Capitolo 17
Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 4 novembre 2019
La biblioteca non era il mio luogo preferito della Villa, dato che non ero mai stata una lettrice accanita - a mia discolpa non avevo tempo sufficiente da dedicare ai romanzi, tra una missione e l'altra -, ma era senza dubbio il più accogliente e caloroso.
Immensi scaffali strabordanti di libri occupavano l'area, formando un dedalo di conoscenza. Le coste dai colori sbiaditi dei volumi, ordinati per genere letterario e anno di pubblicazione, creavano un gioco di sfumature. L'atmosfera era pregna dell'odore di carta antica e di legno lavorato.
Io e Danny eravamo seduti su un piccolo divano dal rivestimento in broccato rosso, i corpi stretti per riscaldarsi a vicenda e avvolti in una coperta di lana a quadri. La mia testa era posata sulla sua spalla e il suo braccio mi cingeva la schiena, mentre nella mano libera manteneva una vecchia edizione di Memorie dal Sottosuolo, l'unica traduzione inglese presente nella biblioteca.
Mi accarezzava distrattamente le punte dei capelli, mentre leggeva uno dei suoi capitoli preferiti. La sua voce, che esibiva un'inflessione solenne nel pronunciare il monologo di Dostoevskij, era tutto ciò che si udiva nella sala deserta, a eccezione dello scoppiettio del legno che ardeva nel camino moderno.
Osservavo le fiamme che danzavano in modo ipnotico oltre la teca di vetro, intanto che ascoltavo mio fratello. Non ne capivo un granché, di letteratura russa, ma quel romanzo mi stava piacendo.
«... dal fatto che tu stesso sei consapevole di aver toccato il fondo; che è brutto, ma che non può essere in altro modo; che ormai non hai via d'uscita, che non diventerai mai più un uomo diverso; che se anche ti restassero ancora tempo e fede per trasformarti in altro, forse saresti proprio tu a non volerti trasformare; e se poi lo volessi, non faresti comunque nulla, perché, in realtà, forse, non c'è nulla in cui valga la pena di trasformarsi. Ma il punto principale è che...»
Smisi un attimo di ascoltare, per concentrarmi su quel paragrafo che mi aveva colpita nel profondo. Forse perché mi rispecchiavo completamente nelle riflessioni dello scrittore. Le sue parole mi calzavano come una seconda pelle; me le sentivo tatuate addosso, nella coscienza, nell'anima. Descrivevano alla perfezione la mia angoscia interiore, la paura intrinseca di restare per sempre una criminale, senza possibilità di redenzione.
«Ti sei già stancata? Guarda che io e Fëdor ci offendiamo.» Danny mi riportò nel mondo reale con il suo tono divertito e la sua risata.
Alzai la testa dalla sua spalla per guardarlo negli occhi, identici ai miei. Una fitta traditrice mi scavò un buco nel petto. Ogni giorno che passava, Danny diventava sempre più simile a nostro padre. Aveva i suoi capelli biondo cenere, il taglio sottile degli occhi e la forma del naso e della mascella. Era tanto bello quanto doloroso.
«Scusa, mi ero persa nei miei pensieri» dissi, infine.
Danny chiuse il libro, lasciando un cordoncino tra le pagine per tenere il segno, e lo appoggiò sul tavolino di cristallo davanti al divano. Mi dedicò la sua piena attenzione.
«Vuoi parlarne?» propose, il tono cauto.
Sapevo a cosa si riferiva: alla prigionia nei sotterranei della Huang Corporation e alla crisi d'astinenza. Non mi ero ancora aperta sull'argomento, perché rabbrividivo al solo ricordo di quei giorni da incubo. E poi non volevo che si preoccupasse. Ormai mi ero ripresa quasi del tutto dalla terribile esperienza; avevo dovuto aumentare la dose giornaliera di sigarette e con essa il rischio di una depressione respiratoria, ma almeno stavo tornando nel pieno delle mie forze.
«È tutto okay, Danny» lo tranquillizzai, abbozzando un sorriso. «Non è stato così tragico. Sono sopravvissuta, no?»
Mi scrutò a lungo, poco convinto. «Ne sei sicura? La notte in cui ti hanno riportata alla Villa... deliravi nel sonno. Continuavi a chiamare la mamma, poi anche papà.»
«Erano le allucinazioni. Sono un sintomo dell'astinenza» spiegai, cominciando ad agitarmi per la piega che stava prendendo la conversazione.
«Ti va di dirmi cosa hai visto?» chiese in tono basso e incerto. «Se... se ci riesci.»
Percepii una morsa allo stomaco, ripensando alla visione del cadavere di nostro padre nello scantinato e del sangue inesistente sulle mie braccia. Danny mi stava supplicando con lo sguardo. Non capivo perché desiderasse farsi male in questo modo, né perché insistesse nel rivivere il trauma della nostra infanzia attraverso le mie parole.
«È meglio di no, Danny» rifiutai, sforzandomi di addolcire l'intonazione. È meglio di no, perché non lo sopporteresti, perché io mi spezzerei di nuovo. Notando la sua espressione delusa, aggiunsi: «Lo faccio per proteggerti».
«Proteggermi» ripeté, una curva amara che si disegnava sul suo volto. «Non ho più dieci anni, May. Devi smetterla di proteggermi dai ricordi. È inutile, tormentano anche me.»
«Cosa vuoi che ti racconti, allora?» sbottai. «Che per tutta la notte ho visto la mamma che veniva violentata, a ripetizione? Che ho visto di nuovo i nostri genitori morti? Che le cicatrici dell'addestramento hanno ricominciato a bruciare? Oppure che l'unico modo per non impazzire è drogarmi, adesso più che mai?»
«Sono consapevole di essere quello debole e indifeso, tra noi due, ma vorrei solo che non mi trattassi più come se fossi di cristallo» replicò, abbassando gli occhi sulle sottili linee bianche che gli segnavano gli avambracci, promemoria di ferite autoinflitte anni indietro e ormai rimarginate. «Dovrei essere io, a proteggerti. Tu sei quella che ha assistito alla morte della mamma, il tuo trauma supera il mio, ma nonostante ciò sono io quello più fragile. Perché, cazzo?»
Gli posai le mani sulle guance e gli sollevai il mento, immergendomi nelle sue iridi lucide di lacrime. «Il dolore è comunque dolore, indipendentemente dalla gravità di un trauma, e ognuno lo affronta a modo suo. Non sei debole, Danny. Sei l'unica ragione per cui non mi sono ancora sparata una pallottola in testa, hai capito?» Mi si incrinò la voce e respirai profondamente per calmarmi. «Non devi proteggermi. Ce la faccio da sola. Posso tenerci entrambi in piedi, te lo giuro.»
Annuì, lasciandosi scappare una lacrima che asciugai, e stampò le labbra sulla mia fronte, per poi abbracciarmi. «Per quel che vale, te lo giuro anche io.»
Mio fratello era la mia ancora di salvezza. Era l'unico frammento di anima che mi era rimasto, l'unica parte buona di me, e l'avrei difeso a costo della vita.
Ci separammo quando udimmo il rumore di passi che si avvicinavano, calpestando le travi del parquet. Riconobbi Klara nella sua divisa da governante, tra le mani un vassoio con sopra una teiera, due tazze e un piattino di biscotti.
«Vi ho portato la zavarka» dichiarò, e il suo sorriso raggiante illuminò la sala. «Ho raccolto ed essiccato personalmente le erbe.»
Appoggiò il vassoio sul tavolo e riempì le tazzine, versando il liquido ambrato dalla teiera in ceramica gzhel, ornata di eleganti disegni blu. Ce le passò; la porcellana bollente scottava le mani e un rivolo di vapore risaliva verso l'alto. Dopo aver soffiato per raffreddarlo, sorseggiammo l'imbattibile tè di Klara.
«Tè nero agli agrumi?» indovinò Danny all'istante.
Klara annuì contenta e gli pizzicò affettuosamente una guancia. «Ti ho cresciuto proprio bene.»
Agguantai un biscotto alle noci, una pallina morbida ricoperta di zucchero a velo e dal retrogusto di vaniglia. Erano i miei preferiti e Klara lo sapeva benissimo. Intuii che fosse l'ennesimo tentativo culinario per risollevare il mio umore. Negli ultimi giorni la governante della Villa non mi aveva mollata un solo istante, ricoprendomi di attenzioni e cibo a profusione e insistendo affinché mi riposassi il più possibile. Mi piaceva essere viziata così; avrei dovuto farmi rapire più spesso.
Invece di tornare alle sue faccende domestiche, Klara si sedette sul divano e mangiò i biscotti insieme a noi. Era raro che si fermasse a trascorrere del tempo con me e Danny, dato che era l'unica governante della Villa ed era sempre impegnata a cucinare o pulire, ma quando accadeva sentivo che la voragine nel mio petto si riempiva un minimo. Sembravamo una famiglia, tutti e tre.
«Come stai, malyshka?» mi domandò apprensiva, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Bene, soprattutto adesso che hai preparato i biscotti» risposi, addentando la quarta o quinta pallina. Avevo perso il conto.
«Lasciamene un po', ingorda!» mi sgridò Danny, schiaffeggiandomi una mano, come quando eravamo piccoli e litigavamo per le patatine fritte. Certe cose non cambiavano mai.
«Ve ne inforno un'altra teglia, se volete» ci rassicurò Klara. «Questo e altro, per i miei detskiy.»
«Tu sei una santa, babushka» la elogiai.
Per la prima volta, non mi rimbeccò quando la chiamai "nonna", l'unica parola del dizionario russo che utilizzavo di mia spontanea volontà. Anzi, accennò un sorriso che era un mix di dolcezza e tristezza, mentre ci osservava con un tale affetto da sbriciolare lo ossa.
«Vi devo confessare una cosa» esordì, intrecciando le mani in grembo. «Non ho figli né nipoti e mio marito è morto quando avevo solo trent'anni, ucciso durante una rapina armata in uno squallido bar del Ghetto. Lavorava come giardiniere della Villa ed Egor mi ha assegnato il ruolo di governante, per risarcimento. I miei genitori abitavano in un'altra città e per un sacco di anni sono rimasta completamente sola, mentre vedevo ogni tipo di criminale passare per questi corridoi. Finché non siete arrivati voi.» Strinse le nostre mani, le lacrime che scintillavano agli angoli delle sue palpebre. «Quando Egor vi ha portato qui eravate due scriccioli terrorizzati. Vi ho letto in faccia una sofferenza così grande che ho capito subito che tutto ciò di cui avevate bisogno era un po' d'amore e serenità. Allora ho provato a donarvi tutto l'affetto che avevate perso e che io stessa non avevo più, e Dio solo sa quanto ero felice quando mi avete sorriso per la prima volta. Siete come due figli o nipoti, per me. Vi amo come se foste miei. Siete la gioia più bella che mi sia mai capitata, dopo mio marito.»
Senza esitare, muovendoci in parallelo, io e Danny ci fiondammo ad abbracciarla, intrappolandola in una stretta vigorosa e grondante di amore. Klara ci circondò, avvicinandoci a lei, e finimmo per incollarci. Nonostante la posizione scomoda, non ci spostammo di un centimetro.
«Siete la mia famiglia» proclamai, la voce scheggiata dal bene immenso che provavo verso entrambi.
«È una famiglia un po' piccola e disfunzionale» ridacchiò Danny, nonostante le lacrime che gli rigavano il volto.
«Non importa,» disse Klara, «è la nostra famiglia.»
Una pioggerella fitta ma leggera, che a tratti sembrava più una nevicata, cadeva incessantemente sulle nostre teste, tinteggiando il cortile della cappella di un bianco sporco. Il nevischio si insinuava dentro l'orlo della giacca, cospargendo il collo di baci gelidi e umidi. I cristalli di ghiaccio opachi si impigliavano tra i capelli e si scioglievano nel giro di un secondo, troppo fragili per sopravvivere una volta caduti.
Rabbrividii, ma non solo per il vento freddo che mi congelava le ossa. La causa maggiore era la scena che si stava svolgendo davanti ai miei occhi.
Come accadeva ogni volta che un sottoposto di Egor veniva ucciso durante una missione, nella sua cappella privata si organizzava il funerale, per poi restituire il corpo alla famiglia o ai conoscenti più vicini. E adesso i genitori di Azhar, arrivati direttamente da Dubai, stavano portando via la sua bara.
Strinsi le braccia al petto e osservai con un nodo alla gola la cassa di legno che veniva caricata sul carro funebre. Mi mancava l'aria al pensiero che lì dentro ci fosse il corpo di Azhar, lo stesso che stavo esplorando con le mie mani fino a pochi minuti prima della sua morte.
Mi costrinsi a spostare lo sguardo altrove e lo collocai sui genitori di Azhar, che stavano parlando in disparte con Egor. Hassan Murad e sua moglie Najwa erano due persone facoltose: si intuiva dagli innumerevoli gioielli che sfoggiava lei e dal completo di alta sartoria che indossava lui. Non c'era ombra di dolore sui loro volti, come se loro figlio non fosse stato ucciso. Najwa sembrava piuttosto annoiata e impaziente di tornare a casa, mentre Hassan non lasciava trasparire alcuna emozione, intanto che ascoltava Egor.
Trattenni l'impulso di raggiungere quei due vermi e urlare loro contro che erano genitori pessimi, che non si meritavano un figlio meraviglioso come Azhar, che lo avevano svenduto per salvare i loro sudici affari e che per questo ci aveva rimesso la vita.
Se mi bloccai in tempo fu anche grazie a Connor che l'improvviso si avvicinò a me, riparandomi con il suo ombrello. Posai gli occhi sulla sua figura fasciata in un maglione e un paio di jeans neri. Il suo braccio piegato per sorreggere il manico dell'ombrello sfiorava il mio; mi stava attaccato per riuscire a coprire entrambi e il suo corpo sprigionava un calore che mi avvolgeva.
«Così non ti prendi un malanno» si giustificò, rifilandomi un sorriso premuroso che mi colpì al centro del petto. «Allora... stai bene?»
Confermai con un cenno secco del capo. Non avevo voglia di parlare della prigionia, soprattutto non con Reed, che in quelle quarantotto ore mi aveva vista debole e spezzata. Odiavo mostrare il mio lato più fragile alle persone con cui non ero in confidenza, e noi due non eravamo neppure amici. Da quando eravamo fuggiti dalla Huang Corporation, avevo evitato di imbattermi in lui e non gli avevo rivolto neanche una misera occhiata.
«Possiamo fingere che non sia mai accaduto?» gli domandai, in tono brusco e asciutto.
«Se è quello che vuoi, d'accordo» scrollò le spalle con indifferenza.
Restammo per qualche altro minuto in silenzio, circondati dagli abitanti della Villa e da alcuni collaboratori di Egor. Individuai Isidora e Dimitri, gli unici novellini rimasti oltre a Connor. Per un attimo ripensai a Yan, la traditrice che avevo ucciso, e mi domandai se anche lei avesse avuto un degno funerale.
Quando il carro funebre partì, con la bara di Azhar e i suoi genitori a bordo, i presenti si sparpagliarono e tornarono ai loro impegni. Notai di sbieco che Egor mi stava fissando da lontano, ma lo ignorai. Che andasse a farsi fottere.
«Che ne dici di fare una passeggiata?» propose Reed, d'un tratto. «Prendiamo la metro per il centro di Mosca, magari. Ti farà bene distrarti un po'.»
Volevo rispondere no nel modo più aspro e scortese di cui ero in grado. Volevo davvero rifiutare quell'invito. Eppure... quando sollevai il viso e i miei occhi si incastrarono nei suoi, quelle iridi che erano un tripudio di mille sfumature di verde e castano, le mie convinzioni si sgretolarono.
«Lo so che muori dalla voglia di discutere dell'architettura del Cremlino» mi provocò, le labbra curvate in un ghigno furbo. «A meno che tu non abbia paura che io possa metterti in difficoltà, con le mie cospicue conoscenze. Sai, in tal caso non posso darti torto.»
Bastardo di un Reed, pronto a sfruttare i miei punti deboli per raggirarmi.
«Stai giocando sporco» obiettai, non riuscendo però a trattenere un sorrisino.
«No, è solo il tuo ego che non sopporta di essere sminuito.» Mi tese il braccio in un gesto di galanteria. «Dunque mi concedete l'onore della vostra compagnia, Milady de Winter?»
Mi aveva appena paragonata all'antagonista femminile dei Tre Moschettieri, un'assassina e seduttrice spietata, consumata dal desiderio di vendetta. Che dolce.
Calai il cappuccio della giacca in testa e uscii dallo spazio sotto l'ombrello. «Accetto, ma cammino da sola. Non voglio respirare il tuo stesso ossigeno per più di dieci minuti.»
«Sappi che fai un favore a entrambi» dichiarò Reed, una punta di sdegno nella voce.
Si incamminò verso il cancello della Villa, senza neanche aspettarmi, e lo tallonai. Quant'era permaloso!
Se sapessi che lo faccio per stare alla larga dal tuo profumo, che mi stordisce come niente prima d'ora ha mai fatto, e per non sentire il tuo corpo che sfiora il mio a ogni passo.
Piazza Rossa, centro di Mosca
Prendemmo la metro nella stazione di Kuz'minki, la più vicina al Ghetto. Sebbene il viaggio durò pochi minuti, non vedevo l'ora di scendere da quella scatola di metallo ricolma di persone appiccicate l'una all'altra. Soprattutto perché, in quello spazio angusto, io e Reed eravamo costretti a stare più vicino di quanto potessi tollerare.
Il suo petto era incollato alla mia schiena, mentre ci sorreggevamo con le mani al palo. Quando il mezzo frenò bruscamente e persi l'equilibrio, il suo braccio mi cinse la vita, per impedirmi di cadere. Lo scansai subito e che mi sforzai di ignorare il groviglio formatosi nel mio stomaco.
Cambiammo altre due linee metropolitane, per avvicinarci alle attrazioni turistiche di nostro interesse, finché non scendemmo alla stazione di Ploščad' Revoljucii, situata in pieno centro città. Ci trovammo sulla Nikol'skaya Ulitsa, una larga via pedonale delimitata da palazzi imponenti, negozi di lusso dalle vetrine appariscenti, ristoranti e bancarelle. Da una facciata all'altra degli edifici erano agganciati fili di luci dorate, da cui pendevano sfere di cristallo. L'effetto era ammaliante; sembrava di passeggiare sotto una cascata di stelle.
Dato che la via era affollatissima, tornai ad affiancare Reed sotto l'ombrello. Non mi sfuggì il ghigno che gli increspò le labbra, ma non commentai solo perché giungemmo in fondo all'ulitsa.
Di fronte a noi si presentò la meravigliosa Piazza Rossa, insieme ai maestosi monumenti che ne delimitavano il perimetro. Mi bloccai in mezzo alla strada e mi riempii lo sguardo del panorama mozzafiato che ormai conoscevo a memoria, ma che mi lasciava estasiata ogni singola volta. Il cielo plumbeo abbracciava gli edifici, le nuvole grigie e gonfie in contrasto con le facciate dipinte di un rosso vivace; il nevischio danzava nell'aria e atterrava delicatamente sul suolo, donando un'atmosfera fiabesca.
«Quale monumento vuoi visitare per primo?» mi domandò Reed, svegliandomi da quel sogno a occhi aperti.
«Non avremo mai i soldi sufficienti per vederli tutti» gli feci notare.
«Infatti abbiamo questo.» Afferrò dalla tasca un cartoncino rosso e me lo sventolò davanti al naso. Glielo strappai di mano e lessi la dicitura Moscow CityPass. «Include tutte le attrazioni della Piazza e del Cremlino, più un giro in barca sul fiume Moscova. Me l'hanno regalato per il mio ultimo compleanno, ma non sapevo quando utilizzarlo. Adesso ho trovato il momento perfetto.»
«Sarei io, il tuo momento perfetto?» lo stuzzicai.
«Non montarti la testa. Sei l'unica persona che ne capisce quanto me di cultura e architettura» specificò.
«Allora vediamo chi ne capisce di più, Reed.»
Senza dargli il tempo di ribattere, gli artigliai un braccio e lo trascinai verso la Cattedrale di Kazan, una chiesa ortodossa collocata all'angolo nord-est della Piazza. La facciata neobizantina in mattoni rossi era decorata da rifiniture bianche, mentre le piccole cupole erano di un azzurro chiaro. La più grande, in cima alla struttura, era fatta interamente d'oro, e rifletteva i deboli raggi solari. Accanto, sorgeva la torre campanaria.
L'interno era tappezzato di immagini sacre in cornici d'oro - alcune dipinte direttamente sui muri - e oggetti preziosi disposti sull'altare; la volta a botte che costituiva il soffitto era sormontata su colonne dalle rifiniture sfavillanti.
«Questo edificio è una ricostruzione del 1993, ma la prima versione risale al diciassettesimo secolo ed era un santuario eretto in occasione della liberazione di Mosca dai polacchi. Il principe Požarskij, che aveva guidato la battaglia, attribuì il merito del proprio successo all'icona della Madonna di Kazan, perciò finanziò la costituzione di questa chiesa» illustrai, mantenendo la voce bassa per non disturbare i fedeli che pregavano. «È stata rasa al suolo nel 1936 per ordine di Stalin, quando la Piazza Rossa doveva prepararsi ad accogliere l'Armata Rossa.»
«Questa parte non me la ricordavo. Okay, punto a te» mi concesse Reed. «Adesso è il mio turno.»
Connor scelse di visitare l'edificio adiacente, il Museo Statale di Storia. La struttura solenne e sfarzosa, opera della corrente del revivalismo russo, ricordava quella di un castello gotico, con le guglie bianche e la facciata di un rosso intenso costellata di finestre ad arco. Ma a colpirmi maggiormente fu la hall del museo: colonne ornate da elaborati motivi floreali sorreggevano un soffitto a volta, sul quale erano dipinte figure in miniatura di personaggi storici russi. Era un tripudio di colori pastello, che variavano dal giallo al celeste. La luce dei candelabri rimbalzava sul pavimento a scacchi lucido e sulle ringhiere dorate delle scale.
«Le decorazioni neoromantiche sono opera di alcuni famosi artisti russi, ma durante il periodo sovietico sono state coperte da uno strato di intonaco. Tra il 1986 e il 1997 hanno restaurato il museo» mi spiegò Connor, mentre sorpassammo le due statue di leoni protetti da uno scudo che accoglievano i visitatori. «La prima volta fu inaugurato dallo zar Alessandro III in persona, nel 1883, con l'intento di promuovere e divulgare la storia russa. La collezione conta più di quattro milioni di artefatti.»
Per le successive ore ammirammo le reliquie custodite in teche di vetro che ripercorrevano le tappe della storia russa, dal Paleolitico all'ultima dinastia regnante, quella dei Romanov. C'erano manufatti in oro e argento, gioielli vichinghi, ceramiche, parti di mobilio, abiti ottocenteschi e anche affreschi e opere d'arte inestimabili.
«Quella è stata rinvenuta sul fondale del fiume Volga.» Connor indicò la grossa imbarcazione che occupava un'intera stanza.
Visitammo anche la biblioteca, dove erano custoditi manoscritti antichi che era vietato persino fotografare, e la collezione di monete antiquate del museo, la maggiore dell'intera Russia, che contava quasi due milioni di pezzi.
La tappa successiva era la cattedrale di San Basilio, dove continuava la collezione del museo. Attraversammo l'intera Piazza, costeggiata dalle mura in mattoni rossi del lato sud del Cremlino, che cominciavano con la Torre Nikol'skaya e terminavano con la Torre Spasskaya, la più importante. Su ognuno dei quattro lati di quest'ultima era affisso un grande orologio dalle lancette dorate, mentre in cima alla guglia merlettata spiccava una stella di rubino a cinque punte.
Raggiungemmo San Basilio, simbolo di Mosca e Patrimonio dell'Umanità, che ogni dannata volta era capace di stregarmi con le sue cupole a cipolla dai colori sgargianti, tutte diverse tra loro. La struttura, curata nei minimi dettagli, era una fitta rete di motivi geometrici dalle forme più disparate. Se avessi potuto sposare un monumento, sarebbe stato senza dubbio quello, per l'allegria e il buonumore che mi trasmetteva.
«Secondo una leggenda, lo zar Ivan il Terribile rese cieco l'architetto che progettò la cattedrale, Postnik Yakovlev, per impedirgli di realizzare in futuro una chiesa più bella di questa» narrò Connor, il viso rivolto verso l'alto e scolpito nella meraviglia. «Non è mai successo, ma non credo ce ne fosse bisogno. Al mondo non esiste un altro edificio così bello.»
Per una volta concordai con lui.
Superammo la statua di bronzo eretta nel giardino frontale, rappresentante due guerrieri russi, ed entrammo nella cattedrale. Dentro era un labirinto di cappelle - ne contai nove -, ognuna dedicata a un Santo diverso, dove erano esposte icone religiose e fregi preziosi.
«Prima di entrare al Cremlino,» esordì Reed, una volta usciti, «mangiamo qualcosa, ché tutto questo parlare di architettura mi ha messo fame.»
Lo seguii verso il centro commerciale GUM, il più importante dell'intera nazione. La facciata esterna, lunga almeno duecento metri, occupava tutto il lato orientale della Piazza Rossa ed era tratteggiata da filamenti di luci dorate, che ne evidenziavano la struttura quasi medievale. Il tetto della galleria era costituito da una semi cupola in vetro e i suoi tre piani erano collegati da passerelle sospese e lunghe scalinate. Eravamo circondati da negozi di lusso, bar e ristoranti di ogni marchio immaginabile. Al centro del corridoio principale era persino allestita una fontana.
«Hai mai assaggiato il mitico gelato del GUM?» mi domandò Connor.
Scossi il capo in senso di diniego. Io vivevo a Mosca da ormai sette anni, eppure lui sembrava sempre quello più informato dei due, riguardo la vita cittadina. Ovviamente non glielo dissi, altrimenti si sarebbe montato la testa.
Facemmo la fila per uno dei numerosi chioschetti del piano terra, che vendevano il gelato in una cialda a forma di coppetta, e trovammo posto a sedere a un tavolino che fronteggiava la raffinata vetrina di Tiffany & Co.
«Allora è così che tratti le ragazze, Reed? Le porti a mangiare il gelato con zero gradi fuori, davanti a un negozio di gioielli super costosi che non potranno mai permettersi?» mi finsi indignata.
«No, soltanto te. E poi lo so che la tua carta di credito è rifornita da Egor e che lui può comprare tutta la collezione, incluse commesse e negozio.» Mi puntò il cucchiaino di plastica contro.
«Mangi come i bambini» lo schernii, notando che si era sporcato il labbro di gelato alla vaniglia. Senza pensarci, strappai un fazzoletto dal dispenser sul tavolo e mi sporsi per pulirgli il viso. «Ecco, meglio.»
Mi resi conto del mio gesto soltanto quando ci paralizzammo entrambi, avvampando per l'imbarazzo. Forse avevo bisogno di una sigaretta. Iniziavo a delirare, cazzo.
Connor si schiarì la voce. «Andiamo al Cremlino? Tra un'ora chiude l'ingresso.»
Annuii e, terminato in fretta il gelato, lasciammo i magazzini GUM. Fuori aveva cominciato proprio a nevicare, ma almeno il vento si era quietato e i fiocchi di neve erano meno fastidiosi dei cristalli liquidi del nevischio. A volte mi dimenticavo di provenire da una città soleggiata e luminosa come San Diego e di essere stata trascinata in quell'inferno gelido.
Insieme sotto l'ombrello, seppur a distanza di sicurezza, raggiungemmo i Giardini di Alessandro, un rigoglioso parco pubblico dove era collocato l'ingresso principale del Cremlino. Entrammo nella cittadella fortificata, un complesso di palazzi, musei e chiese.
La nostra prima destinazione era il Palazzo dell'Armeria, una reggia prestigiosa nella quale erano esposti i tesori degli zar: carrozze regali, corone e gioielli, abiti sontuosi, armi di altre epoche e le inestimabili Uova di Fabergé. Visitammo anche il Fondo dei Diamanti, una mostra di gemme e pietre preziose.
«Il Gran Palazzo del Cremlino» proclamò Connor, quando costeggiammo un enorme edificio dalle pareti giallo ocra ornate da file di colonne di marmo bianco. Sul tetto a spiovente verde svettava un'asta d'oro, dalla quale sventolava la bandiera russa. «È possibile accedervi solo su invito del Presidente. Qui si tengono le riunioni ufficiali di Stato.»
Commentammo l'architettura dell'edificio, che per qualcuno era estremamente banale ma che io ritenevo affascinante nella sua semplicità. Anche stavolta, la pensavamo allo stesso modo. E percepii una strana sensazione nel petto, mentre condividevo le mie riflessioni con lui, un miscuglio strano di complicità e armonia. Mi sentivo bene, in pace.
Il Gran Palazzo era affiancato dalla Piazza delle Cattedrali, così chiamata per le tre chiese che la occupavano: la Cattedrale dell'Annunciazione, la Cattedrale della Dormizione e la Cattedrale dell'Arcangelo Michele.
«Questo era il luogo dove gli zar venivano incoronati e dove si svolgevano i loro cortei funebri» spiegai a Connor. «Si trova anche il Campanile di Ivan il Grande, la torre più alta del Cremlino.»
Le tre cattedrali erano simili tra loro, tinte di un bianco candido e con le cupole dorate e lucenti; i muri interni erano affrescati da cima a fondo e ricoperti di immagini sacre del cristianesimo. Secondo il mio modesto parere, la più bella era la Cattedrale dell'Arcangelo. A questo giro Reed era in completo disaccordo, affermando che quella della Dormizione fosse nettamente superiore, e finimmo per discutere in piena piazza. D'altronde non si poteva sempre essere in sintonia.
«La Dormizione è il simbolo spirituale per eccellenza di Mosca. Non c'è paragone» ribatté lui.
«Sei banale, Reed. Il fatto che sia la più importante dal punto di vista culturale non significa che sia anche la più bella dal punto di vista architettonico.»
«A me sembra che le due cose coincidano.»
«A me sembra che tu debba cambiare occhiali.»
Alla fine riuscii a spuntarla e andammo a vedere la Campana dello Zar, la più grande al mondo con le sue duecentosedici tonnellate di peso, e il Cannone Zar Pushka. Ci accorgemmo che si stava facendo tardi, dunque lasciammo il Cremlino passando per la Porta della Resurrezione, composta da una coppia di torri uguali.
«Quello è il chilometro zero» indicai una placca di bronzo sul pietrisco. «Indica l'inizio di tutte le strade della Russia. È una tradizione girare su se stessi e lanciarsi una moneta alle spalle, esprimendo un desiderio. Se la moneta atterra sulla placca, il desiderio si realizzerà.» Sorrisi ricordando tutte le volte che io e Danny ci avevamo provato, con scarso successo.
«Be', tentar non nuoce.»
Connor pescò due monete dalla tasca e me ne porse una. Quando la folla di turisti si diradò, mi posizionai di spalle alla placca, girai una volta e lanciai la moneta. Sentii un tintinnio metallico: avevo fatto centro. Sapevo che il mio desiderio - alquanto stupido - non si sarebbe mai avverato, ma ne rimasi comunque soddisfatta.
Fu il turno di Connor. E intanto che lanciava la moneta con una traiettoria impeccabile ed esprimeva il suo desiderio, il suo sguardo non si sganciò dal mio per un solo momento.
Il paesaggio di Mosca infuocato dal tramonto era impareggiabile.
Appoggiata al parapetto della nave, osservavo da una nuova prospettiva la città che scorreva davanti ai miei occhi, investita dai toni caldi dei raggi del sole morente. Mi persi a contemplare da lontano le mura del Cremlino, gli edifici già illuminati per la notte, le cupole delle cattedrali e i ponti che costellavano il fiume, sulla cui superficie si specchiavano aloni di luce. Le acque della Moscova cullavano dolcemente l'imbarcazione e la neve continuava a scendere leggera, quasi impercettibile.
Mosca era elegante come una dama d'altri tempi, ma sotto quel velo di guglie colorate e mattoni rossi nascondeva un'anima bruciata dalla corruzione e dalla sete di potere. Era tanto pericolosa quanto incantevole.
Avrei voluto conoscere la capitale in circostanze più piacevoli, così mi sarei innamorata perdutamente di lei, invece di odiarla con ogni mia cellula. Ma oggi, chissà per quale motivo, mi sembrava più bella del solito, e non riuscii a detestarla del tutto.
«È uno spettacolo» mormorò Reed, accanto a me.
Mi girai a guardarlo. Il suo profilo cesellato era un tripudio di ombre e bagliori. Le sue iridi scintillavano di stupore, mentre scrutava il panorama.
«Sì, uno spettacolo» fiatai, senza smettere di osservarlo.
«Mi dispiace che la Galleria Tretyakov sia chiusa, oggi. Sarebbe stato un bel modo di concludere la giornata, non credi?»
«Perché proprio la Galleria?» gli domandai.
Si voltò verso di me, e mi fissò con un'intensità che quasi mi strappò gli organi. «Perché so che è il tuo posto preferito e che vederlo ti renderebbe... felice.»
Il mio cuore saltò un battito, forse due, e si strinse in una maniera che mi fece mancare il respiro per un interminabile secondo. Il pensiero che volesse fare qualcosa per rendermi felice mi destabilizzò.
«Non importa. È stato perfetto così, davvero» replicai, la voce strozzata. «Sto già meglio.»
Connor allungò una mano e mi appuntò una ciocca di capelli mossa dalla brezza dietro l'orecchio. Le sue nocche mi sfiorarono una guancia e, come se mi fossi scottata, mi allontanai bruscamente.
«Chiediamo di scendere. Dobbiamo tornare alla Villa, si è fatto tardi» stabilii, evitando di incrociare ancora il suo sguardo.
Bofonchiò un va bene e andò a parlare con il capitano. Serrai le dita intorno alla ringhiera gelida, sforzandomi di scacciare la sensazione della sua mano che mi accarezzava.
Ecco perché stavo scappando da lui, negli ultimi giorni. Era stato il mio unico appiglio in quel lurido scantinato, l'unica fonte di calore per la mia anima ghiacciata, e adesso ero terrorizzata dal modo in cui il mio corpo e la mia mente reagivano quando mi guardava o parlava o addirittura toccava. Mi faceva sentire esposta, vulnerabile. Ma, al tempo stesso, compresa e apprezzata.
Mi stai incasinando la testa, Reed, e io non me lo posso proprio permettere altro casino, con tutto il disordine che c'è già qui dentro.
Angolo autrice
Ciao a tutti readers 💞💞 Siete tornati a scuola? Com'è stato il rientro?
Capitolo un po' particolare, oggi. Prima abbiamo un dolcissimo momento tra Klara, Danny e May, poi il funerale di Azhar e infine una passeggiata con May e Connor per il centro di Mosca, terminata con un giro sul fiume.
Mi è piaciuto tantissimo fare ricerche sui monumenti di Mosca e descriverli, mi sono innamorata anche io di questa città 🫶🏻 Sotto vi lascio tutte le foto!
Inoltre May e Connor si sono avvicinati ancora un altro po' e lei sta iniziando a capire che non è del tutto indifferente alla sua presenza 🌚 Cosa vorreste leggere in futuro per questa coppia?
Se il capitolo vi è piaciuto, lasciate una stellina o un commento ✨️✨️✨️
Alla prossima! (con l'extra di Azhar)
Xoxo <3
Traduzioni:
1) Malyshka= bambina
2) Detskiy= bambini/piccoli
3) Babushka= nonna
Note:
• Memorie dal Sottosuolo è un romanzo del 1864 di Fëdor Dostoevskij (che vi consiglio di leggere!) strutturato come un monologo/critica sociale.
Luoghi:
• Nikol'skaya Ulitsa
• Piazza Rossa
• Cattedrale di Kazan
• Museo Statale di Storia
• Cattedrale di San Basilio
• Magazzini GUM
• Cremlino (torre Spasskaya)
• Gran Palazzo del Cremlino
• Piazza delle Cattedrali
• Porta della Resurrezione
• Fiume Moscova
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