Capitolo 11

Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 21 ottobre 2019

"Novaja Gazeta - 20/10/2019
A cura di Anastasia Khlebnikov

Stavolta non voglio parlarvi d'arte nel vero senso del termine, ma non uscirò dall'argomento. Immagino che siate al corrente degli ultimi avvenimenti riguardanti la Galleria Tretyakov, dal furto mancato di un preziosissimo dipinto al ritrovamento di un furgone con tracce di sangue. Ieri, 19 ottobre, è arrivato un nuovo sviluppo nel caso: è stato rinvenuto il corpo senza vita di Juri Lepik, un noto ladro alleato della mafia estone, sul fondo del fiume Moscova. Per Zefina Terasova, direttrice della Galleria dal 2013, non ci sono dubbi che Lepik sia il responsabile del quasi-furto. Tuttavia, esprime dubbi sul suo omicidio.
Be', amici, anche io ho i miei seri dubbi, ma dubbi di altro genere. Il cadavere di Lepik riporta delle contusioni al cranio, segno che la sua testa è stata sbattuta più volte prima di perdere i sensi ed essere ucciso. E, guarda caso, il furgone che è stato ritrovato aveva il volante imbrattato di sangue. Che qualcuno si sia dimenticato di ripulirlo? Gli investigatori pensano che si tratti di un omicidio, ma non hanno nessuna pista, al momento.
Io una pista forse ce l'ho, grazie ai miei adorati lettori. Uno di voi mi ha allegato alcune fotografie scattate nella Galleria e ha segnalato la presenza di due figure sospette che si aggiravano tra le sale del primo piano, quel giovedì. Sono un ragazzo e una ragazza, entrambi molto giovani e vestiti di nero. Il mio informatore ha aggiunto che li ha visti entrare dall'ingresso riservato allo staff, saltando la fila. Che non fossero semplici turisti? E dovremmo credere al fatto che Zefina Terasova sia all'oscuro di tutto? Dopotutto non è un mistero che le istituzioni culturali collaborino da decenni con le organizzazioni criminali, usando i loro sicari in operazioni di salvaguardia delle opere pubbliche. Affidano il lavoro sporco a qualcun altro e ne escono con le mani pulite.
Non appena avrò raccolto altre prove e testimonianze, porterò le fotografie alle forze dell'ordine, assumendomene ogni responsabilità. Non ho paura di sfidare apertamente questa gente. L'arte non ammette nessun tipo di violenza, neanche se mirata a proteggerla."

Abbandonai il telefono sul ripiano della scrivania, senza arrivare in fondo all'articolo, e mi accasciai contro lo schienale della sedia. La pagina online della sezione "arte e cultura" della Novaja Gazeta, una rivista settimanale di cui non conoscevo neppure l'esistenza fino a cinque minuti fa, era ancora aperta, con una fotografia limpida che svettava sullo schermo: io e Connor girati di spalle, davanti a uno dei quadri della Galleria.

Non volevo continuare la lettura. Mi erano bastati due paragrafi per capire che eravamo nella merda fino al collo.

«Le telecamere ci hanno ripreso?» chiesi immediatamente a Egor, torcendo la punta di una delle mie trecce con nervosismo.

«Zefina ha provveduto a disattivarle, quel giorno. Ha riferito agli agenti che c'è stato un cortocircuito» risposte il vory, seduto dinanzi a me con le dita incrociate. «Le uniche prove sono quelle foto.»

Appariva piuttosto calmo. Io, al contrario, percepivo il panico strisciarmi tra le vertebre e gli organi, silenzioso e letale. Eravamo stati incastrati da una fottuta giornalista di nicchia, come dei principianti.

«Cosa facciamo, ora? Dubito che se ne starà con le mani in mano, dopo aver spiattellato quelle foto su internet. Si è esposta troppo» osservai.

«Lo penso anche io, infatti. Le mie spie l'hanno seguita, ieri, e hanno scoperto che si è messa in contatto con la polizia. Non sappiamo se hanno già visto le foto o se abbia deciso di tenerle per sé, ma una cosa è certa: investigherà.»

«Dobbiamo preoccuparci?» domandai, sperando in una risposta che mi tranquillizzasse.

Egor rifletté, prima di rispondere: «Il giornale per cui lavora non è molto conosciuto, ma le notizie girano in fretta, sul web. Il problema non sono le foto, dato che siete a malapena riconoscibili; piuttosto mi preoccuperei del suo coinvolgimento nel caso. Se proseguirà con le ricerche, potrebbe portare a galla verità... scomode. Non possiamo correre il rischio, Maybelle».

Capivo perfettamente il suo discorso e avevo già intuito dove volesse andare a parare. Mi aveva chiamata nel suo studio per un motivo, non soltanto per avvertirmi dell'attività della giornalista.

«Qual è il mio compito?» lo incalzai.

«Direi che è ovvio. Sbarazzati di lei.»

Schietto, glaciale e perentorio. Era tipico di Egor impartire ordini con quel tono di voce. Io, però, non mi mostrai subito accondiscendente.

«Non starai esagerando? Le sue sono parole a vuoto, per quanto mi riguarda. Magari sta solo facendo la spavalda. Basterà una lettera minatoria, per farla tacere» ribattei, cercando una soluzione meno drastica.

La verità era che non volevo presentarmi sotto casa di Anastasia e ucciderla a sangue freddo. Stroncare la vita di una civile che non era invischiata in alcun giro criminale era molto più complicato di sopprimere un capo mafioso. Parlavo per esperienza.

«Vuoi riconquistare la mia fiducia dopo il tuo fallimento a San Pietroburgo? Allora rapisci quella ragazza e uccidila. Se non ci riesci, portala ai miei uomini. L'importante è liberarsi di lei, in un modo o nell'altro. Ci siamo intesi, Maybelle?»

Digrignai i denti. Non sopportavo quando mi metteva all'angolo. Mi avrebbe fatto bruciare la sconfitta contro Valerio Critelli finché non avessi eseguito un altro omicidio impeccabile.

«Dammi il suo indirizzo di casa ed entro stasera nessuno saprà più nulla di lei» ringhiai, costretta a sottomettermi.

«Sapevo di potermi fidare di te» pronunciò soddisfatto. Mi allungò un foglio con sopra scritti i nomi di alcune vie affiancate da degli orari. «Ah, e portarti dietro quel novellino, Connor. Lavori meglio con lui, a quanto pare.»

È una presa per il culo?

Non mi diede il tempo di oppormi. «Ricorda le tue stesse parole, Maybelle. Hai tempo entro il tramonto per portarmi Anastasia Khlebnikov, viva o morta.»

Quartiere Sokol, nord di Mosca

«Siamo davvero obbligati a farlo?»

«Taci e continua a guidare, Reed» risposi con acidità.

Ma naturalmente Connor non mi stava ad ascoltare: «Non capisco cosa abbia fatto di male questa ragazza. Sarà una povera sprovveduta. Come può rappresentare una minaccia per Egor?».

«Prendi nota: i poveri sprovveduti sono sempre i più pericolosi, perché non sanno a cosa vanno incontro. E rappresenta un'enorme minaccia, dato che ha delle nostre foto in suo possesso.»

Connor distolse per un istante gli occhi nocciola dalla strada e li spostò sulla mia figura, seduta accanto a lui. «Sono parole tue o di Egor?»

Non gli risposi. Poco importava. Ci era stato dato quell'incarico e avremmo dovuto svolgerlo, a dispetto del suo animo da buon samaritano.

«Svolta nell'Ulitsa Vrubelya» mi limitai a fornirgli le indicazioni.

Connor obbedì e parcheggiò nei pressi di un cantiere costeggiato da un viale alberato. Scesi dall'auto e scrutai i dintorni. Sokol era un quartiere residenziale piuttosto carino, pieno di spazi verdi e palazzine dai colori candidi. Quasi mi dispiaceva turbare quella tranquillità con un omicidio.

«La giornalista abita al civico 4» informai Reed, quando uscì dall'abitacolo. «Hai preso la pistola che ti ho detto?»

Annuì, scostando un lembo della giacca per mostrarmi la Makarov PM in acciaio nero. «Non ho ancora capito perché dobbiamo usare queste armi da principianti, quando abbiamo dei fucili.»

«Perché, se per qualche motivo la polizia dovesse trovare il corpo o un proiettile dovesse sfuggirci, non devono ricollegare il delitto alla mafiya. Non deve sembrare che l'assassino sia un professionista.»

«Ha senso» mormorò tra sé.

Certo che aveva senso. Egor calcolava ogni singolo contrattempo o imprevisto, quando formulava un piano. E mi costava ammetterlo, ma ammiravo quella sua capacità analitica.

Io e Connor attraversammo un incrocio e giungemmo ai piedi di uno dei numerosi palazzi tinti di bianco. Cercai il nome di Anastasia sul pannello del citofono e feci per suonare, ma Reed mi bloccò il polso.

«Aspetta,» disse, «come intendi attirarla in trappola?»

Gli scoccai un'occhiata malevola e strattonai il polso. «Ne abbiamo già discusso. Fingiamo di doverle consegnare un pacco, la facciamo scendere e la rapiamo. Poi la portiamo al Ghetto e valutiamo come ucciderla. Chiaro?»

«È troppo rischioso. Potrebbero vederci. Lei potrebbe lottare. Siamo pur sempre in una strada trafficata.»

Incrociai le braccia al petto e lo osservai. «E allora cosa proponi, Reed?»

«Hai carta e penna?» mi chiese d'un tratto.

Scavai nella tasca della giacca e gli porsi il ritaglio dell'articolo di Anastasia, in cui parlava dell'omicidio del ladro estone. «Ho solo questo. Comunque mi sembra di averti già detto che Egor non vuole che le mandiamo lettere minatorie.»

«Infatti le manderemo un altro tipo di avvertimento.»

Si assicurò di non essere visto da nessuno dei passanti e sfilò la pistola dalla giacca. Estrasse uno dei proiettili dal caricatore e lo avvolse nel pezzo di carta. Prima che potessi comprendere la sua idea, infilò la pallina nella cassetta della posta di Anastasia.

«Un proiettile e la stampa del suo articolo. È abbastanza eloquente, no? Vediamo come reagisce. Se ignora la minaccia, allora procederemo con il piano di Egor.»

«Sarà anche una trovata intelligente, ma devi smetterla di fare di testa tua, Reed» lo rimproverai, seccata. «Egor ci aveva lasciato delle direttive precise da seguire.»

Mi schiacciò l'indice sulla fronte, con il sorrisetto di chi la sapeva lunga. «E tu dovresti cominciare a fidarti del tuo istinto, May, e non sempre delle sue parole. Siamo noi che facciamo il lavoro sporco, mentre lui si scopa qualche prostituta nel suo ufficio e si arricchisce con i nostri sforzi. Abbiamo il diritto di agire come più ci sembra giusto.»

Non aveva tutti i torti, ma odiavo il pensiero di rendergliene atto, perciò evitai di replicare. Tornammo in macchina e aspettammo che Anastasia si facesse viva. Secondo la sua tabella di marcia, a quest'ora di solito usciva per andare alla redazione giornalistica della Novaja Gazeta.

Non scollai mai le pupille dal parabrezza, fisse sul portone principale del condominio. Dopo almeno mezz'ora di attesa, riconobbi la sua figura minuta. Era una donna di circa trent'anni, con i capelli di un rosso sgargiante. Si fermò a controllare la cassetta della posta, nella quale trovò il regalino di Connor.

Avrei voluto vedere la sua espressione, tuttavia c'era troppa distanza tra l'auto e l'ingresso del palazzo. Riuscii a notare il movimento della sua testa, come se si stesse osservando intorno, forse cercando di individuare il mittente di quel messaggio esplicito.

E poi fece una cosa che mi sorprese: si avvicinò al primo cestino della spazzatura e vi gettò il proiettile avvolto nella carta. Col mento alto e la postura sicura, si incamminò lungo il marciapiede e salì a bordo di un'auto rossa, poi sfrecciò via dal quartiere.

«Cazzo» imprecò Connor, realizzando che il suo piano aveva fallito. Tirò una manata al volante. «Non può essere davvero così sconsiderata.»

«Te l'avevo detto, Reed. Quelli come lei non si mettono in mostra per poi nascondersi. Vanno fino in fondo» gli rinfacciai. «E anche noi andremo fino in fondo, quindi accendi il motore e seguila.»

Capivo dalla sua espressione che avrebbe voluto ribellarsi e permettere a quella ragazza di vivere in pace, ma sapeva meglio di me che non avevamo altra opzione. Quando entravi nel giro del Ghetto, diventavi proprietà di Egor. O eseguivi i suoi ordini o, semplicemente, morivi. Ci voleva poco per passare dal ruolo di carnefice a quello di vittima, nella nostra organizzazione.

Dunque, Connor mi ascoltò e mise in moto la macchina. Pedinammo Anastasia per alcuni chilometri, nascondendoci nel traffico, finché la nostra preda non parcheggiò davanti all'edificio della redazione giornalistica. Scomparve all'interno e indicai a Reed di fermarsi esattamente di fronte alla macchina della ragazza, però dall'altro lato della strada.

«E adesso? Vuoi entrare e compiere un omicidio di massa?» mi chiese in tono aspro, alzando il freno a mano.

«No, ovviamente. Avremmo dovuto rapirla prima, ma hai rovinato tutto. Non possiamo irrompere con le pistole nella redazione o chiameranno la polizia. Perciò io entrerò fingendomi una turista, inventerò una scusa per portarla fuori e tu le sparerai da qui. Salirò in macchina prima che chiunque possa accorgersene e ce ne andremo. Veloce, pulito e indolore.»

«Avrei da ridire sugli ultimi due punti. Anzi, su tutto

«Tieni le tue lamentele per te, Reed, e inizia a prendere la mira. So che ne saresti tentato, ma cerca di non uccidere me, al suo posto» ironizzai e, senza aspettare la sua risposta, scesi dal veicolo.

La redazione della Novaja Gazeta era piuttosto piccola, ma ben organizzata, con file di scrivanie e giornalisti che battevano la tastiera del computer, assorti nel loro lavoro. Mi avvicinai a quella che credevo fosse la segretaria, una donna con gli occhiali e i capelli scuri raccolti in una coda, che osservava il monitor con aria annoiata.

«Mi scusi,» attirai la sua attenzione, «può aiutarmi?»

Mi squadrò da dietro la sua scrivania, probabilmente chiedendosi cosa ci facesse una turista nella redazione. «Sì?»

«Ho urtato il cofano di una Volkswagen rossa parcheggiata qui davanti. Sa dirmi se appartiene a uno dei dipendenti?»

«Un attimo» disse e raggiunse le postazioni dei giornalisti.

La seguii con lo sguardo e vidi che si fermava alla scrivania di Anastasia, per riferirle che la sua auto era stata danneggiata. La donna si alzò in piedi e si precipitò nella mia direzione. Sembrava leggermente furiosa. Be', tra non molto, quando si sarebbe trovata un proiettile nel cranio, non lo sarebbe stata più.

«Cos'è successo?» mi chiese. Notai che la sua pronuncia inglese era piuttosto buona. In effetti, aveva viaggiato per anni come reporter internazionale.

«Credo di aver urtato la tua macchina» simulai un'espressione mortificata. «Posso ripagarti.»

«Preferirei constatare la gravità dei danni, se permetti» dichiarò.

Concordai e uscimmo insieme dalla redazione. Raggiungemmo la sua macchina e le indicai il cofano. Mentre lei si piegava sulle ginocchia per analizzare da vicino il telaio, spostai lo sguardo su Connor, a qualche decina di metri da noi. Ci stava osservando, attraverso il finestrino abbassato, e potevo scorgere la canna della pistola già in posizione. Gli feci un segno con le dita, per dargli l'okay, e lui sparò.

Poi niente andò come previsto.

«Qui non c'è nulla. Sei sicura che fosse la mia macchina, quella che hai urtato?» stava dicendo Anastasia, nel momento in cui il proiettile partì.

E invece di conficcarsi nella sua testa o in qualche altra zona vitale del suo organismo, colpì una delle ruote anteriori. Il suono dello pneumatico che si bucava e dell'aria che fuoriusciva fece sussultare la giornalista, che corse a controllare.

Restai immobile, troppo sorpresa per pensare a una soluzione rapida al casino che aveva appena combinato Reed. Ci aveva smascherati. Aveva mandato il mio piano a puttane.

Anastasia non era stupida. Le bastarono pochi secondi per collegare gli eventi: una turista strana le diceva di aver danneggiato la sua macchina, ma non c'erano tracce di alcun tipo, e nel frattempo un proiettile sbucato dal nulla aveva atterrato la sua ruota. Se sommato al fatto che quella mattina aveva ricevuto una minaccia nella sua cassetta della posta... il risultato era abbastanza chiaro.

Sapevo che a momenti avrebbe reagito, e c'erano due opzioni: o sarebbe scappata in preda al panico o mi avrebbe aggredito, pervasa dall'istinto di sopravvivenza. Dunque mi mossi per prima e le saltai alla gola, intrappolandola con un braccio. Si dimenò e strillò, tentando in ogni modo di colpirmi e liberarsi, ma la tenni ben ferma, una mano sulla sua bocca per ovattare le grida.

«May!» esclamò Connor. Mi distrassi per un attimo e appurai che si era avvicinato con la macchina. «Sali! Muoviti!»

Dovevo muovermi. Presto si sarebbero radunati i civili, attirati dalla confusione. Trascinai Anastasia fino all'auto, ma si ribellava troppo e i muscoli delle mie braccia cominciavano a bruciare. Non trovando altra scappatoia, sbattei la sua nuca contro la carrozzeria, con abbastanza forza da farle perdere i sensi. Mantenni il suo corpo inerme, caricandomelo addosso, e mi fiondai dentro l'abitacolo.

Connor schiacciò l'acceleratore e sfrecciò via, immettendosi in una strada secondaria. Avevo il fiatone per lo sforzo di bloccare Anastasia, la quale giaceva riversa sui sedili posteriori. Gli avvenimenti si erano succeduti talmente in fretta che ci misi un po' a recuperare il contatto con la realtà.

Quando tornai padrona di me stessa, una rabbia cocente mi pervase. Se non mi sporsi per strangolare Reed fu solo perché stava guidando. Ciò non mi impedì di insultarlo con una certa foga, naturalmente.

«Che cazzo hai nel cervello?!» sbraitai. «Chi ti ha insegnato a sparare? Come hai fatto a colpire la ruota, razza di coglione incompetente?!»

Connor incrociò i miei occhi grondanti di furia dallo specchietto retrovisore. «Egor la vuole uccidere? Bene, ma non seguiremo soltanto le tue idee. Che, tra parentesi, fanno schifo.»

Allora, udendo la tranquillità della sua voce, realizzai. Connor non era un incompetente, come l'avevo chiamato, e il suo non era stato un errore di mira. L'aveva fatto apposta.

«Stanne certo, Reed, non ti lascerò passare questa effrazione. Ne parlerò a Egor. Che io sia maledetta, se finirò di nuovo in missione con te» proclamai, indignata e piena di stizza.

«Dove siamo diretti?» mi chiese, ignorandomi.

«Torniamo al Ghetto.»

Non proferimmo suono finché non rientrammo nel quartiere. Ordinai a Connor di guidare verso una zona solitaria e buia, in modo da essere al riparo da sguardi indiscreti. Era vero che nel Ghetto vigeva la regola dell'omertà e che i membri dell'organizzazione non si sarebbero mai rivolti alla polizia, ma era meglio essere prudenti, se si trattava di commettere un omicidio per conto del vory.

Connor accostò sul ciglio di una strada malmessa, circondata da palazzi dalle mura crepate. Mi aiutò a prelevare Anastasia dall'auto e la appoggiammo con la schiena contro un muretto tappezzato di graffiti. Le diedi alcuni colpetti sulle guance, per svegliarla.

Ci volle un po', ma ritornò cosciente. Portò una mano sulla fronte, dove un grosso ematoma testimoniava la botta che le avevo assestato. Scrutò prima l'ambiente circostante e poi si accorse di me e Connor, in piedi dinanzi a lei. Sgranò gli occhi verdi, riconoscendomi, e distinsi con chiarezza la morsa del panico e del terrore che la agguantava.

Anastasia provò ad alzarsi, magari per scappare. La bloccai con una mano sulla spalla, spingendola di nuovo a sedere sul cemento, ed era talmente scombussolata che non dovetti impiegare molta forza per trattenerla.

«Sta' ferma» le ordinai, in tono duro. «Mi sono già stancata di te.»

Detto ciò, recuperai la pistola e inserii le munizioni. Lo scatto del caricatore la fece sussultare, ma nascose i tremiti. Si mostrava impassibile, anche se era palese quanto fosse spaventata.

«Chi siete?» ci domandò, la voce vibrante eppure risoluta.

«Delle persone a cui ha infastidito molto il tuo articolo da due soldi.»

«Chi vi manda? Zefina Terasova?»

Risi per la battuta. «Credi che ne avrebbe il coraggio?»

«Siete dei mafiosi?» continuò a interrogarmi, come se la vittima fossi io.

«Scusa se mi astengo dal rispondere, ma ho una certa fretta.»

Puntai la pistola nella sua direzione, pronta a sparare. Tuttavia ci ripensai. Ero ancora incazzata con Connor e quale modo migliore di punirlo, se non fargli compiere l'atto che aveva ripudiato sin dall'inizio?

«Fallo tu» gli dissi, guardandolo dritto in faccia. «Prova a lamentarti e vi uccido entrambi.»

Non stavo scherzando. Ero così arrabbiata per il suo giochetto di prima che sarei stata in grado di farlo. E Reed, che idiota non era, obbedì. Prese la sua pistola e abbassò la canna verso Anastasia. Lei si rannicchiò su se stessa e cominciò a piangere, rompendo la sua barriera di coraggio.

«Ti prego, non farlo!»

La mano con cui Connor reggeva l'arma ebbe un leggero tremito. La sua espressione era il ritratto dell'insicurezza, mentre osservava la nostra preda. Compresi che il suo comportamento di oggi, i suoi sforzi per cercare una via meno sanguinosa e drastica, fossero dovuti a evitare quella situazione: lui costretto a spegnere la vita di una comune civile.

«Non ci riesco» esalò.

«Connor,» ringhiai, «uccidila

Con la mano libera si strattonò i capelli. «Non posso farlo, cazzo. Non posso.»

Mossi un passo verso di lui, per strappargli la pistola e concludere quella pagliacciata, ma la giornalista fu più veloce: tirò un calcio alla mano di Connor, facendo cadere l'arma, e si alzò per correre via.

Oh, no. Non sarebbe finita così, stavolta. Non avrei fallito di nuovo, soprattutto non a causa del buonismo di Reed.

Impugnai la mia Makavor e recuperai la sua da terra. Schiacciando contemporaneamente i grilletti, sparai due colpi. I proiettili, seguendo una traiettoria precisissima, si conficcarono nella nuca di Anastasia. La sua fuga si interruppe e cadde al suolo, allagando l'asfalto del suo sangue.

Sbattei la pistola sul petto di Connor e gli dedicai uno sguardo che era un concentrato di veleno, furia e arroganza. «Hai visto come si fa, Reed?»

Non fece in tempo a ribattere perché dei lamenti sommessi catturarono la nostra attenzione. Provenivano da Anastasia.

Ci avvicinammo al corpo, immerso in una pozza cremisi, e Connor lo voltò. La giornalista aveva le palpebre aperte e boccheggiava in cerca d'aria. I suoi lineamenti, dal colorito pallido innaturale, erano contratti in una sofferenza atroce. Sembrava che volesse muoversi ma che non riuscisse a governare i propri muscoli.

Era ancora viva. Agonizzante, gravemente ferita e paralizzata, ma viva.

«Dobbiamo chiamare un'ambulanza» dichiarò Connor. «Forse possono salvarla.»

«Sei impazzito? Cosa diresti ai paramedici? Che abbiamo tentato di ucciderla e poi ci abbiamo ripensato?» replicai alla sua folle idea.

«Non possiamo lasciarla così, May!» il suo tono si scaldò. Mi guardava con l'urgenza negli occhi. «Saremmo dei mostri.»

«Sei un illuso, Connor» sibilai. «Ti sei scordato per chi lavoriamo? Ti sei scordato che abbiamo ucciso un uomo, qualche giorno fa? Ti sei scordato che siamo membri di una fottuta organizzazione mafiosa? Siamo dei mostri, e non me ne importa un cazzo se i tuoi sensi di colpa si sono svegliati adesso. Non saresti dovuto diventare un sicario.»

Senza pensarci due volte, piantai la canna della pistola sulla fronte di Anastasia e sparai un terzo proiettile. La uccisi all'istante.

«Sei contento? Così non ha patito troppo dolore.»

Connor stava scuotendo la testa. Alternò le pupille dal cadavere a me e lessi l'orrore nel suo sguardo nocciola. Sapevo che mi considerava brutale e disumana, ma me ne fregai. Ero consapevole di esserlo; non l'avrei mai negato.

«Torna in macchina, se non vuoi rimanere qui. Io aspetterò gli uomini di Egor per sbarazzarci del corpo» gli proposi.

«Non avrà neanche una degna sepoltura» fu tutto ciò che mormorò lui.

Sospirai. Non avevo le forze di urlargli quanto fosse ingenuo. «Torna in macchina, Connor.»

Con mio stupore, non aggiunse altro e se ne andò. Presi il telefono per scrivere a uno degli scagnozzi di Egor di portare il barile. Avrebbe capito da solo. Dopodiché, mi sedetti sul ciglio del marciapiede, a contemplare il cadavere di Anastasia Khlebnikov.

Era da tanto che non praticavo il mio rituale post-omicidio. Cinque minuti in cui semplicemente osservavo la vittima, ripetendo tutto ciò che conoscevo riguardo la sua vita, alla disperata ricerca di un briciolo di rimorso.

Nemmeno quella volta arrivò. Nemmeno quella volta mi pentii.

Non fu una novità sconvolgente. Sapevo perfettamente che qualcosa, in me, non funzionava da tempo. Mancavo di empatia, mancavo di gentilezza, mancavo di umanità. Il mio cervello agiva per il solo scopo di sopravvivere. E per sopravvivere dovevo distruggere gli altri, distruggendo così me stessa.

Un loop infinito dal quale non sarei mai uscita. Ero un'anima scheggiata, senza speranza di redenzione.

A tirarmi fuori da quella nebbia di riflessioni oscure fu l'arrivo di un furgone nero, che parcheggiò poco distante. Ne uscirono due uomini alti e possenti, con il collo e le braccia coperti di tatuaggi.

«Holsen» mi salutò Filipp, rivolgendomi un cenno. Spostò gli occhi azzurro ghiaccio sul cadavere di Anastasia, ai suoi piedi. «Carino il buco in fronte. Opera tua o del novellino?»

«Prendila e fa' ciò che devi fare alla svelta» tagliai la conversazione. «Io e il novellino torniamo alla Villa.»

«Ai tuoi ordini, vory» mi schernì, apostrofandomi con l'appellativo riservato a Egor. Chiamò il suo collaboratore: «Gavril, pomogi mne».

I due uomini sollevarono il corpo di Anastasia, i vestiti e i capelli imbrattati di sangue che gocciolava, e la trasportarono fino al furgone. Spalancarono i portelli del cassone e scorsi un barile di metallo all'interno.

«Va' pure, Holsen. Ci pensiamo noi. Tra un'ora non ci sarà più traccia del cadavere» mi assicurò Filipp.

Mi fidavo delle loro capacità. Erano esperti nella distruzione e nello scioglimento dei corpi.

Raggiunsi l'auto sulla quale mi aspettava Connor, seduto al volante. Strano che non mi avesse abbandonata per farmi un dispetto. Occupai il sedile del passeggero e, senza fiatare, mise in moto e partì.

Il percorso per giungere alla Villa non durò più di tre minuti. Connor si fermò nel parcheggio. Guardando dal finestrino, scoprii che il sole stava tramontando; significava che avevo rispettato la promessa fatta ad Egor. Ne sarebbe stato compiaciuto.

«Non ti senti una merda?» La voce di Reed squarciò il silenzio. «Perché io sì.»

Girai la testa nella sua direzione. Il suo sguardo era fisso sul parabrezza, le nocche strette intorno al volante, nonostante avesse spento l'auto.

«No» risposi con una sincerità e pacatezza disarmati.

«Era una ragazza innocente. Stava solo svolgendo il suo lavoro.»

«Un lavoro che ci metteva in pericolo» precisai. «Qui funziona in questo modo. C'è un accenno di minaccia? Si sopprime sul nascere. Senza se e senza ma. E senza questi inutili rimorsi.»

«Inutili rimorsi» ripeté sottovoce. Un sorriso amaro gli si incise sul volto. «Mi sembra di parlare con una psicopatica.»

«Forse è ciò che sono» ammisi con tranquillità.

Si decise a guardarmi in faccia. «Come fai a essere così calma? Spiegamelo, cazzo, perché io sto per uscire di senno.»

«Non mi sembravi così disperato, quando hai aggredito Lepik.»

«Era una situazione diversa. Lepik era un criminale. Quella ragazza non aveva nessuna colpa, se non quella di inseguire la verità. Non meritava una fine del genere.»

«Che cazzo di ragionamento è? Per te alcune vite valgono meno di altre?» contestai, infastidita. «Svegliati e metti da parte questo falso buonismo, Connor.»

«Almeno io do importanza alle vite delle persone innocenti, al contrario di te, che ammazzeresti chiunque senza battere ciglio solo per il volere di Egor!» sbottò.

D'accordo. Voleva discutere? Allora avremmo discusso.

«Toglimi una curiosità, Reed. Perché diamine hai accettato di diventare un sicario? Cosa credevi che avresti fatto, durante le missioni? Chiacchierare amabilmente con la preda?»

«Non è una storia che ti riguarda, il perché io sia qui» mormorò tra i denti serrati.

«Non mi riguarda finché non metti a repentaglio il mio lavoro! Se sei così suscettibile, chiedi a Egor di assegnarti un posto come aiuto-cuoco. Non c'è spazio per i deboli, tra di noi.»

Connor si allungò verso di me, avvicinandosi fin troppo per i miei gusti. Incastrò le sue iridi nelle profondità delle mie. «Dovresti saperlo, che non sempre abbiamo libertà di scelta. Che a volte siamo costretti a vestire ruoli che in realtà detestiamo. E per quanto voglia lasciare questo posto di merda, non posso, proprio come te» sussurrò. «Sai qual è la differenza tra noi due, May? Io ho avuto il coraggio di preservare i miei valori morali e di non vendere l'anima a Egor Bayan, in cambio di un po' di soldi.»

«Ti ho già detto che non sai un cazzo di me» ringhiai.

Non potevo spiegargli che dei soldi non me ne fregava niente, e che nemmeno mi servivano, vista la mia condizione di prigioniera. Non potevo spiegargli che avevo venduto l'anima a Egor Bayan per proteggere quella di mio fratello dal marciume della mafiya.

Quindi, mi limitai a regalargli un vaffanculo, Reed e a uscire dalla macchina.

Dopo aver riferito a Egor il successo della missione e aver ufficialmente riconquistato la sua piena fiducia, tornai in camera. Trovai mio fratello sdraiato sul suo letto, mentre leggeva un libro di cui non mi interessai.

Calciai via le scarpe e la giacca, appoggiai la pistola sulla scrivania e mi sedetti sul mio letto di peso, affondando del materasso.

«È andata bene?» si premurò di chiedermi Danny, sollevando gli occhi cerulei dalle pagine.

«Ho fatto una cosa brutta» annunciai all'improvviso. «Spregevole.»

Mio fratello chiuse il libro e lo posò sul materasso. Si mise a sedere, in modo da fronteggiarmi. «Okay. Allora?»

Intuii le parole sottintese: io facevo sempre cose spregevoli. Perché glielo stavo dicendo?

«Il punto è che... credo di sentirmi in colpa. Forse per la prima volta me ne sto pentendo.»

Avevo riflettuto a lungo sul discorso di Connor, prima di incontrare Egor, ed ero arrivata alla conclusione che il novellino aveva ragione.

Anastasia aveva semplicemente svolto il suo lavoro. Aveva deciso di non stare in silenzio di fronte alle ingiustizie, aveva scelto di far sentire la sua voce. Mi ero fatta plagiare da Egor. Gli avevo permesso di convincermi che quella ragazza fosse una minaccia.

E anche se lo fosse stata davvero, anche se avesse continuato a indagare con il rischio di scoprire la verità, la sua esistenza non meritava di essere stroncata così. L'avevo uccisa come se fosse stata un animale.

Era proprio vero che avevo perso ogni valore. Non restava niente di salvabile.

Reed era riuscito a conservare la sua empatia, nonostante il contesto depravato del Ghetto. Per questo non avevo riferito a Egor il suo comportamento ribelle e avevo finto che l'omicidio fosse stato commesso da entrambi. Lo avevo inconsciamente protetto.

Ma, al tempo stesso, non volevo avere più niente a che fare con lui e le sue parole gentili. Mi spaventavano le riflessioni che i suoi discorsi scaturivano nella mia mente. Stavo iniziando a pensare che anche un mostro come me fosse in grado di provare emozioni distanti dalla rabbia e dall'odio.

Stavo iniziando a credere di essere capace di pentirmi. Era ridicolo.

«Ti va di parlarmene?» domandò Danny, cauto.

Allora gettai tutto fuori. Condivisi quei pensieri con lui. Gli dissi che detestavo Connor, ma che più di lui detestavo me stessa, per la mia incapacità di provare compassione.

Quando conclusi il mio sproloquio, Danny venne a sedersi al mio fianco. Mi tirò tra le sue braccia e mi strinse a sé. Incastrai la testa sotto il suo mento e mi aggrappai alla sua maglietta.

«Lo sai che io ti vorrò sempre bene, vero? Non importa quante azioni mostruose tu compia. Rimarrai sempre la persona che amo più di chiunque altro al mondo.»

«Sei tutto ciò che ho, Danny» bisbigliai.

Cominciò a sciogliermi le trecce, sfilando gli elastici e districando i capelli, che mi ricaddero sulla schiena. «Posso fare un'osservazione? Non ti incazzare, però.»

Mi allontanai da lui, per guardarlo negli occhi, e annuii. «Certo.»

«Non è mai successo prima d'ora, che ti ponessi tutti questi dubbi su cosa fosse giusto o sbagliato. Com'è possibile che quel Connor ti renda così... volubile? Dov'è finito il tuo autocontrollo?»

«Tu non lo conosci. Reed è un fottuto incrocio tra un coniglio e una iena. Passa dal fare sedute psicologiche notturne al fracassare il cranio di un ladro su un volante. È normale che mi mandi ai pazzi.»

Non mi sfuggì il sorriso che gli piegò un angolo delle labbra. «Sbaglio o hai detto sedute notturne?»

«Danny!» Presi un cuscino e glielo lanciai contro.

Anastasia sentiva tutto e niente allo stesso tempo.

Sentiva l'odore del sangue che impregnava l'asfalto e i vestiti, sentiva le voci dei due ragazzi che discutevano, sentiva gli spasmi di dolore che la travolgevano. Eppure, sentiva anche il vuoto.

Stava precipitando in un abisso. Stava morendo.

Era una tortura lenta e dilaniante. Desiderava che quella caduta terminasse al più presto. Ci provò, a muoversi, ma era bloccata. Non governava più il suo corpo.

Quei ragazzi continuavano a discutere. Non registrava le loro parole. I suoni erano ridotti a un fischio acuto e distorto.

Lo sapeva, dentro di sé, che sarebbe andata così. Doveva aspettarselo, quando aveva scelto di sfidare apertamente la criminalità.

Tuttavia... non se ne pentiva. Aveva lottato per preservare la bellezza dell'arte. Aveva combattuto fino al suo ultimo respiro. Non si era arresa davanti alla prepotenza delle armi.

Era fiera di se stessa e sperò che anche la sua famiglia lo fosse.

E, soprattutto, sperò che la sua storia diventasse un esempio. Un'ispirazione. Sperò che tanti altri giornalisti, in giro per il mondo, avessero il coraggio di dire "basta". Perché lei lo sapeva, che esistevano le persone giuste. Dovevano solo trovare la spinta necessaria per uscire allo scoperto.

Se credevano di averla messa a tacere, si sbagliavano. La sua voce avrebbe continuato a parlare anche dopo la sua morte, più forte di prima.

Poi, d'un tratto, diventò tutto nero. La caduta era terminata.

Era finita.

Spazio autrice

Buona domenica readers 💘

So che avrei dovuto aggiornare ieri, ma questo capitolo è stato davvero impegnativo e non ho fatto in tempo. Spero che ne sia valsa comunque la pena!

Allora, May e Connor danno la caccia a una giornalista che ha denunciato l'omicidio del ladro, avvenuto nello scorso capitolo. Con questa vicenda ci tenevo a parlare di un tema che mi sta molto a cuore, ovvero la libertà di stampa, che spesso è ostacolata dalla mafia. In particolare in Russia rappresenta un problema enorme.

Ho inserito tante riflessioni a riguardo, specialmente nell'ultimo pezzo, un piccolo pov di Anastasia. Non voglio dilungarmi, ci tengo solo a ribadire che in questa storia non troverete mai una mafia romanticizzata. Ho scelto di trattare questo fenomeno per parlare degli effetti negativi che ha sulla società e sugli innocenti, e questo ne è un esempio concreto.

La vicenda è servita anche come spinta per May, che sta iniziando a mettere in dubbio le sue azioni, grazie a Connor. I due hanno avuto anche una discussione più accesa del solito. Cosa ne pensate delle loro motivazioni?

E perché mai Connor sarà diventato un sicario, se non riesce a uccidere? 🤔

Scusate gli eventuali refusi, ma ho fatto le corse per terminare il capitolo entro questa settimana. Fatemi sapere cosa ne pensate, con una stellina o un commento 🙏🏻✨️

Alla prossima! Xoxo <3

Note:

• La Novaja Gazeta è una rivista settimanale che esiste davvero, fondata nel 1993, che ha pubblicato importanti inchieste sulla corruzione dell'esercito russo. Nasce appunto come giornale libero e indipendente, che promuove la libertà di stampa. Al momento la pubblicazione è stata sospesa a causa di alcune segnalazioni.

• Gli avvenimenti del capitolo sono ispirati all'omicidio di Anna Politkovskaja, giornalista della Novaja Gazeta e attivista dei diritti umani, uccisa nel 2006 a causa delle sue critiche contro le forze armate e il governo russo.

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