Capitolo 27

Se vi piace leggere con un sottofondo musicale, vi consiglio cardigan di Taylor Swift per la prima scena tra May e Connor. Buona lettura ♡

Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 18 novembre 2019

Una volta tornata a Villa Zaffiro, mi diressi subito nello studio di Egor. Gli raccontai che avevo ucciso Critelli ma che il suo corpo era rimasto a Jaroslavl, prelevato dalla polizia locale. Il vory si mostrò scettico, inizialmente, e poco propenso a fidarsi della mia storia senza vedere un cadavere. Tuttavia, grazie alla mia espressione gelida e al tono di voce controllato, alla fine mi credette. Si congratulò per la buona riuscita della missione e mi invitò a prendermi una serata libera, come se avessi avuto davvero bisogno del suo permesso.

Lasciai l'ufficio e la seguente tappa fu la biblioteca, dove sapevo che avrei trovato Danny intento a leggere. Necessitavo di sfogarmi e di parlargli della discussione avvenuta tra me e Larysa, perché mio fratello era l'unico in grado di comprendermi e la sua opinione era la sola che ascoltassi volentieri. Mi avrebbe aiutato a risolvere quella situazione spinosa, sebbene non potessi perdonare il tradimento della mia - ormai non più - migliore amica. Concedevo la mia fiducia a un numero limitato di persone e non donavo seconde opportunità a nessuno.

Appena varcai la soglia della biblioteca, l'odore dei libri mi solleticò le narici e un senso di tranquillità mi avvolse. Non amavo la lettura, ma non potevo negare che quel luogo trasmettesse una pace incondizionata, poiché isolato dalle manovre illecite che si svolgevano quotidianamente tra le mura della Villa. Capii il motivo per cui Danny passava lì dentro la maggior parte delle sue giornate: rappresentava uno spicchio di paradiso in un circo degli orrori.

Individuai mio fratello in fondo alla sala, seduto sul divano che fronteggiava il caminetto. Restai sorpresa nell'apprendere che era in compagnia di un altro ragazzo, accomodato al suo fianco, e che i due stavano chiacchierando e ridendo amichevolmente insieme. A sconvolgermi ancora di più fu la consapevolezza che il suo compagno fosse Seimir Markovich, il nuovo consulente finanziario di Egor, appartenente a un'organizzazione mafiosa serba. Da quando lui e Danny si frequentavano?

Mi avvicinai a passi silenziosi, superando gli immensi scaffali colmi di volumi che sfioravano il soffitto. Captai alcune parole della loro conversazione, il cui soggetto principale era un libro di qualche autore russo a me ignoto. Seimir stava reggendo il romanzo tra le proprie mani, mentre commentava gli aspetti negativi e positivi della storia, con un'accuratezza talmente notevole che era quasi impossibile distogliere lo sguardo da lui. Lo inquadrai subito come uno di quegli uomini capaci di ammaliare grazie all'uso impeccabile del linguaggio e del lessico.

La sua attenzione era dedicata esclusivamente a mio fratello, che lo ascoltava stregato, annuendo in segno di accordo oppure aggiungendo opinioni differenti da quelle di Seimir. Erano così immersi nella discussione che neanche notarono il mio arrivo. Non ricordavo l'ultima volta che avevo visto Danny comportarsi in modo tanto spensierato e allegro con una persona che non fossi io, perciò decisi di non tediarlo con la vicenda di Larysa e Critelli, altrimenti il mio malumore lo avrebbe contagiato. Mi sarei limitata a salutarlo e poi avrei tolto il disturbo; gli avrei parlato dei miei crucci interiori in un secondo momento.

«Sto interrompendo qualcosa?» esordii, munendomi di indifferenza per nascondere il mio reale stato d'animo.

I due ragazzi troncarono la conversazione e i loro occhi si spostarono sulla mia figura. Danny mi sorrise, non appena mi riconobbe, allora mi posizionai dietro allo schienale del divano e gli scombinai i capelli con fare affettuoso. Seimir ci osservò incuriosito, alternando le iridi verde smeraldo da mio fratello a me.

Gli rivolsi uno sterile cenno del capo e nessuna parola, dato che ero poco fiduciosa nei suoi riguardi. Sarà anche stato un uomo acculturato e in apparenza gradevole, ma l'istinto protettivo verso mio fratello mi spingeva a dubitare delle sue intenzioni. Eppure, nonostante lo scetticismo, non mi sarei intromessa in quell'amicizia o qualunque rapporto si fosse instaurato tra loro. Tutto ciò che per me contava era che Danny si distraesse dai propri tormenti, anche se con l'aiuto di un criminale fraudolento.

«No, niente. Stavamo solo parlando di un libro» mi spiegò Danny, dopodiché mi scrutò a fondo e intercettò la fatica che mi piegava i lineamenti. «Stai bene? Hai l'aria di chi è uscita da una rissa. Cos'è successo a Jaroslavl?»

Gli rifilai un sorriso forzato per dissipare la sua preoccupazione. «Tranquillo, la missione è andata a buon termine. Valerio Critelli non sarà più un problema per il Ghetto.»

«Se hai bisogno di riposarti, possiamo tornare in camera» mi suggerì, il tono di voce infarcito di premura.

«Mi serve solo un po' di relax. Credo che andrò a fare un bagno nelle terme» lo informai, colpita da quell'idea improvvisa. «Vi lascio alle vostre chiacchiere da letterati. Ci vediamo dopo.» Mi chinai per stampare un bacio sulla testa di mio fratello.

Mi allontanai dai ragazzi e uscii dalla biblioteca, prima che Danny potesse indagare sulle vicende di quella giornata sfiancante. Non mi piaceva nascondergli la verità, ma non gli avevo neppure mentito completamente. Avevo soltanto omesso il dettaglio del litigio con Larysa, evento che avrei voluto cancellare dalla memoria. Mi faceva soffrire il pensiero che la nostra amicizia fosse stata rovinata da un ragazzo insignificante. Speravo che, almeno per lei, ne fosse valsa la pena.

L'unica cosa che desideravo adesso, per concludere in maniera decente la serata, era trascorrere un po' di tempo nella piscina termale della Villa. Senza nemmeno cambiare l'abbigliamento che avevo utilizzato per la missione, scesi nei sotterranei e raggiunsi l'area adibita alla SPA, che per mia fortuna trovai deserta. Ignorai la sauna e l'idromassaggio, perché la mia destinazione era la vasca situata in un angolo della stanza. Tolsi le scarpe e i vestiti, che abbandonai sopra un lettino, ed entrai nella piscina noncurante di indossare solo l'intimo.

L'effetto terapeutico dell'acqua bollente fu un toccasana per i miei muscoli indolenziti dallo sforzo fisico. I nervi si distesero e ogni affanno scivolò via, accompagnato dal ronzio costante della stufa elettrica che scaldava la sorgente. Anche se si trattava di una piscina artificiale, rimaneva comunque il mio luogo preferito dell'intera Villa, in cui mi rifugiavo quando cercavo un attimo di pace e non volevo affidarmi alla droga. Costruire una SPA nella sua base operativa era stata una delle rare idee geniali di Egor, per la quale gli ero - mio malgrado - riconoscente.

Incrociai le braccia sul bordo della piscina e restai a galla per qualche minuto, beneficiando delle sensazioni di calma e serenità che acquietarono la confusione nel mio cervello. Appoggiai la testa su un gomito e chiusi gli occhi, per focalizzarmi sul vapore caldo che mi circondava, sul movimento delicato dell'acqua che mi accarezzava la pelle scoperta e sul mio stesso respiro, regolare e placido. La tensione accumulata nelle ultime ore svanì in un soffio.

Probabilmente la stanchezza avrebbe vinto e mi sarei persino addormentata, se non fossi stata disturbata da una voce ben conosciuta: «Ti stai rilassando, Milady?».

Prima di aprire le palpebre, già sapevo che avrei incrociato lo sguardo di Connor. Il suo timbro colorato da una sfumatura di diletto era sufficiente a identificarlo, insieme alla sua presenza inconfondibile a cui ormai ero abituata, forse anche più di quanto avrei dovuto. Sbuffai e sollevai la testa, osservandolo dalla piscina con palese irritazione. Reed sostava all'in piedi di fronte a me, le iridi puntate nelle mie e un mezzo sorriso a curvare le sue labbra. I capelli scuri gli ricadevano disordinati sulle tempie e celavano parte della montatura sottile degli occhiali.

«Sì, fino a cinque secondi fa» replicai con fastidio. «Come mi hai trovata?»

«Ho chiesto a tuo fratello e mi ha detto che stavi andando qui. Non pensavo che fossi un'amante dei centri benessere» dichiarò, piuttosto divertito da quella considerazione.

«Hai qualcosa di importante da dirmi o puoi farmi il piacere di lasciarmi da sola?» lo incalzai aspramente.

Connor si sedette sulle piastrelle del pavimento, così da ridurre la distanza tra i nostri sguardi. In questo modo potevo studiare meglio la sua espressione, che manifestava una traccia apprensiva dietro all'ilarità. «Volevo chiederti due cose. Egor si è bevuto la storia della morte di Critelli?»

«Ogni singola parola» confermai. «La seconda domanda qual è?»

Scansò un ciuffo di capelli dalla fronte in un gesto nervoso e indugiò alcuni secondi, poi pronunciò incerto: «Come stai?».

Era un quesito banalissimo, eppure così spontaneo che restai per un attimo interdetta. Come stavo? Non avrei saputo rispondere. Mi sentivo esausta e amareggiata, con il peso del tradimento di Larysa che mi affossava, unito al dolore di aver distrutto la nostra amicizia. Un lato di me si pentiva per averle strappato l'unica persona che avesse mai amato; l'altro era un concentrato di furia e delusione.

«Non lo so. Odio Larysa per quello che ha fatto, ma mi sento in colpa per averla costretta a rinunciare a Valerio.» Raddrizzai la schiena e torturai l'estremità umida di una treccia, tenendo le pupille inchiodate sulla superficie liscia dell'acqua per evitare di guardare Connor. «Sai cos'è peggio in tutta questa storia? Che lei non si sia fidata abbastanza di me. Credevo che la nostre fosse un'amicizia solida, invece non ha avuto scrupoli nel mentirmi. Ha dato la sua lealtà a quel bastardo, come se io non fossi poi così fondamentale nella sua vita.» Mi bloccai a causa della voce che si incrinò. Schiarii la gola e scossi il capo, per diradare la nebbia che mi rannuvolava i pensieri. «Be', ormai è successo. Inutile scervellarsi, giusto? Critelli è sparito dalla circolazione e questo è tutto ciò che conta.»

«Non minimizzare mai qualcosa che ti fa soffrire, nemmeno se sembra poco rilevante. Hai ogni diritto di stare male per questa situazione» obiettò Connor, una cadenza dolce nelle parole. «Se vuoi la mia opinione, io sono fermamente convinto che l'amore ci renda stupidi e ciechi. Larysa era solo spaventata dalla tua possibile reazione, perché sapeva che prima o poi avrebbe dovuto lasciare Valerio. Ha rimandato quel momento finché non è stato inevitabile.» Si concesse una breve pausa, e durante quel lasso di tempo i suoi occhi mi analizzarono, legandosi in maniera inscindibile alle mie iridi. «Si commettono tanti errori, per tenere vicine a noi le persone che ci stanno a cuore. Le bugie ne sono il principale esempio.»

Non contestai il suo discorso e non trovai alcuna frase adeguata per rispondere. Aveva pienamente ragione: dal punto di vista più distante e razionale riuscivo a giustificare Larysa, ma il mio inconscio non l'avrebbe perdonata con facilità. Detestavo ammettere le mie debolezze, eppure il tradimento della mia migliore amica mi aveva ferita, a discapito delle motivazioni che l'avevano portata a realizzarlo.

«Non ha più importanza» decretai una manciata di secondi dopo, riscuotendomi dal silenzio. «Sono venuta qui per rilassarmi, non per tormentarmi sulla questione.»

Connor mosse la testa in un cenno affermativo, accogliendo il mio eloquente invito a chiudere l'argomento. In seguito, per cambiare la rotta della conversazione, mi rivolse un'altra domanda inaspettata: «Hai ragione. Ti dispiace se ti raggiungo? Mi servirebbe proprio un bagno caldo».

«Non penso che sia una buona idea» ribattei con esagerata titubanza. Fallii miseramente nel tentativo di nascondere l'agitazione che la sua richiesta mi aveva provocato. «Non so se voglio condividere il mio spazio vitale con te, Reed. Finiremmo a litigare come sempre» aggiunsi una scusante poco credibile.

«Non ti darò fastidio, lo prometto. Staremo agli angoli opposti della piscina» mi giurò.

Non avrei potuto cacciarlo in nessuno caso, dato che non aspettò la mia conferma per iniziare a spogliarsi. Sfilò la felpa, attento a non compiere movimenti troppo bruschi con il braccio dove si era beccato il proiettile, fasciato all'altezza della spalla. Si liberò delle scarpe e, mentre toglieva i jeans, mi voltai dall'altra parte, fingendo di essere interessata alle volute di vapore. Percepii lo spostamento dell'acqua quando Connor si immerse, allora mi girai di nuovo.

Si era appoggiato con il braccio sano al bordo della vasca, imitando la mia posizione. Il filo dell'acqua lo copriva dai fianchi in giù, permettendomi di godere soltanto della vista del suo torace, punteggiato di goccioline di condensa. Studiai le linee definite del suo corpo senza imbarazzo, nonostante il calore che mi ustionò le guance. Perché la temperatura si era alzata all'improvviso?

«Sei sicura che vuoi davvero starmi lontano, Milady? Il tuo sguardo dice il contrario» mi provocò Reed ghignando.

Mi costrinsi a interrompere la radiografia e incastrai le iridi nelle sue, scoprendo che Connor mi stava osservando con altrettanta intensità, divorando la mia figura con gli occhi. Ascoltai l'istinto e avanzai nella sua direzione, creando increspature sulla distesa d'acqua, poi mi fermai davanti a Reed, alla distanza irrilevante di alcuni centimetri. Mi sorressi allo spigolo della piscina, le nostre mani che quasi si sfioravano sul bordo e gli sguardi che non smettevano di perlustrarsi a vicenda.

«Puoi scommetterci» mormorai in un soffio. «Non sarò io la prima a cedere.»

Avevo appena aperto una sfida. Il significato implicito delle mie parole era ovvio per entrambi: tra noi vibrava una tensione palpabile, un muto desiderio scintillava nei nostri occhi e risultava sempre più complicato arginare gli impulsi che smaniavano per disintegrare la lontananza rimasta. Reed aveva già ammesso di volermi e non era difficile capire che io ricambiavo; la sola differenza era che non mi sarei fatta calpestare l'orgoglio per nessun motivo. Connor non avrebbe ottenuto niente da me, perciò aspettare un mio passo era una perdita di tempo.

«Se ne sei convinta tu» replicò, accennando un sorrisetto canzonatorio. D'un tratto, ogni segno di scherzo svanì dalla sua espressione, che si rabbuiò per qualche ragione che all'inizio non compresi. «Cosa sono quelle?»

Stava fissando un punto sul mio fianco destro, con le sopracciglia aggrottate che formavano una ruga di preoccupazione sulla fronte. Seguii la direzione del suo sguardo e le mie dita si mossero in automatico, sfiorando la pelle frastagliata sotto alle costole. Le cicatrici gemelle che portavo da anni - un paio delle numerose - svettavano come fregi sul marmo, ruvide a contatto con i polpastrelli.

«Niente di importante. Uno dei tanti regali che gli uomini di Egor mi hanno lasciato durante l'addestramento» spiegai concisa, azzerando le inflessioni nella voce per mostrarmi imperturbabile. All'interno della mia testa, però, si era scatenato un uragano.

Ricordavo benissimo la sensazione che avevo provato quando la lama del coltello era affondata nella carne, non con tanta brutalità da colpire gli organi o uccidermi, ma abbastanza da causare una pericolosa emorragia e marchiarmi in eterno. Uno degli scagnozzi di Egor mi aveva aggredita in uno scatto di rabbia, dopo che lo avevo minacciato con una pistola e avevo tentato di fuggire dalla palestra della Villa. Quando il vory lo scoprì, invece di punirmi licenziò il bastardo che mi aveva ferita.

Non era stato un atto caritatevole, il suo. Quel giorno aveva preso provvedimenti perché avevo davvero rischiato di morire, ma non si era mai opposto alle altre sanzioni che i suoi collaboratori mi infliggevano ogni giorno. Gli anni di addestramento erano stati una tortura scandita da percosse continue, graffi e tagli ancora visibili sulla mia pelle, violenza verbale che alimentava la crudeltà delle punizioni. Inoltre, il pensiero dell'assassinio dei miei genitori era un tarlo opprimente che mi impediva di respirare di notte. Se avevo trovato un po' di sollievo da quel supplizio fu esclusivamente grazie alla droga, che mi consumava e salvava allo stesso tempo.

Tutt'ora non capivo per quale sconosciuta ragione Egor avesse scelto di trasformarmi nel suo sicario più fidato, ma aveva centrato l'obiettivo in pieno. Il dolore fisico e mentale che avevo patito mi aveva resa una macchina da guerra indistruttibile. Ero diventata il riflesso dell'uomo che mi aveva rovinato l'esistenza, e ormai era troppo tardi per redimersi.

«Loro... lo facevano spesso?» La domanda di Connor, pronunciata in modo esitante, mi strappò dall'abisso oscuro della memoria.

«Sì, ogni volta che non eseguivo correttamente un esercizio o se osavo ribellarmi. Poi ho cominciato ad andare in missione e mi sono rivelata un'eccellente assassina» risposi priva di emozione, ostentando una neutralità falsa. In realtà, il ricordo di quel periodo della mia vita mi lacerava. «Adesso sono il sicario migliore del boss, colei che tutti temono e rispettano, ma prima ero un fottuto animale selvatico da ammaestrare.»

«L'unica bestia, qui, è Egor» contestò Reed con indignazione.

Esibii un ghigno dal sapore amaro. «Siamo tutti animali nel suo zoo, non l'hai ancora capito? E io sono il peggiore. Guarda come mi ha rovinata.»

Senza preavviso, Connor mi aggirò per posizionarsi alle mie spalle. Non gli chiesi cosa stesse facendo, ma sussultai quando le sue mani leggere mi sfiorarono la schiena. Le dita lambirono la linea della colonna vertebrale e disegnarono sentieri invisibili che si diramavano lungo il dorso, seguendo le cicatrici disseminate sulla pelle. Il respiro si bloccò nei polmoni e i muscoli si paralizzarono, mentre Reed accarezzava le mie ferite rimarginate e mi cospargeva di brividi con un semplice tocco, in contrasto con le gocce d'acqua calda che scivolavano dai suoi polpastrelli bagnati. Si soffermò su una porzione della scapola, dove era inciso il tatuaggio del Ghetto Zaffiro, e ne tracciò i contorni con l'indice. Tremai per la delicatezza immensa del suo gesto.

«Sai cosa penso, May?» pronunciò in un sussurro. Spostò il palmo sul mio fianco, proprio sopra le due ferite che aveva adocchiato poco fa. Mi voltai per guardarlo e fu uno sbaglio madornale, perché rimasi impigliata nelle screziature verdi delle sue iridi, così brillanti da accendere una luce anche nel mio buio. «Che sei bella anche con queste cicatrici, se non di più, perché ti rendono vera. E penso anche che le cose rovinate e un po' rotte sono molto più affascinanti di quelle nuove e intere.»

Con l'altra mano agguantò una delle mie trecce e giocherellò con la punta, per poi sistemarla sulla spalla. In quel momento, la sua attenzione fu richiamata dall'ennesimo dettaglio che scoprì sul mio corpo. Pressò dolcemente le dita su un punto del mio petto, in corrispondenza del cuore, che batteva scoordinato e irregolare sotto i suoi polpastrelli. Connor accarezzò il piccolo tatuaggio che raffigurava una coppia di stelle e, per assurdo, gli permisi di toccarmi con un'intimità che di norma concedevo a un numero ridotto di persone. Riportò gli occhi sul mio viso e mi osservò esprimendo una domanda silenziosa.

«È per i miei genitori» confessai, senza aggiungere altro. Quello era l'unico tatuaggio che avevo voluto oltre al marchio del Ghetto; Cheslav mi aveva accompagnata a inciderlo appena avevo compiuto diciotto anni.

«Egor ha fatto loro del male?» intuì.

Confermai con un cenno secco della testa. «Io e Danny abitavamo con loro a San Diego. Sette anni fa, Egor li ha uccisi davanti ai nostri occhi e ci ha portati con sé a Mosca.»

Gli riferii la tragedia che aveva devastato me e mio fratello esprimendo una compostezza glaciale. Mi obbligai a scacciare le lacrime che spingevano dietro le retine e a nascondere il tremito delle sillabe. Non sarei crollata di fronte a Connor né gli avrei rivelato la mia debolezza; non ero pronta a lasciarmi andare fino a quel livello.

«Non meriti niente di ciò che hai subito» mormorò lui, le iridi colme di dispiacere. «Odio il pensiero che tu abbia sofferto così tanto.»

«Forse un po' me lo merito, non credi? Sono un mostro. Ho ucciso più persone di quante ne riesca a contare, alcune senza un motivo valido.»

«Non dire stronzate. Per me non sei un mostro, Milady» mi riproverò dolcemente.

«Eppure continui a chiamarmi con il nome di un'assassina» gli feci notare, inarcando un sopracciglio.

«Perché ti si addice. E poi devo ammettere che le donne complicate mi attraggono.» Le sue labbra assunsero la forma di un sorriso provocante.

In risposta, schiacciai i palmi sul suo torace per spintonarlo scherzosamente, ma Connor posò una mano sulla base della mia schiena e mi tirò piano verso di sé. Eravamo ancora più vicini, separati da una misera striscia d'aria. Il suo respiro mi sfiorava il volto e i suoi occhi si incunearono nei miei, rendendo impossibile fuggire dal suo sguardo inquisitore.

«Ascoltami bene, adesso» esordì. «Se sei diventata ciò che sei, è per colpa di Egor e dei suoi uomini. Non so cosa sia accaduto di preciso ai tuoi genitori, ma ho capito che questo evento ti ha segnata per sempre. Nessuno merita di essere strappato via dalla propria casa a quell'età, nessuno merita di assistere all'omicidio dei propri cari, nessuno merita di provare un simile dolore. La tua vita è andata a pezzi e stai solo cercando di sopravvivere in questa nuova realtà. Nel Ghetto funziona così: uccidi oppure vieni ucciso. Non ti biasimo per le tue azioni, May, perché spesso non abbiamo scelta.» Mi accarezzò la guancia in punta di dita e tracciò il profilo del mio viso, fino a sollevarmi il mento per focalizzare la mia attenzione su di lui. «Io, però, ci vedo ancora un briciolo di umanità in te. Non sei completamente persa. Hai soltanto bisogno di qualcuno che ti aiuti a ritrovare la strada. Per quel che vale, avrai sempre il mio appoggio.»

Avrei potuto reagire in qualsiasi maniera a quel discorso. Avrei potuto respingere Connor e il suo tocco delicato, perché si era avvicinato troppo e stava invadendo il mio spazio. Avrei potuto ringraziarlo per avermi offerto il suo sostegno e per credere in maniera tanto genuina nelle mie qualità inesistenti. Avrei potuto anche restare in silenzio, perché non trovavo parole all'altezza delle sue.

Non feci niente di tutto ciò, naturalmente. Mi aveva scombussolata e aveva mandato a puttane il mio raziocinio. Attribuii la colpa al modo in cui mi guardava, alla stretta delicata delle sue mani sulla mia pelle nuda, ai pochi centimetri di distanza tra le nostre labbra. Una sensazione sconosciuta mi trafisse il cuore e, nella mia mente, una voce urlò di annullare la lontananza rimasta.

Allora, guidata da un impulso che si originò nelle radici della mia anima, infransi ogni precedente convinzione e lo baciai.

La mia bocca impattò su quella di Connor, che rimase immobile a causa dello sconcerto, i muscoli tesi sotto le mie dita. Le nostre labbra combaciarono e i corpi si scontrarono, ma ci limitammo a una semplice pressione. Eravamo entrambi paralizzati dalla sorpresa scaturita dal mio gesto illogico.

Non durò molto. Appena elaborai la cazzata che stavo facendo, mi staccai da Reed. Mi scrutava frastornato, con un'espressione di puro sconvolgimento. D'altronde, lo avevo baciato dopo aver dichiarato che non avrei mai ceduto all'attrazione tra di noi.

«Non... non so cosa mi sia preso» farfugliai, stordita dalle mie stesse azioni. «Scordati che sia successo, okay? Non significa niente. È stato un...»

Non pronunciai "errore" perché le labbra morbide di Connor tornarono sulle mie, stavolta con maggiore intensità. Fu del tutto inaspettato e la decisione migliore sarebbe stata quella di allontanarmi; al contrario, l'istinto mi tradì e sconfisse ogni resistenza, quando schiusi la bocca e ricambiai il bacio.

Allacciai le braccia dietro al suo collo e mi accostai tanto che il mio petto aderì al torace di Connor, mentre le sue mani mi artigliarono i fianchi. Le dita affondarono nella mia pelle, come a volermi lasciare il segno, perdendo la delicatezza con cui mi aveva sfiorata prima. Incastrai le falangi tra i suoi capelli umidi e strattonai i ciuffi scuri con altrettanto impeto.

La bocca di Reed divorò la mia in modo irruento, le nostre lingue si intrecciarono e ci privammo a vicenda dell'ossigeno. L'acqua ci ribolliva intorno, increspandosi secondo i movimenti disordinati dei nostri corpi, e le volute di vapore ci avvolgevano in spirali calde. Connor mi strinse il bacino e mi fece indietreggiare fino al bordo della piscina, dopodiché mi sollevò e mi fece sedere sulle mattonelle bagnate, con lui tra le mie ginocchia. Le mie gambe gli cinsero i fianchi e portai le mani sul suo petto, esplorando l'addome definito e le spalle ampie.

Il cambio di temperatura mi procurò i brividi, eppure il freddo era minimo rispetto all'incendio che si era sprigionato in me, incrementato dalle labbra di Connor che cominciarono a scendere lungo il mio collo. Disseminò baci languidi sulla gola e le clavicole, arrivò a sfiorare il tatuaggio sul cuore e l'orlo del reggiseno pregno d'acqua. Mi rubò un gemito quando seguì il contorno della coppa con la lingua, per poi risalire a mordicchiare un lembo di pelle sotto la mandibola. Emisi un respiro ansante, che lui fermò catturando di nuovo la mia bocca nella sua.

«Cazzo, May, mi mandi fuori di testa» sussurrò al mio orecchio, a corto di fiato. Posizionò il palmo sulla mia nuca, tra l'attaccatura delle trecce scombinate, e schiacciò la fronte contro la mia. L'altra mano mi sorreggeva la schiena, per tenermi vicina al suo petto che si gonfiava e sgonfiava in affanno, allo stesso ritmo del mio respiro concitato. «Ti volevo baciare dal primo momento in cui ti ho vista. Non dire più che non significa niente, perché lo sento che proviamo le stesse cose.»

La muraglia di passione e desiderio che mi aveva intrappolata si disintegrò di colpo. Udendo le affermazioni di Connor, mi risvegliai da quella specie di sortilegio.

Lo sento che proviamo le stesse cose.

Mi divincolai dalla sua presa e lo spintonai via. Reed non si oppose e indietreggiò nella piscina, confuso dal mio scatto improvviso. Con i battiti accelerati e il corpo che bruciava ancora, mi alzai in piedi e recuperai i miei abiti dal lettino.

«Mi devi restare alla larga» gli ordinai, senza nemmeno degnarlo di una misera occhiata. Indossai in fretta i vestiti, nonostante la pelle bagnata che si appiccicò al tessuto. «Abbiamo fatto un'enorme stronzata ed è meglio che non ricapiti.»

Connor era troppo spaesato per ribattere. Mi osservava ammutolito, lo sguardo colmo di preoccupazione. Si accostò al bordo della vasca e tutto ciò che riuscì a mormorare fu: «Ho sbagliato qualcosa?».

«No. Ti chiedo solo di mantenere le distanze, la prossima volta che ci incontriamo» risposi, simulando un tono di voce intransigente. «Buonanotte, Reed.»

Gli voltai le spalle, mancando del coraggio di affrontarlo, e uscii a passi veloci dall'area termale. Mi autoconvinsi che avevo preso la decisione giusta, eppure non riuscii a scacciare la sensazione di rammarico che mi pesava come un macigno sul cuore.

Angolo autrice

Buongiorno readers ♥️

Quello di oggi è un capitolo abbastanza intenso e dedicato quasi interamente ai nostri protagonisti. Dopo un piccolo scorcio in cui vediamo Danny e Seimir (presto tornerò anche su questa coppia), May e Connor condividono un momento intimo sia a livello sentimentale che fisico.

May ha mostrato a Connor le cicatrici lasciate dall'addestramento e gli ha parlato a grandi linee della morte dei suoi genitori, mentre lui ha cercato di rincuorarla con la sua solita gentilezza. Ho adorato scrivere i loro dialoghi, perché finalmente May riesce ad aprirsi un po' e a fidarsi di Connor.

Poi, dopo 27 capitoli e numerosi extra, il momento tanto atteso è arrivato. Vi ho fatto penare anche troppo per questo primo bacio, ma spero che sia stato all'altezza delle vostre aspettative. Naturalmente May è fuggita, da brava codarda qual è, ma nel prossimo capitolo capiremo meglio le sue motivazioni.

Come sempre, aspetto di leggere i vostri pareri nei commenti. Credo che questo sia il mio capitolo preferito finora, per ovvi motivi ✨️

Vi ricordo anche di seguirmi sui social, dove mi trovate come miky03005s.stories

Alla prossima! Xoxo <3

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