Capitolo 16
Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 31 ottobre 2019
Egor era furioso come non l'avevo mai visto.
Scaraventava pile di documenti e cartelle giù dalla sua scrivania, in preda a una rabbia animalesca. Il pavimento dello studio era ricoperto di fogli di carta che calpestava mentre camminava avanti e indietro, incurante della loro importanza.
Seduta davanti alla sua scrivania e sepolta in una felpa extra large di Danny, lo osservavo mentre passava nervosamente le dita inanellate tra i capelli e strofinava la barba curata, borbottando imprecazioni in russo che non riuscivo a comprendere. I suoi occhi marroni erano rabbuiati dalla collera.
«Mi sono fatto ingannare da quella novellina. Ha depistato le mie spie. Ha ucciso uno dei miei uomini. Ti ha presa in ostaggio» ringhiava tra sé, ignorando la mia presenza.
Non avevo mai assistito a un attacco di ira da parte sua. Il vory del Ghetto era sempre così gelido e controllato; non perdeva la lucidità nemmeno nelle situazioni più critiche. Di solito ero io, quella che si incazzava e cominciava a sbraitare. Adesso, al contrario, lo guardavo con disinteresse.
«Hai finito?» gli domandai, annoiata. «Vorrei tornare a dormire, se non ti dispiace. Devo recuperare sedici ore di sonno.»
Ero stanchissima. Avevo trascorso la notte tra incubi e allucinazioni, motivo per cui avevo dormito a malapena un paio d'ore. La mattina seguente, proprio quando gli orrori nel mio cervello sembravano essersi acquietati ed ero sprofondata in un sonno pacifico, Egor mi aveva convocata nel suo ufficio. Non avevo avuto nemmeno il tempo di richiudermi la porta alle spalle che lui aveva già iniziato a comportarsi da pazzo.
Egor si sedette di fronte a me, dall'altro lato della scrivania, e sbatté la mano chiusa a pugno sulla superficie ormai sgombra. «Zhu Huang ha giocato dietro le quinte. Non siamo riusciti a individuarla. Manderei qualcuno a ucciderla, ma è scappata a Hong Kong con la sua famiglia e i suoi collaboratori e non possiamo permetterci una guerra contro la Triade. Ci è sfuggita.»
«Ho ammazzato sua figlia. Non basta?» gli domandai, indignata. D'altronde era stata Yan, la causa principale dei nostri problemi, colei che aveva rubato la ricetta del Sapfir e l'aveva venduta a una banda nemica, colei che aveva assassinato Azhar.
«No, Maybelle, non basta. Avrei dovuto sterminare l'intera Società. Ti hanno rapita. Ho rischiato di perderti» sibilò, le parole e lo sguardo intrisi di fiele.
Questa sì che è divertente. Quasi scoppiai a ridere. Inarcai un sopracciglio e scrutai Egor con l'ombra di un sorriso ironico sul volto. «Come se te ne fregasse qualcosa di me.»
Il vory assottigliò le palpebre in un'espressione minacciosa. «Ripeti ciò che hai detto, piccola ingrata.»
Allora, senza timore, mi lasciai trascinare dall'acredine che mi bruciava lo stomaco, dall'astio che nutrivo verso quel bastardo che aveva rovinato la vita a me e Danny, strappandoci l'innocenza dell'infanzia.
«Sei un ipocrita del cazzo» lo accusai, per niente spaventata dalle possibili conseguenze di quell'affronto alla sua autorità. «Mi mandi a morire ogni settimana, con le tue ridicole missioni. Davvero ti importa della mia incolumità, Egor? Cosa ti cambia, se mi uccidono? Hai tanti altri sicari competenti che possono occupare il mio ruolo. Smettila di fingerti preoccupato per me.»
Mi ero spinta troppo in là, ne ero consapevole. Non ero riuscita a frenare la mia lingua tagliente. Avevo osato insultare il boss del Ghetto e gli avevo sputato addosso il rancore che covavo da anni.
Realizzai, tuttavia, che non ero affatto impaurita dalla punizione che avrei sicuramente ricevuto. Ero talmente instabile che avrebbe potuto farmi picchiare a sangue e mi sarei messa soltanto a sghignazzare. E se avesse osato avvicinarsi a mio fratello, lo avrei distrutto con le mie mani.
Adesso basta. Non sono più la tua schiava.
La prigionia nei sotterranei della Huang Corporation e l'astinenza dal Sapfir avevano spaccato l'ultimo nervo di lucidità nel mio cervello. Mi sentivo in bilico sul precipizio della follia. Ero pronta a rovinare anni di sacrifici, a mettere in pericolo non solo me stessa, ma anche Danny, pur di liberarci da quell'inferno.
Egor, però, disintegrò ogni mio proposito. La mia determinazione si estinse come fuoco sotto una cascata d'acqua.
«Lascia che ti spieghi una cosa, Maybelle» esordì, con un'intonazione dolce che mi paralizzò i muscoli. Lo detestavo ancora di più, quando si fingeva amorevole. Era così falso. «Gli altri sicari, per quanto mi riguarda, possono anche morire, perché di loro non me ne importa niente. Tu, invece... non voglio e non posso perderti.»
«Perché sono un oggetto di tua proprietà, no?» rantolai, messa in soggezione dal suo sguardo che mi inchiodava alla sedia e mi scandagliava a fondo. Una luce maligna e inquietante lampeggiava nei suoi occhi.
La conoscevo, quell'espressione: mi stava ricordando che io gli appartenevo, che ero sua, che non sarei mai fuggita dalla sua reggia d'oro. Mi sentii vulnerabile, come se fossi di nuovo quella bambina terrorizzata e tremante che aveva appena perso i suoi genitori.
Allungò un braccio e mi afferrò una treccia, accarezzando la punta con le dita. Trattenni l'aria nei polmoni e strinsi le mani in due pugni, finché le nocche non sbiancarono. La sua vicinanza mi provocava la nausea, ma mi obbligai a restare immobile, per non peggiorare la situazione.
«Perché sei la mia arma più preziosa e non permetterò a nessuno di portarti via da me. Hai capito?»
Deglutii il nodo che mi serrava la gola. Quella era chiaramente una minaccia velata. Era un avvertimento rivolto anche – e soprattutto – a me: se avessi osato scappare, me l'avrebbe fatta pagare per il resto dei miei giorni.
«Mi fai schifo» sputai, le sillabe grondanti di veleno e disgusto. «Mi hai resa un mostro.»
Lui non si scompose minimamente. Il mio odio lo lasciava indifferente. «Sì, ma sei il mostro che io ho creato. Torna pure a riposarti, ora. Ti voglio in forma per la prossima settimana.»
Non me lo feci ripetere. Mi alzai dalla sedia, provocando un rumore stridulo quando le gambe strusciarono sul parquet lucido, e uscii a passi pesanti. La stanchezza era svanita, sostituita dal nervosismo. Mi rintanai in un angolo del corridoio e mi accesi una sigaretta in fretta e furia. Aspirai una boccata dopo l'altra, alla disperata ricerca di sollievo, fino a terminare la cicca.
Eppure non bastò. Il fumo non riuscì a tranquillizzarmi. Stavo ancora subendo le conseguenze dell'astinenza, e una semplice sigaretta non era sufficiente a stabilizzare il mio umore. Mi serviva una dose più forte, con effetto immediato, per sedare la tempesta di emozioni negative che stava imperversando nel mio animo.
Mi stavo avvicinando al punto di rottura. Una bomba era esplosa e aveva scavato una voragine nella mia barriera. Avevo bisogno di qualcosa dalla potenza devastante per rincollare i mattoni, prima che la muraglia intorno al mio cuore crollasse del tutto.
E conoscevo un'unica persona in grado di aiutarmi.
Sebbene la maggior parte della
popolazione russa non festeggiasse Halloween, il parco occupato dagli spacciatori del Ghetto era addobbato con una miriade di decorazioni tipiche. Piccole zucche intagliate a mano, con occhi sproporzionati e bocche storte, erano disposte davanti all'ingresso di ogni roulotte. In mezzo all'erba ingiallita spuntavano lapidi di pietra grezza, ragni di gomma e paletti con teste di zombie. Qualcuno aveva ornato le finestre con fili di luci colorate e figurine di fantasmi, oppure lenzuola dalle scritte sanguinose.
L'unica roulotte spoglia di decorazioni era proprio quella di Cheslav. Insolito, dato che adorava quella festività. Salii i tre gradini di metallo e bussai alla porta. Mentre aspettavo che venisse ad aprirmi, mi strinsi nel cappotto per proteggermi dal vento gelido di fine ottobre. Le mie ossa vibravano, i denti battevano tra loro. Stava iniziando a fare davvero freddo, a Mosca, ma sapevo che quello non era l'unico motivo per cui continuavo a tremare senza sosta.
Sto crollando, mattone dopo mattone.
Fortunatamente Cheslav non ci impiegò troppo. Spalancò il battente e, quando lo vidi in pigiama sull'uscio, con i riccioli scombinati e gli occhi assonnati, capii che mi era mancato da morire. Quando mi identificò, spalancò le palpebre e le lacrime gli inondarono le iridi scure.
Non sapevo chi dei due si fosse mosso prima; in ogni caso, i nostri corpi si calamitarono e finimmo per aggrovigliarci in un abbraccio soffocante.
Lui affondò il viso nei miei capelli e i polpastrelli nella mia schiena, attirandomi contro il suo petto, mentre io gli circondai il collo e intrecciai le dita sulla sua nuca. Mi lasciai stringere dalle sue braccia, che erano il mio rifugio personale, il mio posto preferito al mondo.
«Sei tornata, Belle. Sei tornata da me» esalò con la voce crepata dall'emozione. «Santo Dio, niña. Ero così preoccupato. Credevo che non ti avrei più rivista.»
Gli scappò un singhiozzo e mi strinse ancora più forte. Adesso eravamo in due, a tremare. Le sue lacrime mi bagnarono il collo, ma non aprii bocca. Mi limitai ad accarezzargli i capelli, intricando le dita tra i riccioli, finché non si calmò.
«Cosa ti è successo?» mi interrogò, allontanandosi di poco per guardarmi in faccia. Mi sfiorò le guance e le labbra. «Sei più pallida del solito. E stai tremando. Entra, fuori si gela.»
Mi trascinò all'interno della roulotte e richiuse il battente metallico. Mi tolsi la giacca e mi accomodati sul divano-letto dalle lenzuola stropicciate. Sul tavolino di fronte a me era posata la scatola con le sue scorte personali di Sapfir, il coperchio aperto e la droga in bella vista.
«Vuoi una sigaretta?» mi chiese Cheslav, sedendosi accanto a me.
Scossi la testa. «Ho... ho bisogno di... della polvere» pronunciai a fatica, le parole bloccate in gola. «Sono stata due giorni in astinenza. Non riesco a riprendermi. Le sigarette non mi bastano più.» Immersi gli occhi nei suoi e lo osservai implorante. «Devi aiutarmi, Ches, ti prego.»
Lui si passò nervosamente le mani tra i riccioli, imprecando in spagnolo. «Lo sapevo che non dovevo darti quella merda, cinque anni fa. Sono stato un coglione. Se ti trovi in questa situazione è colpa mia.»
«Sono io, che non sono in grado di smettere» ribattei. «Sapevo a cosa andavo incontro, fumando la prima sigaretta. Mi sono presa le mie responsabilità. Se sono diventata una tossica, la colpa è solo mia. E adesso, per favore, dammi la polvere.»
Provò a farmi cambiare idea, tuttavia ero irremovibile. Era l'unica soluzione. Sapevo che non avrei dovuto combattere lo schifo con altro schifo, ma ero talmente disperata che mi sarei ridotta a quel livello.
«Devi giurarmi che sarà solo per stavolta, poi tornerai alle sigarette. Non è un gioco, Belle, ci rischi la vita» mi intimò Cheslav, e mi costrinsi a prometterglielo.
Recuperò un piattino di acciaio dalla scatola e vi posizionò sopra due strisce parallele di polvere blu. Mi allungò la sua banconota da mille pesos arrotolata e mi spiegò come inalare la droga dal naso. Imitai i suoi gesti e, senza esitare, sniffai il Sapfir.
Inizialmente non sentii nulla, tranne un fastidioso bruciore alla narice e i granelli di polvere nelle vie respiratorie, che si mescolavano al sangue. Attesi un paio di minuti e finalmente la droga mi arrivò al cervello, portando con sé i suoi effetti anestetizzanti.
Fu travolgente. Una violenta ondata di euforia mi stordì, lasciandomi per alcuni secondi senza fiato, con la testa che girava e la vista annebbiata. Improvvisamente avevo voglia di alzarmi e urlare e correre e distruggere tutto. Mi sentivo invincibile, protetta da una corazza inespugnabile. Niente poteva scalfirmi, in quel momento, con il Sapfir che prendeva possesso del mio corpo e mi infettava gli organi.
Dopodiché, una serenità innaturale mi avvolse. Diventai prigioniera dell'apatia. Era come trovarsi sott'acqua, con i suoni ovattati e distorti e le percezioni sfocate. Stavo annegando, ma era una sensazione piacevole, un soffocamento dolce e rassicurante.
Volevo precipitare ancora di più. Volevo arrivare a toccare il fondo, perché l'abisso non mi era mai sembrato così accogliente.
Allora sniffai la seconda striscia. Inalai la polvere blu come se ne valesse della mia vita, e a pensarci era così. Ne avevo bisogno per andare avanti, per affrontare la realtà di merda in cui ero stata trascinata contro la mia volontà.
Gettai la testa all'indietro, per aiutare la droga a giungere più in fretta al cervello. Udii a malapena Cheslav, al mio fianco, che borbottava parole incomprensibili in spagnolo. Stava recitando una specie di litania, mentre sfiorava il suo orecchino con il pendente a forma di croce.
Forse stava pregando. Se per me o per lui, non ne avevo idea. La sua fede era contorta e infrangeva almeno metà degli insegnamenti della Sacra Bibbia, ma almeno lui aveva qualcosa in cui credere e riporre la speranza, a cui appigliarsi nelle situazioni di sconforto.
Al contrario di me, che vagavo da tempo in un Inferno terrestre, senza via di scampo.
Non capivo più un cazzo.
E non mi riferivo soltanto alla soap opera colombiana che trasmettevano in quel catorcio della televisione di Cheslav. Era una serie scadente, con una trama così ingarbugliata e ricca di segreti che risultava impossibile da seguire e gli attori che snocciolavano frasi in spagnolo alla velocità della luce.
No, mi riferivo piuttosto a come mi sentivo. Sdraiata sul divano di Cheslav e incastrata tra le sue braccia, con la guancia schiacciata sul suo torace nudo, avevo perso ogni contatto con il mondo esterno. Ero come isolata in una camera anecoica con le pareti spesse tre metri, dalle quali non filtrava alcun rumore. Respiravo appena, il battito pericolosamente lento, e le mie palpebre combattevano per chiudersi, ma non volevo addormentarmi. Cheslav mi accarezzava i capelli sciolti, mi sfiorava la tempia con le labbra, in gesti spontanei e teneri che mi aiutavano a restare sveglia e ancorata alla realtà.
«Cosa le sta dicendo?» mormorai, riferendomi all'uomo sullo schermo che parlava animatamente con una donna dai capelli neri. Lei aveva uno sguardo dispiaciuto, lui un'espressione ferita e desolata.
«Felipe si è appena dichiarato a Inés. Ha detto che la amerà per il resto dei suoi giorni, anche se lei non ricambia, perché è innamorata di un altro uomo» mi spiegò, senza smettere di lambirmi la nuca con le dita. Le sue labbra si piegarono in un sorriso. «Mi ricorda qualcuno, a te no?»
Mi girai su un fianco per guardarlo in faccia. Erano le dieci di sera passate, c'era un buio pesto perché l'unica lampadina della roulotte si era fulminata e fuori stava infuriando un temporale, la pioggia che picchiava sul tetto metallico con foga. La televisione era la sola fonte di luce in quello spazio minuscolo; gettava ombre colorate sul suo viso.
«Perché non posso innamorarmi di te?» chiesi con un filo di voce, un po' a me stessa e un po' a lui. Sollevai la mano e gli accarezzai uno zigomo con i polpastrelli. «Perché sono così rotta, cazzo?»
Cheslav stampò le labbra sulla mia fronte e mi tirò contro il suo petto, intrecciando le nostre gambe. «Non fa niente, niña. Ho abbastanza amore per entrambi.»
«Mi dispiace se ti sfrutto» bisbigliai, seppellendo il viso nell'incavo della sua spalla. «Meriti qualcuno che ti ami veramente, non che ti chieda droga in cambio di sesso.»
«A me non dispiace. Va bene così. Sei la mia migliore amica, Belle, per te farei qualsiasi cosa. E poi lo so che anche tu mi ami, nel tuo modo strano e malato.»
Mi sfuggì un singhiozzo. Stavo cadendo a pezzi. «Mi sento così debole, Ches. È stato un inferno. Mi odio così tanto per essere diventata schiava della droga. Non so per quanto altro tempo posso resistere in questo posto di merda.»
Mi accorsi delle lacrime che tagliavano il mio volto solo quando ne scacciò via una con il pollice e ne catturò un'altra con le labbra. Non ricordavo l'ultima volta in cui avessi pianto; erano trascorsi anni. Allora mi lasciai andare del tutto e mi sbarazzai del peso che mi opprimeva i polmoni. Cheslav asciugò ogni goccia del mio dolore, mentre i singulti mi scuotevano. Tra le sue braccia ero libera di crollare, perché lui avrebbe ricomposto i cocci della mia anima. Mi proteggeva dal mio male interiore.
«Ti rialzerai, Belle. Ci riesci sempre. Io sarò qui a prenderti, ogni volta che cadrai» mi sussurrò all'orecchio. «E se vuoi andare via dal Ghetto, o da Mosca, o persino dalla Russia, dimmi una parola e ti porto via da qui. Mollo tutto e scappo con te. Ho messo da parte abbastanza soldi e se devo usarli voglio farlo per renderti felice. Mi basta una sola parola, niña.»
«Non posso e lo sai benissimo» gli ricordai, tirando su col naso, la voce instabile. «Egor mi ammazza. Ammazza Danny. Ammazza anche te, se scopre il tuo coinvolgimento. Non importa quanto lontano possiamo arrivare: ci troverà sempre, ovunque, e ce la farà pagare. Ci rovinerà la vita, più di quanto non lo faccia già ora.»
Quel bastardo aveva ragione. Io ero la sua prigioniera e questo non sarebbe cambiato mai.
«Troveremo una soluzione, prima o poi» dichiarò Cheslav, sicuro e determinato come poche volte l'avevo visto. «Non ti lascerò morire nella sua fortezza, Belle. Ti giuro che un giorno ce ne andremo. Dammi il tempo di escogitare un piano. Fidati di me.»
«Di te, sempre.»
Mi aggrappai a quella bugia, a quella promessa carica di illusioni. Mi aggrappai a lui, alla mia colonna, fino a precipitare in un sonno privo di incubi.
Angolo autrice
Ciao a tutti readers 💓💓
Scusate il ritardo, ma ho avuto alcuni spiacevoli imprevisti. Inoltre questo capitolo non mi fa impazzire, ma ho voluto pubblicarlo lo stesso 🥲
Non succede niente di particolare, ma abbiamo qualche dettaglio in più sul rapporto tra Egor e May. Lui la vede come un oggetto (un'arma) di sua proprietà e non vuole assolutamente perderla. Ci sarà dell'altro sotto? 👀
Cheslav, invece, è un amore come al solito 💘💘 Sostiene May anche nei suoi momenti peggiori, e in questo capitolo ha davvero toccato il fondo. Riuscirà a risollevarsi?
Se aspettavate Connor, torna nel prossimo capitolo, non temete. Cercherò di non farvi attendere troppo.
Ricordate di stellinare, commentare e seguirmi su IG per anticipazioni e novità: miky03005s.stories ✨️
Alla prossima! Xoxo <3
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