca di sentimenti che mi sgretolava. Tu, per me, sicuramente lo sei.
«Esatto.» Appoggiò la fronte sulla mia, le sue iridi si immersero nel mio sguardo lucido. «Mi fai sentire vivo come mai prima d'ora.»
«Vale lo stesso per te, Reed.»
Quella passione catastrofica ci inceneriva, annientava ogni facoltà mentale, ci riduceva a un cumulo di schegge dai bordi frastagliati. Credetti di perdere anche l'ultima briciola di raziocinio, quando intrufolò le dita tra i nostri sessi per stimolarmi. Ingoiai una serie di ansiti indecenti, annebbiata da quel connubio di tocchi efficaci e sensazioni estreme, mentre il mio respiro divenne ancora più concitato.
«Lasciati andare, Milady. Ti voglio sentire. Ti voglio avere tutta» mi incoraggiò Connor, continuando a sfiorarmi nei punti giusti per adempiere al suo obiettivo di soddisfarmi.
L'eccitazione mi sconquassò e raggiunse il confine della mia resistenza. Mi riversai sulle sue dita e intorno al suo sesso, che stritolai nella morsa delle contrazioni, le cosce che tremavano e il petto che sussultava. Connor impiegò una manciata di secondi a lasciarsi andare, travolto dall'apice del piacere; in seguito, rilassò i muscoli contro lo schienale del sedile e ci disincastrammo. Mi accomodai meglio sulle sue gambe, stringendomi al suo torace, riparata nel suo abbraccio caldo e avvolgente. Recuperammo l'ossigeno insieme, tra carezze distratte e baci più teneri.
«Sapevo già che mi avevi incasinato la testa, ma adesso credo che non riuscirò più a fare a meno di te» confessai flebilmente.
«Non succederà, infatti. Non potrei allontanarmi da te neanche se mi minacciassero o torturassero.» Le sue labbra mi lambirono la tempia con dolcezza. «Sei la mia condanna eterna e la mia vittoria maggiore. Sono destinato a starti accanto, nel bene o nel male.»
Sperai che fosse davvero così. Perché tra le pareti di quella macchina, gli consegnai il cuore, il corpo e l'anima, di cui divenne il sovrano indiscusso.
Angolo autrice
Ciao a tutti! Mi eravate mancati ♡
Finalmente mi faccio di nuovo viva, con un capitolo che so che aspettavate dal primo incontro di May e Connor. Spero che abbia soddisfatto le vostre aspettative tanto quanto è piaciuto a me scriverlo, nonostante tutte le difficoltà. Ne vado abbastanza fiera e mi sono impegnata al massimo per rendere questo momento al meglio.
Non c'è molto da specificare, se non che si aggiunge un nuovo tassello alla trama principale (a quanto pare Sidorov e Wera sono amanti, o quantomeno alleati). Questo punto verrà approfondito nei prossimi capitoli e, a proposito del futuro, vi avverto che la gioia e la tranquillità arriveranno a un punto di rottura... torniamo alla mia adorata tragedia e disperazione. Ci sarà da divertirsi (e un pochino da piangere, forse) 🧚🏻♀️
Vi chiedo di continuare ad avere un po' di pazienza, con questi aggiornamenti lentissimi e le attese infinite, dato che sono sopraffatta dagli impegni scolastici pre-maturità. Spero sempre che il risultato finale ne valga la pena e che non vi siate ancora stancati di questa storia 😭😭
Infine voglio ringraziare chi aspetta gli aggiornamenti con ansia, lascia sempre una stellina o un commento, esprime il suo supporto costante e crede in IGZ anche più di me stessa. Vi voglio bene, grazie per questi ormai due anni 💝
Al prossimo capitolo! Xoxo <3
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