Capitolo 22
Ekaterinburg, Siberia Occidentale, 14 novembre 2019
Atterrammo a Ekaterinburg nel tardo pomeriggio, in seguito a poco più di due ore di volo sul jet privato di Egor. Lasciammo il veicolo in custodia a un uomo del luogo che si proclamava conoscente del vory e, per prima cosa, ci dirigemmo in albergo con un taxi.
L'hotel era una misera pensione a tre stelle situata nella periferia della città, nei pressi della taiga siberiana, tagliata dal corso del fiume Iset'. Dato che non potevamo dare troppo nell'occhio e che la mafia di Ekaterinburg controllava le strutture che apportavano i guadagni maggiori, evitammo i resort di lusso. Un gran peccato, ma in fin dei conti non mi dispiaceva il paesaggio naturale che si intravedeva dalla finestra della mia camera.
Condividevo la stanza con Larysa, che ultimamente non era di grande compagnia. Per tutto il viaggio era rimasta in silenzio, a guardare il cielo plumbeo oltre il finestrino, persa in chissà quali riflessioni. Quasi non mi sentì, quando la informai che dovevamo scendere nel parcheggio per discutere del piano d'azione.
Arrivammo per ultime e ci aggregammo al gruppo composto da due sicari veterani e gli unici novellini rimasti, Connor e Isidora. Mi obbligai a non incrociare lo sguardo di Reed. Avevo deciso di cancellare dalla memoria quel momento in palestra e di non avvicinarmi più a lui, perché disintegrava la mia razionalità con un semplice sfioramento. Non dovevo permettermi distrazioni di alcun tipo in missione, o avrei messo l'intera squadra in pericolo e impedito la buon riuscita del piano.
«Il nostro obiettivo è l'organizzazione dei Grandi Urali, la banda criminale più potente della città» spiegò Demid, il veterano che avrebbe comandato i nostri spostamenti e le nostre azioni. «La banda si ramifica in tre sottogruppi: gli Uralskaya, i Centralen e i Blues. Noi ci divideremo in altrettante coppie e daremo la caccia a una fazione diversa. Per attirarli in trappola, attaccheremo la fabbrica di impianti industriali Uralmash e le sue varie filiali, in quanto attività più importante gestita dai mafiosi di Ekaterinburg. Prima o poi il boss uscirà allo scoperto e, a quel punto, dovremo semplicemente ucciderlo.»
Aslan Tsyganov, il vory dei Grandi Urali, era il nostro vero obiettivo. Lui ed Egor si erano scontrati durante un'asta a San Pietroburgo, un paio di mesi prima, dove si erano contesi alcune prostitute. Tra le donne in vendita c'era anche la piccola Emma, la ragazzina che io e Connor avevamo liberato. Egor aveva vinto l'asta e, secondo lui, la chiusura dei bordelli del Ghetto era opera di Tsyganov, come segno di sfida e di vendetta nei suoi confronti.
Quella era la storia che ci aveva raccontato, ma ero convinta che in realtà volesse soltanto approfittarne per indebolire un'organizzazione nemica e che non avesse la minima idea di chi si nascondesse dietro le denunce anonime. Se il colpevole era davvero Tsyganov, lo avremmo scoperto presto.
«Ricordate che dovete solo generare un po' di scompiglio, per ottenere l'attenzione dei nemici. Non voglio carneficine, non finché non troviamo il vory» ordinò Demid, il tono intransigente e l'espressione severa. «Ritroviamoci in hotel tra due ore. Cercate di non farvi vedere né dagli sbirri né dai civili.»
Annuimmo come soldatini obbedienti e ci dividemmo in tre coppie, ognuna incaricata di rintracciare un sottogruppo specifico della banda: a me e Larysa fu assegnata la fazione degli Uralskaya. Dalle nozioni ricavate grazie alle spie di Egor, appresi che i membri di quella categoria dei Grandi Urali erano particolarmente forti e violenti, esperti di omicidio su commissione, rapimento e traffici illegali di materiale che ricavavano dalla fabbrica Uralmash. L'azienda metallurgica, la cui sede centrale era collocata nel distretto nord della città, era la nostra destinazione.
Armate di pistole e coltelli ben celati sotto gli abiti pesanti, ci incamminammo lungo le strade imbiancate di Ekaterinburg, con la neve che cadeva fitta sulle nostre teste e il vento che ci ostacolava. Non dovevo dimenticare che ci trovavamo nella gelida Siberia, sul confine tra Europa e Asia, e che in confronto il clima di Mosca poteva definirsi tropicale.
Fortunatamente la fabbrica non era distante dall'hotel e la raggiungemmo in poco tempo. Ci appostammo dietro l'angolo di un palazzo condominiale e studiammo da lontano l'edificio grigio dell'azienda, tappezzato di finestre rettangolari su tutti e sei i piani, con il logo scritto in cirillico che svettava sulla sommità. L'ingresso era sbarrato da un cancello di ferro sorvegliato da un energumeno in giacca e cravatta. Poiché si trattava della sede centrale, non era lì che si producevano i macchinari, ma erano presenti solo gli uffici amministrativi.
«Tu lo distrai e io getto il fumogeno» decretò Larysa, che si era improvvisamente rianimata. Le missioni la caricavano di adrenalina. «Poi entriamo e facciamo piazza pulita. Li massacriamo tutti.»
Mi girai a guardarla con un sopracciglio inarcato. «Hai ascoltato Demid? Niente carneficine. Dobbiamo soltanto fare un po' di casino per attirare il boss. In quel palazzo ci sono anche dei civili innocenti.»
«Da quando sei diventata così premurosa?» replicò seccata. «Più stronzi uccidiamo, prima torniamo a Mosca. Dobbiamo sbarazzarci in fretta dei nemici.»
«Non è una nostra decisione. Limitiamoci a eseguire gli ordini. Dammi, me ne occupo io.» Le strappai di mano la granata fumogena. «Tu pensa all'uomo di guardia.»
Dopodiché, uscimmo allo scoperto e prendemmo due direzioni diverse: Larysa si incamminò verso l'ingresso dei cancelli e io mi posizionai in fondo alla strada, aspettando il momento giusto per la seguente mossa. La mia partner catturò lo sguardo dell'energumeno e lo intrattenne in una conversazione infarcita di sorrisi melensi e occhiate persuasive, che da laggiù non potevo udire.
Mentre Larysa e l'uomo parlavano, mi aggrappai all'inferriata del cancello, stringendo le sbarre tra le dita protette dai guanti di pelle. Lo scavalcai con agilità e atterrai dal lato opposto senza emettere alcun rumore, grazie al tappeto di neve sopra al quale i miei anfibi stamparono un'impronta.
Dovevo sbrigarmi; ero sicura che in quel preciso istante le videocamere di sorveglianza mi stessero riprendendo. Superai in ampie falcate il cortile e raggiunsi il retro dell'edificio. Mi avvicinai a una finestra del primo piano, appannata dalla condensa, e sparai un colpo preciso in mezzo alla lastra di vetro, che divenne una ragnatela di crepe. Un coro di urla ed esclamazioni si sollevò all'interno dell'edificio.
Usando il calcio della pistola, ridussi la finestra in frantumi e creai uno spazio abbastanza grande per lanciare il fumogeno. Tirai con i denti l'anello della sicura e gettai la granata oltre il telaio. Rimbalzò sul pavimento dell'ufficio e, nel giro di un secondo, sprigionò una spessa cortina di fumo bianco, una miscela di gas soporiferi che avrebbero addormentato il personale per qualche oretta. Sentii gli impiegati che tossivano e chiamavano aiuto, e sorrisi piano tra me per la buon riuscita del piano.
Mi allontanai dalla finestra e arrancai nella neve fino al cancello. Quando provai a scavalcarlo, tuttavia, una voce tonante accompagnata dallo scatto di un fucile mi bloccò. Mi voltai lentamente, le mani sollevate in segno di resa.
«Yesli by ya byl toboy, ya by ne sdvinulsya s mesta, devochka» dichiarò un uomo con aria minacciosa, puntandomi la canna di un Mosin-Nagant all'altezza del petto.
Dietro di lui, una comitiva di soldati armati e vestiti con mimetiche verdi. I numerosi tatuaggi e gli sfregi sulla pelle mi suggerivano che non facessero parte delle forze dell'ordine statali. Intuii di essermi imbattuta negli Uralskaya, la divisione della mafia di Ekaterinburg che dovevamo attaccare, ma senza farci scoprire.
Ero decisamente nella merda.
«Kto tebya syuda poslal?» domandò colui che identificai come il capo del gruppo. «Ty krysinoy iz Tsyganov?»
Afferrai solo l'ultima parola, il nome del loro boss. Con la mia consueta maschera di sicurezza sfacciata, proclamai: «Mi trovo qui per conto di Egor Bayan, vory di Mosca. Riferite ad Aslan Tsyganov che siamo venuti a cercarlo per ripagare un torto».
I criminali si guardarono tra di loro poi, prendendomi del tutto in contropiede, scoppiarono a ridere in modo sguaiato, rivelando i denti anneriti dal fumo. Una smorfia stizzita mi increspò i lineamenti. Che cazzo ci trovavano di così divertente?
«Sei nel posto sbagliato, ragazzina. La nostra banda ha tagliato i ponti con Tsyganov da anni» mi spiegò il capo, che non aveva ancora abbassato il fucile. «Non otterrai niente, qui. Abbiamo riconquistato la sede principale della fabbrica dopo una lunga lotta tra clan. Quel bastardo di Tsyganov si è rifugiato presso i Centralen o i Blues, in qualche lurida succursale della periferia. Non lo sappiamo neanche noi.» Si avvicinò di un passo e l'arma che impugnava virò la direzione verso la mia fronte. «Ma forse tu lo sai e puoi condurci nella sua tana. Scommetto che sei una spia e che ti ha mandata lui, non è vero?»
«Te lo già detto, lavoro per Egor Bayan. Vengo da Mosca. Anche io sono a caccia di Tsyganov» ribattei. Un'idea mi attraversò la mente. «Possiamo collaborare, dato che abbiamo lo stesso scopo. Voi ci potete orientare nella città e noi possiamo fornirvi il nostro aiuto per...»
L'esplosione di una sequenza di spari troncò la mia proposta. Mi pietrificai notando che molti membri del gruppo erano caduti al suolo, i corpi trivellati immersi in una pozza di sangue che sporcava la neve candida. Identificai subito la responsabile di quel massacro: Larysa, poco distante, impugnava una mitragliatrice e pareva più agguerrita che mai.
Allora scoppiò il caos. Il capo degli Uralskaya si voltò con il dito premuto sul grilletto, per sparare a Larysa, ma gli piantai un calcio sulla schiena e una gomitata nel costato. L'uomo si piegò in due e gli sfilai il fucile dalle mani, usandolo per difendermi dai soldati che cominciarono ad assalirmi. Fui costretta a ucciderne alcuni, e una sensazione amara si diffuse come un bruciore alla bocca dello stomaco.
Non erano loro i nostri veri nemici; stavamo commettendo uno sbaglio imperdonabile. Realizzai che dopo quell'aggressione avrebbero senza dubbio creduto che collaborassimo con Tsyganov. Avevamo appena perso dei validi alleati, per colpa della furia di Larysa.
Raggiunsi la mia partner e ci mettemmo spalla contro spalla. Sembrava una folle, mentre sparava alla cieca con la mitragliatrice. Un vortice di proiettili investì i membri dell'Uralskaya, i quali crollavano sulla neve e si univano ai cadaveri dei compagni. Quando le munizioni terminarono, Larysa gettò via l'arma da fuoco e sfoderò i suoi immancabili coltelli, fiondandosi sui pochi uomini rimasti in piedi. La imitai brandendo il Mosin-Nagant.
Improvvisamente, un braccio mi circondò il collo e finii schiacciata tra le inferriate del cancello e il corpo possente di un soldato. Riconobbi il capo del gruppo, che non era ancora morto. Agguantò un coltello dalla mia cintura e, senza alcuna remora, lo affondò nella mia coscia destra, fino all'impugnatura. Il fucile mi scivolò dalle mani e urlai tanto da terminare l'aria nei polmoni, per la scossa di dolore fulminante che mi travolse.
«Lo sapevo che appartenevi a Tsyganov» ringhiò l'uomo, stringendomi il mento per obbligarmi a guardarlo in faccia. Il suo volto era una macchia indistinta, a causa delle lacrime di sofferenza mi appannavano gli occhi. «Dimmi dove cazzo si nasconde, o giuro che ti taglio la gola.» Premette il filo della lama sull'arteria pulsante e incise una ferita leggera. «Hai tre secondi per parlare, fottuta ragazzina.»
Annaspavo senza fiato, stordita dal male atroce che mi percorreva la gamba. Percepivo un fiume di sangue che sfociava dal punto in cui il coltello era ancora affondato. Sapevo di essere vicina a uno svenimento, perché la mia coscienza iniziò a offuscarsi. Non avevo le forze sufficienti per liberarmi dalla presa del mafioso.
«Odin... dva... tri...» contò per intimidirmi, ma si arrestò in seguito a uno sparo. Con le palpebre spalancate e lo sguardo vitreo, il suo corpo si afflosciò per terra. Notai il foro scavato da un proiettile sulla nuca dell'uomo e Larysa che stringeva il fucile che mi era scivolato prima.
«Abbiamo ripulito la zona da un po' di feccia» dichiarò soddisfatta, scrutando la distesa di sangue e cadaveri con un ghigno di vittoria sulle labbra. «Siamo sempre la squadra migliore, MayMay.»
«Invece hai fatto un casino, stupida» sibilai tra i denti. «Hai ammazzato dei potenziali alleati. Erano la nostra unica pista verso Tsyganov.»
Mi lasciai cadere nella neve, appoggiando la schiena al cancello. Dopo avrei pensato alle cazzate di Larysa; ora la cosa più importante era occuparmi della mia ferita. Intrappolai tra le dita l'elsa del coltello e, con un movimento rapido e un grido che mi raschiò le corde vocali, estrassi la lama dalla coscia. Un profondo squarcio si era aperto sulla pelle, sotto il tessuto lacerato dei pantaloni militari. Per placare la fuoriuscita del sangue, strappai un lembo di stoffa e lo utilizzai per avvolgere la ferita.
«Be', non importa. Erano comunque parte dei Grandi Urali, perciò nostri nemici» replicò Larysa. «Aspetta, ti aiuto.»
Mi cinse il busto con un braccio e mi sorresse, aiutandomi a stabilizzarmi sulle gambe tremanti, poi ci incamminammo verso l'hotel. Non mi preoccupai troppo della strage che ci lasciammo dietro: la polizia di Ekaterinburg avrebbe attribuito la colpa a qualche altra banda criminale. Eravamo solo di passaggio in quella città, d'altronde. Ciò che mi impensierì e su cui riflettei durante la strada di ritorno era il comportamento assurdo di Larysa. Le azioni sconsiderate erano il suo marchio di fabbrica, ma non a quei livelli.
«Che cazzo ti è saltato in testa?» le chiesi d'un tratto, in tono brusco. «Perché non mi hai ascoltata? Dovevamo solo creare un diversivo e attirare l'attenzione, invece per colpa tua siamo finite in una carneficina. Perché hai tutta questa fretta di sterminare i Grandi Urali e tornare a Mosca?»
La mia migliore amica, che in quell'ultimo periodo faticavo a riconoscere, scrollò le spalle in un gesto di noncuranza. «Non farne una tragedia. Forse ho ucciso gli stronzi sbagliati, ma erano comunque stronzi. La città vivrà meglio senza la loro presenza, fidati.»
«Esistono modalità meno violente, sai?»
Mi tirò un'occhiata indagatrice. «Perché ti ostini a fare la paladina dei diritti umani? Un tempo gli omicidi ti divertivano» sbuffò annoiata.
Aveva ragione, anche io mi stavo comportando in modo diverso dalla norma. In me era avvenuto un cambiamento graduale, un processo lento e faticoso che non capivo quando fosse iniziato, né a causa di chi. Ero diventata più... clemente. Non ricordavo l'ultima volta in cui avevo ucciso qualcuno a sangue freddo per motivi diversi dalla sete di vendetta.
Mi scervellai su quella novità inspiegabile finché non giungemmo nel parcheggio dell'hotel, dove la nostra squadra si era già riunita. Riportammo il resoconto della missione e subimmo in silenzio i rimproveri di Demid, che ci accusò di aver messo a repentaglio la missione. Non scaricai tutta la colpa su Larysa, ma condivisi il fardello con lei, perché nonostante le sue stronzate le volevo bene e non avrei mai tollerato che qualcuno le mancasse di rispetto. Raccontai però al sicario di Egor ciò che avevo scoperto, ovvero che Tsyganov collaborava con i Centralen o i Blues e aveva scelto una base lontana dalla città.
«Se entro stasera non arriveranno messaggi dal loro boss, domani torneremo all'attacco. Quel coniglio non può nascondersi ancora a lungo» asserì Demid con convinzione. Si rivolse a tutti i presenti: «Andate a riposare e ritroviamoci qui alla stessa ora».
Sciogliemmo il gruppo e rientrammo nell'hotel. La receptionist ci scrutava con la coda dell'occhio, probabilmente sospettando che i nostri affari non fossero molto legali, ma scelse saggiamente di tacere. Gli altri andarono nella sala ristorante per la cena, ma il mio stomaco era chiuso e tutto ciò di cui necessitavo in quel momento era un antidolorifico e una bendatura decente. Per fortuna Egor aveva mandato con noi uno dei medici che lavoravano alla Villa.
Mi aggrappai con una presa salda alla ringhiera delle scale e cominciai a salire i gradini di marmo opaco, zoppicando a ogni passo. Morsi l'interno della guancia per non urlare, intanto che spingevo i muscoli al limite per sollevare la gamba. Stavo facendo una fatica immensa; ero stordita dal dolore e rischiai di ruzzolare giù dalla rampa più volte.
Non mi accorsi subito della sua presenza. Mi affiancò e il suo braccio mi circondò la vita, stringendomi a sé e facendo aderire i nostri profili. Le mie dita strinsero la manica della sua felpa e, pur senza desiderarlo, mi appoggiai completamente a Connor. Non avevo le forze mentali o fisiche per respingerlo e il suo aiuto si rivelò fondamentale per arrivare al pianerottolo sana e salva.
«Ti sto aiutando un po' troppe volte a salire le scale, non credi?» mi canzonò in tono dolce, il suo braccio ancora intorno al mio busto, nonostante fossimo arrivati in cima alla rampa.
«Grazie» mormorai stanca, sollevando lo sguardo per incontrare il suo. Non mi scansai dalla sua stretta delicata, perché mi serviva un sostegno. Inoltre, mi piaceva la sensazione del suo corpo così vicino al mio, anche se non lo avrei ammesso neanche sotto tortura. «Puoi tornare a cena. Riesco ad arrivare in camera da sola.»
«Sei ferita e hai bisogno di punti. Lascia che ti accompagni dal medico, almeno» insistette, indicando la fasciatura grezza e pregna di sangue che mi tamponava la coscia.
«Non scomodarti. Non ho bisogno che mi fai da infermiere» declinai, emettendo una risatina di scherno.
Dai suoi occhi trasparì l'irritazione. «La smetti di essere così fastidiosamente orgogliosa? Non è un dramma, se ogni tanto permetti a qualcuno di aiutarti.»
«Non voglio che quel "qualcuno" sia tu, Reed, perciò levati dalle palle» sbottai.
Connor sciolse la presa dal mio corpo e dovetti reggermi alla parete per riacquistare l'equilibrio. Sembrava offeso dalla mia risposta, ma era lui che aveva la straordinaria capacità di distruggere la mia già poca pazienza con uno schiocco di dita.
«Lo stai facendo di nuovo, May» mi colpevolizzò all'improvviso, le parole che trasudavano rabbia. «Mi stai respingendo dopo che ci siamo avvicinati, perché hai paura di Dio solo sa cosa. Qual è il tuo problema? Ti turba ciò che è successo l'altro giorno in palestra?» Accostò il viso al mio e le sue pupille mi scavarono dentro. «Perché scappi da me? Perché mi eviti? O forse è dai tuoi sentimenti, che continui a fuggire?»
«Ma ti stai ascoltando, Reed? Stai davvero parlando di sentimenti con me? Tra noi non è successo un bel niente, e se ti evito è perché non sopporto la tua presenza. Mettitelo in testa e togliti queste idee ridicole.»
Lo scansai con una spallata e mi avviai verso la mia camera, ma la sua voce mi congelò sul posto: «A me non sembrava che tu schifassi tanto la mia presenza, mentre mi eri seduta sopra. O mi sono immaginato tutto, Milady?».
Quella era una provocazione bella e buona, e il modo in cui pronunciò quel Milady mi scaturì un fremito alla base della schiena, che risalì fino al petto. Un calore improvviso mi scaldò il viso e il collo, nel ripensare a quei fugaci ma intensi attimi vissuti in palestra, a come i nostri corpi combaciavano e ai brividi che mi rivestivano la pelle dove i suoi polpastrelli mi sfioravano. Connor non aveva tutti i torti: sì, la sua presenza mi faceva impazzire - a volte in negativo, altre volte in positivo - e sì, lo stavo evitando perché avevo paura di ciò che provavo quando annullavamo le distanze.
Demoliva il mio scudo con delle semplici carezze. Mi rendeva vulnerabile solo guardandomi negli occhi e sorridendomi. E lo detestavo per questo, cazzo.
«Ti sei immaginato tutto» ribattei, spezzando il flusso dei miei pensieri e riparandomi dietro la confortante maschera di ghiaccio che sfoggiavo da anni. «Non aprire più l'argomento, per favore. Ti ricordo che siamo in missione e che dobbiamo restare concentrati. È meglio se andiamo a dormire e non ci rivolgiamo più la parola, finché non torniamo a Mosca.»
I lineamenti di Connor si irrigidirono. Più che incazzato, però, appariva deluso e ferito. «Ho capito. Sto solo sprecando tempo. È impossibile parlare civilmente con te.»
Dopodiché, si voltò e scese le scale velocemente, abbandonandomi sul pianerottolo. Mi aveva mollata lì senza degnarmi più di uno sguardo. E un po' ci rimasi male, anche se era un pensiero ipocrita e non avevo nessun diritto di ricoprire il ruolo della vittima. D'altronde ero stata io a trattare Connor come se non contasse niente. Lui era sempre stato fin troppo gentile e paziente con me.
E non me lo meritavo affatto. Perciò una piccola porzione della mia anima sperò che Reed non soffrisse dei miei comportamenti, perché per una come me non ne sarebbe mai valsa la pena.
Ekaterinburg, Siberia Occidentale, 15 novembre 2019
Il cigolio dei cardini della porta e il suono di passi che calpestavano il pavimento mi svegliarono dal mio sonno leggero. Mi rigirai nel letto, cercando di addormentarmi di nuovo, ma nella semioscurità della stanza notai che l'altra metà del materasso era vuota. Dove si era cacciata Larysa?
Mi alzai a sedere e mi guardai intorno, assottigliando le palpebre per abituarmi alla mancanza di luce. L'unica fonte luminosa erano i deboli raggi lunari che filtravano dalle imposte dalla finestra e - me ne accorsi a scoppio ritardato - le lampade del corridoio che si intravedevano dallo spiraglio schiuso della porta. Sentii un mormorio, come se qualcuno stesse parlando fuori dalla camera.
Scesi dal letto, sforzandomi di non emettere rumori, e zoppicai fino alla porta. Attraverso la fessura aperta, sbirciai il corridoio e riuscii a delineare la figura di Larysa, che camminava avanti e indietro sulla moquette. Notando la mano sollevata vicino all'orecchio, dedussi che fosse al telefono. Il problema era che stava parlando in russo, dunque non capii una sola parola.
Forse la persona con cui stava conversando era anche la motivazione dei suoi strani atteggiamenti. Certa di quell'ipotesi, recuperai il mio telefono e accesi il programma di registrazione. Se Larysa avesse scoperto che stavo origliando le sue chiamate mi avrebbe distrutta, ma la curiosità ebbe la meglio. Dovevo scoprire a tutti i costi cosa nascondeva e perché quella telefonata era così urgente da non poter aspettare il sorgere del sole.
Quando riattaccò, mi sbrigai a tornare a letto e finsi di dormire. Ormai non riuscivo più a prendere sonno, perciò aspettai con impazienza che giungesse l'alba. La mattina seguente non mi premurai di svegliare Larysa, ma mi vestii in fretta e scesi nella sala ristorante, dove trovai Isidora intenta a farcire un toast.
«Ho bisogno di un favore» esordii, senza inutili preamboli. «Se ti faccio ascoltare una registrazione, puoi tradurmi le parole che senti?»
La novellina bionda mi squadrò interdetta, mentre addentava il pane. «Perché lo stai chiedendo proprio a me? Sei circondata da persone che conoscono il russo e io e te non abbiamo mai avuto una conversazione più lunga di cinque minuti.»
«Sei l'unica a cui posso domandarlo, ora come ora» confutai, liquidando la questione senza ulteriori dettagli. «Quindi? Puoi aiutarmi?»
Alla fine acconsentì, seppur con scetticismo, e avviai la registrazione salvata sul telefono. «Ne vykhodit' iz doma ni po kakoy prichine... bud' ostorozhen... ya skoro vernus'... ya tozhe skuchayu...»
Isidora ascoltò con attenzione, l'espressione assorta, e quando udì l'ultima frase i suoi occhi si allargarono di sorpresa. La traccia audio terminò e mi rivolse un interrogativo che mi lasciò spiazzata: «Da quando quella pazza di Larysa è fidanzata?».
«Fidanzata?» ripetei sconvolta. «Cosa ha detto?»
«Si stava raccomandando con qualcuno di non uscire di casa e di fare attenzione, poi ha aggiunto che tornerà presto e che questa persona le manca. Credo che si tratti di un ragazzo. Ostorozhen è un aggettivo al maschile.»
Mi sarei aspettata di tutto, ma non che si trattasse di una telefonata romantica e che la mia migliore amica mi nascondesse addirittura una relazione. Non c'erano mai stati segreti, tra noi due. Perché non si era confidata con me?
«Davvero non lo sapevi?» mi domandò Isidora, vedendomi esterrefatta. «Credevo che foste amiche.»
«Sì, lo credevo anche io» sussurrai, più a me stessa che alla novellina. «Grazie per l'aiuto, comunque. Ti prego di non parlarne a Larysa.»
Mi tranquillizzò e uscii dalla sala ristorante per dirigermi in camera. Dovevo chiarire quella situazione in modo definitivo e farmi raccontare la verità dalla diretta interessata. La avrei messa alle strette. Non mi sarebbe sfuggita, stavolta. La mia priorità non era più la seconda fase della missione, che tra poco sarebbe iniziata, ma salvare la nostra amicizia.
Quando arrivai nella stanza che condividevamo, trovai il letto vuoto e le coperte in disordine. Dal suono dell'acqua che scorreva oltre la porta del bagno, intuii che Larysa fosse sotto la doccia. Mi sedetti sul materasso e la aspettai a braccia incrociate, ma ci stava impiegando troppo tempo e la mia pazienza aveva un limite molto ridotto.
A distrarmi fu il trillo di una notifica. Individuai il telefono di Larysa abbandonato tra le lenzuola e, seguendo un impulso che non riuscii a smorzare, lo afferrai. Era sbagliato, lo sapevo. Mi rimproverai da sola, dandomi della pessima amica, mentre inserivo la password che lei stessa mi aveva rivelato. Entrai nell'applicazione dei messaggi e trovai tutte le chat svuotate, a eccezione di un contatto salvato con la semplice emoji dello scorpione, che aveva appena inviato un "dobroye utro, ved'ma". Tutti i messaggi precedenti erano stati cancellati, strano.
Mi spostai sul registro delle chiamate e notai che aveva inoltrato parecchie telefonate allo stesso numero, nelle ultime settimane. Osservai la sequenza di cifre con l'impressione di averla già vista da qualche parte, finché non la riconobbi: era il numero del telefono fisso di casa di Larysa. Chi stava chiamando dal suo appartamento?
Provai a sbirciare anche la galleria, però una voce mi sorprese e sobbalzai, lasciando cadere il cellulare sul pavimento. «Adesso funziona così, quindi? Ci spiamo?»
Sollevai lo sguardo, incrociando le iridi celesti e oscurate di collera di Larysa, con i capelli gocciolanti e l'accappatoio di spugna blu addosso. Se non mi avesse colta in flagrante a curiosare nel suo telefono, avrei riso per le circostanze assurde.
«E tu perché non mi hai neanche accennato della tua presunta relazione?» passai al contrattacco, alzandomi in piedi per fronteggiarla. «Ti fidanzi e non pensi di dirmelo?»
Larysa spalancò gli occhi e, per un effimero attimo, mi sembrò quasi spaventata. Si riscosse, simulando un'espressione indifferente, e si abbassò per raccogliere il telefono da terra. «Fatti i cazzi tuoi, May. Non sono questioni che ti riguardano.»
«Mi riguarda, invece, dal momento che ti stai comportando da irragionevole a causa di un ragazzo» imputai in tono sdegnato. «Ti consideravo più intelligente di così. Davvero hai perso la testa per un po' di sesso?»
Larysa serrò la mandibola e mi scoccò uno sguardo fumante di rabbia. «Non ti azzardare più a parlare di ciò che non sai. Te lo ripeto: fatti i cazzi tuoi. E già che ci sei chiedi a Demid di cambiarti partner, perché non ti voglio più vedere fino al termine della missione. Non posso lavorare con qualcuno che non rispetta la mia privacy.»
«Con piacere» sibilai furibonda. «Neppure io ci tengo a stare in coppia con qualcuno che non ha un briciolo di autocontrollo.»
Lei sfoggiò un ghigno irrisorio. «Sono certa che non mi rimpiangerai, allora.»
Non era vero. Rimpiansi la compagnia di Larysa non appena scoprii che il mio nuovo partner era niente di meno che Reed. Non me ne andava bene una, porca puttana.
Io e Connor stavamo camminando per il centro di Ekaterinburg, diretti alla fermata dei pullman più vicina. Dovevamo raggiungere con l'autobus la zona periferica dove sorgeva una delle filiali della fabbrica Uralmash, nella quale si rifugiava il sottogruppo dei Blues, esperti in traffici illegali di petrolio, droga e armi. Se fossimo stati fortunati, avremmo stanato anche Tsyganov, il loro boss.
Percorremmo la Ulitsa Tolmacheva, una strada che costeggiava i monumenti più belli e importanti della città. Passammo davanti alla Cattedrale sul sangue, edificata all'inizio degli anni Duemila in memoria del massacro della famiglia imperiale Romanov. La chiesa sorgeva sullo stesso terreno dove lo zar Nicolaj II era stato fucilato insieme alla moglie e alle sue quattro figlie, in seguito alla Rivoluzione russa del 1917.
Connor si limitò a osservare le cupole dorate e sfavillanti e l'elegante struttura dipinta di bianco, ma non aggiunse nessun commento a proposito della storia o della costruzione della Cattedrale, come invece faceva di solito. Mantenne un silenzio opprimente, ed ero consapevole che la ragione del suo mutismo fossi io. Non lo avevo trattato nel migliore dei modi, la sera precedente, e Reed stava solo rispettando la richiesta che gli avevo fatto, ovvero di non rivolgermi più la parola per non distrarmi dalla missione.
Improvvisamente mi pentii di essere stata così scontrosa con lui, perché non lo meritava affatto. Ora che anche Larysa mi ignorava, non mi restava nessuno con cui intrattenere una conversazione. La solitudine era sempre stata mia amica, eppure cominciavo a sentire il bisogno di sfogarmi con qualcuno per non impazzire.
«Mi dispiace per ieri» sputai le parole come se fossero state incandescenti. Connor si paralizzò di scatto, l'espressione a dir poco sbalordita per quell'affermazione inaspettata. Non potevo più tornare indietro, perciò inalai un profondo respiro di incoraggiamento e proseguii in quell'impresa per me titanica. «Sono stata una stronza, me ne rendo conto. Stavi solo cercando di aiutarmi e ti ho respinto senza motivo. Anzi, un motivo c'è: ero stanca e ferita, ma soprattutto avevo paura. Non so bene di cosa, ma tu mi confondi le idee come nessun altro. Non ti sopporto, è vero, ma al mio corpo non dispiace starti vicino. E poi... mi mancano le tue nozioni artistiche, quindi sarebbe bello se mi perdonassi e mi raccontassi qualcosa sulle meraviglie di questa città.»
Non sapevo come mi fosse uscito un discorso del genere. Per una volta avevo zittito la ragione e avevo lasciato che il cuore si esprimesse a ruota libera. Stavo andando letteralmente a fuoco e volevo seppellirmi per l'imbarazzo, tuttavia non distolsi le mie iridi da quelle di Connor, che erano ricolme di stupore e confusione.
«Sto sognando o davvero Maybelle Holsen mi ha appena chiesto scusa?» domandò, l'angolo delle labbra incurvato in un mezzo sorriso compiaciuto. «Per caso ha anche aggiunto che le mancano le mie conoscenze culturali?»
Roteai gli occhi al cielo, trattenendo la voglia di prenderlo a schiaffi. «Sì, Reed, hai sentito bene. Ammetto di aver esagerato. Puoi farmi il piacere di chiudere la questione senza diffonderla pubblicamente? Ho una reputazione da salvaguardare.»
Inclinò la testa e un ciuffo scuro gli ricadde sulla fronte. I cristalli di neve impigliati tra i capelli gli donavano particolarmente. «Hai anche ammesso che non ti sono indifferente, Milady.»
«Non saltare a conclusioni affrettate. Forse il mio corpo non ripugna il tuo, ma la mia mente continua a trovarti irritante» ribattei con un pizzico di acidità.
«D'accordo, fingerò di crederti, se è questo che desideri.» Le sue pupille si collocarono sulla gamba che aveva ricevuto la coltellata. «Come va la ferita? Riesci a camminare?»
Annuii. «Molto meglio. Posso muovermi senza spasmi di dolore, perlomeno.»
«Allora spero che non ti dispiaccia fare una piccola deviazione e raggiungere una fermata dell'autobus più lontana. Ne varrà la pena, giuro.»
«Stupiscimi, Reed.» Come se non lo facessi sempre.
Lo seguii verso questa meta sconosciuta, passeggiando al suo fianco sotto la neve che cadeva leggera. Arrivammo in fondo alla strada e svoltammo nella Ulitsa Lenin, molto più trafficata e affollata. Individuai in lontananza un edificio dai colori sgargianti e capii subito dove mi stesse conducendo Connor.
«La Casa Sevastyanov» attestai, quando ci fermammo dinanzi alla facciata principale della struttura.
In quanto proprietà privata, era circondata da alti cancelli di ferro battuto ornato. Ammirai incantata le pareti tinte di un verde acqua brillante - spezzato da alcuni punti color mattone e dall'azzurro del tetto - e decorate da numerose colonne in altorilievo, finestre dal telaio elaborato e dettagli rifiniti da cornici in gesso. L'angolo era costituito da una rotonda, un tipo di edificio a base circolare sormontato da una cupola, che riprendeva l'architettura della dimora principale.
«Nonché il palazzo residenziale più affascinante di Ekaterinburg, perfetto esempio di eclettismo che unisce stili diversi tra loro, con elementi del neobarocco, del neomoresco e del gotico russo» illustrai minuziosamente. «Purtroppo l'architetto è sconosciuto, altrimenti mi inginocchierei davanti alla sua tomba.»
«Fanculo, hai rovinato l'effetto sorpresa!» protestò Reed, stizzito, ma notai anche una sfumatura di ammirazione nel suo sguardo. «Sei troppo acculturata per essere un'assassina, Milady. Però apprezzo le tue conoscenze artistiche. È molto più divertente discutere con qualcuno che se ne intende.»
«Per i miei diciotto anni mio fratello mi ha regalato un volume sui monumenti russi più belli, situati in varie città. Sperava che leggendolo smettessi di odiare questo Paese, ma non è semplice innamorarsi di un luogo in cui sei stato portato con la forza. Mosca è il mio inferno personale.»
«Ma una parte di te un po' la ama, giusto?» intuì Connor, leggendomi dentro. «Anche se lì hai più ricordi dolorosi che ricordi felici.»
Aveva centrato il punto alla perfezione, grazie alla sua empatia e capacità di decifrare le persone. Se Connor ti osservava non lo faceva mai in maniera superficiale; studiava ogni tua caratteristica e cercava di raggiungerti l'anima. Riusciva a capirti con una semplice occhiata, un dono immenso di cui pochi potevano vantarsi.
«Conosci le dicerie che ruotano intorno alla Casa Sevastyanov?» gli chiesi, cercando di spostare la conversazione su un piano meno intimo.
Scosse il capo in segno di negazione. «Ricordo soltanto che il proprietario, Nicolaj Sevastyanov, un imprenditore di successo, l'ha acquistata da un impiegato statale e l'ha fatta ricostruire. Poi ha lasciato Ekaterinburg e l'edificio è stato rivenduto al Ministero della Giustizia, diventando così un tribunale. Per un certo periodo è stato anche la sede dei congressi dei sindacati, finché non è stato incluso nell'elenco degli oggetti del patrimonio nazionale.»
«Si diceva che Sevastyanov volesse creare un edificio così bello da fare invidia a quelli più celebri di Mosca e San Pietroburgo, ma che in realtà abitasse in una casetta di fronte. Ogni sera si sedeva su una panchina e contemplava la sua opera, fin quando non ha perso ogni ricchezza ed è stato costretto a rivenderla» spiegai, ridacchiando per quell'assurda leggenda metropolitana. «Oppure che volesse rivestire d'oro la cupola della rotonda, ma dato che solo le cupole delle chiese ortodosse possono avere questa caratteristica, gli è stato impedito con una petizione.»
«Egocentrico, questo Sevastyanov» commentò Connor, strappandomi una risatina. Riportò le iridi su di me, guardandomi come se non mi avesse mai vista prima. «Dovresti ridere più spesso, Milady, lo sai? Sei decisamente più bella senza quell'espressione da "odio il mondo e sono pronta a sterminarvi tutti".»
Il mio respiro si infranse. «Cosa... cosa stai dicendo, Reed?»
Connor sollevò la mano e le sue dita mi sfiorarono il profilo del volto, tracciando una linea immaginaria dalla tempia al mento. I suoi polpastrelli mi toccavano con delicatezza ma, allo stesso tempo, mi scottavano la pelle. Allungò anche l'altra mano, intrappolando il mio viso in una presa leggera e avvicinandolo al suo.
«Non lo so, sinceramente, ma rimarrei tutto il giorno ad ascoltarti mentre parli delle tue passioni. Sembri una persona diversa, più spensierata, e mi piace vederti così.» Le sue dita mi artigliarono con dolcezza il mento e passò il pollice sul mio labbro inferiore, da un estremo all'altro della bocca, che fissava con brama. Nei suoi occhi brillava un desiderio incontenibile, lo stesso che percepivo squassarmi il petto. I nostri respiri condensati dal freddo si mischiarono. Reed deglutì vistosamente e trattenne il fiato, anche lui timoroso delle conseguenze di ogni più flebile movimento. «Prima hai detto che io ti confondo le idee come nessun altro. Be', vale lo stesso per te. Non dovrei desiderarti in questo modo, ma non riesco a resisterti. Soprattutto oggi, che la neve ti sta così bene addosso che avrei voglia di fare una stronzata per la quale mi uccideresti.»
«Per esempio?» bisbigliai, e sentii che il cuore stava accelerando.
«Per esempio mandare a quel paese la missione e baciarti.»
Avevo un millesimo di secondo per prendere una decisione. Nessuno dei due poteva più trattenersi. Perciò scelsi di affidarmi alla testa, che al contrario del cuore non mi aveva mai tradita, e appoggiai i palmi sul suo torace per spingerlo piano, lontano da me. Mi costò uno sforzo immenso, ma era la soluzione migliore, lo sapevo. Se mi fossi gettata tra le sue braccia mi sarei soltanto fatta male, ed ero già abbastanza rotta per permettergli di incidere altre crepe.
«Non ti azzardare, Reed, altrimenti ti castro e vendo i tuoi testicoli al mercato nero» lo minacciai con un'irritazione che non mi apparteneva. «Abbiamo già perso troppo tempo. Andiamo a questa maledetta fermata e concludiamo la missione.»
Connor non criticò la mia scelta di respingerlo, non si arrabbiò, non si mostrò offeso. Anzi, la rispettò e non mi infastidì più. Forse se l'aspettava, o forse aveva compreso le reali motivazioni che si celavano dietro essa. Un pesante drappo di silenzio ed emozioni represse calò su di noi, intanto che raggiungevamo la fermata e salivamo sul pullman.
Scrutando il paesaggio innevato fuori dal finestrino, distorto dal vetro congelato, riuscivo a pensare soltanto a Connor che dichiarava di volermi baciare. E una parte di me, piccola ma spaventosamente intensa, aveva desiderato le sue labbra sulle mie.
Angolo autrice
Buon 2023 readers miei!✨️ Spero che il vostro anno sia iniziato bene <3
Come vi avevo anticipato, in questo capitolo ci spostiamo da Mosca. Ekaterinburg sarà l'ambientazione anche dei prossimi due, con la missione di trovare il boss dei Grandi Urali, che Egor ritiene responsabile della chiusura dei bordelli. (A tal proposito, specifico che ho dovuto rielaborare i nomi dei sottogruppi e ho inventato quello del boss, dato che su internet non ci sono informazioni sufficienti.)
Dopo un po' di spargimenti di sangue e omicidi non necessari, arriviamo a una rivelazione importante, ovvero che Larysa ha una relazione segreta. A quanto pare il motivo dei suoi strani comportamenti è un ragazzo, ma la questione non si è conclusa qui. Intanto lei e May hanno discusso, e vi anticipo che la situazione tra loro andrà peggiorando.
Poi ci sono un paio di momenti molto carini con il nostro Reed, che prima aiuta May quando è ferita e poi le mostra i monumenti della città, dopo che lei si è (miracolosamente) scusata per come l'ha trattato. Piano piano stiamo facendo passi avanti e loro si avvicinano sempre di più.
Ammetto che la tentazione di inserire il primo bacio in questo capitolo era forte, ma non l'ho fatto perché ho in mente una scena ancora più intensa e profonda. Mancano pochi capitoli, tenete duro che ne varrà la pena, ve lo garantisco 🫶🏻
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Nel prossimo torneremo in missione e qualcuno potrebbe farsi male... però sono sicura che amerete la situazione che ne deriverà. Nell'attesa, vi ricordo di seguirmi sui social: miky03005s.stories
Alla prossima! Xoxo <3
Traduzioni:
1) "Yesli by ya byl toboy, ya by ne sdvinulsya s mesta, devochka"= Se fossi in te, non mi muoverei, ragazzina
2) "Kto tebya syuda poslal? Ty krysinoy iz Tsyganov?"= Chi ti ha mandato qui? Sei un ratto di Tsyganov?
3) "Ne vykhodit' iz doma ni po kakoy prichine... bud' ostorozhen... ya skoro vernus'... ya tozhe skuchayu..."= Non uscire di casa per nessun motivo... stai attento... tornerò presto... anche tu mi manchi...
4) "Dobroye utro, ved'ma"= Buongiorno, strega
Luoghi:
• Fabbrica Uralmash:
• Cattedrale sul sangue:
• Casa Sevastyanov:
Note:
• Il Mosin-Nagant è un tipo di fucile a ripetizione usato dalle forze armate russe
• La banda dei Grandi Urali ha operato negli anni '90 nelle fabbriche Uralmash, investendo denaro nelle loro attività di produzione. Il direttore Oleg Belonenko è stato assassinato nel 2000 per aver ostacolato la mafia.
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