Capitolo 10

Ghetto Zaffiro, sud-est di Mosca, 17 ottobre 2019

«¡La concha de tu madre

A svegliarmi furono le imprecazioni di Cheslav e un rumore insopportabile, che registrai in seguito come nocche che battevano contro la porta di metallo della roulotte.

Cheslav borbottò qualche altra maledizione in spagnolo e si alzò dal divano letto, privandomi del calore del suo corpo. Mi raggomitolai su me stessa e seppellii la testa nel cuscino, per proteggere le orecchie dal frenetico e continuo bussare. Chi cazzo era?

«Ah, sei tu, chiflada» sentii dire da Cheslav. Il suo tono di voce era a metà tra il fastidio e la sorpresa. «Se cerchi May...»

«Levati dalle palle, seggfej» sbottò l'latra persona, interrompendolo, e riconobbi il timbro acuto di Larysa.

Udii i suoi passi che percorrevano la breve distanza tra l'ingresso e il divano letto, poi improvvisamente mi furono strappate le coperte di dosso e una mano mi artigliò la spalla, scrollandomi con forza. Mi misi a sedere in uno scatto e riversai una valanga di proteste e insulti.

«Cazzo, LaLa!» sbraitai, spingendola. «Tienimi lontana dai tuoi attacchi di isteria.»

«Buongiorno, raggio di sole. Hai la faccia di chi ha passato la notte a scopare e intossicarsi» commentò, delicata come al solito, le labbra curvate in un ghigno.

Be', era la verità. Ieri io e Cheslav eravamo crollati l'uno sull'altra, travolti dalla stanchezza, dopo un pomeriggio e una serata di intenso divertimento. Era riuscito perfettamente nel suo intento di distrarmi dagli eventi degli ultimi giorni. Così perfettamente che sentivo gli effetti della droga ancora nel mio organismo, che mi rallentavano le sinapsi e i movimenti.

«Cosa ci fai qui? Non eri malata?» domandai a Larysa, strofinando gli occhi gonfi e assonnati.

«Tuo fratello mi ha chiamata. Era preoccupato. Non l'hai avvertito che avresti dormito con lo spacciatore messicano, stanotte.»

«Colombiano» lo corresse il sottoscritto, mentre si infilava una maglietta pulita. Quella che aveva indossato il giorno prima la portavo io ed era l'unico indumento a coprirmi. «E questo non ti dà il diritto di irrompere a casa mia come la pazza che sei.»

«Vivi in una roulotte sfasciata in mezzo a un parco abbandonato. Ringrazia che nessuno ti abbia ancora fatto una rapina» ribatté Larysa, pungente.

«Non tutti hanno la fortuna di avere un appartamento pagato dal fottuto boss!» esclamò Cheslav, alterandosi.

In risposta, Larysa sogghignò. Nei suoi occhi celesti, da gatta, brillava una sfumatura derisoria. «Io sono un sicario scelto, tu uno spacciatore. Non c'è bisogno di aggiungere altro.»

Ignorai il resto della discussione, che comprendeva insulti che variavano dallo spagnolo all'ungherese, e ripescai il telefono tra le lenzuola. Avevo tre chiamate perse da Danny e una decina di messaggi non letti.

Ero stata così occupata a maledirmi per il mio fallimento a San Pietroburgo da essermi dimenticata di lui. Meritavo il premio per la sorella peggiore dell'anno.

Guardai l'orario; era mezzogiorno. Gli scrissi che sarei tornata in tempo per il pranzo e che mi dispiaceva di averlo mollato da solo alla Villa.

Scesi dal divano letto e mi tolsi la maglietta di Cheslav per rimettere i miei vestiti. Mentre cercavo la fondina della pistola, mi accorsi che i miei migliori amici mi stavano fissando con una certa insistenza.

«Che volete?» proruppi, nervosa.

«Niente, niente. Magari la prossima volta evita di spogliarti davanti a due persone che hanno fantasie sessuali su di te» disse Larysa. «Sai che soffro di impulsività.»

«Parla per te, chiflada. May le soddisfa pienamente, le mie fantasie» obiettò Cheslav, con il fine di provocarla.

«Bastardo privilegiato. Solo perché sei un ragazzo.»

Scoccai a entrambi un'occhiata di rimprovero, ma non trattenni un sorriso. Il mio ego ne era lusingato, quando l'argomento delle loro discussioni ero io.

E poi era esilarante vederli litigare. Larysa, molto più alta di lui, con la sua lingua tagliente e lo sguardo glaciale, stonava completamente accanto a Cheslav e ai suoi lineamenti dolci, il quale però riusciva sempre a risponderle a tono.

Avevano una bella intesa, in fin dei conti. Le loro personalità vivaci e iperattive si incastravano meglio di quanto lo facessero singolarmente con la mia, molto più fredda e ponderata.

«Ti accompagno alla Villa» decretò Larysa, una volta che ebbi finito di prepararmi. «Devo parlarti.»

Non mi piaceva quella frase, soprattutto se pronunciata da lei. «Hai ucciso qualcuno? Ti sei indebitata di nuovo?»

«O entrambe le cose?» la canzonò Cheslav. «Non sarebbe la prima volta, comunque.»

«Vaffanculo» pronunciò Larysa, indignata. «Siete degli amici di merda.»

«No, sei tu che sei un pericolo ambulante.»

Decisi di levare le tende prima che ricominciassero a prendersi a parole e salutai Cheslav, trascinando Larysa fuori dalla roulotte. Lasciammo l'area del parco e ci incamminammo a piedi verso Villa Zaffiro.

«Di cosa devi parlarmi?» la interrogai, con la curiosità che dilagava.

Lei non sembrò ascoltarmi. Si era distratta, come accadeva spesso, e stava stracciando con la punta delle scarpe le foglie morte che tappezzavano la strada bagnata. Sapevo che quando era agitata o preoccupata tendeva a estraniarsi dalla realtà.

«LaLa?» la richiamai.

Riportò la sua attenzione su di me. «Okay, te lo dico, ma giura di non dare di matto.»

«Non lo giurerò.»

«Ti prego, May. Non voglio che ti arrabbi, perché non è stata una mia scelta.»

Mi fermai sul marciapiede, osservandola in confusione. Era raro che Larysa pregasse qualcuno e ancora più raro che avesse paura delle reazioni altrui. Diceva e faceva sempre ciò che pensava, senza mezzi termini e senza temere le conseguenze.

«Avanti, parla» la spronai, incrociando le braccia al petto. «Non mi arrabbierò.»

Inspirò e sputò fuori in fretta: «Egor mi ha affidato la missione di uccidere Valerio Critelli».

Rimasi in silenzio, assimilando il significato di quella frase. Egor aveva scelto Larysa per rimediare al mio errore. L'aveva fatto per causarmi ulteriore fastidio? Sapeva quanto fossimo legate; eravamo cresciute insieme sotto la sua supervisione.

Ma poi riflettei sulle capacità innate di Larysa, che era un'assassina ben più spietata di me. Dovevo accettare che non ero al centro del fottuto mondo e che, se l'aveva scelta, era perché si fidava di lei. E anch'io mi fidavo.

«Quando parti?» le chiesi, con un tono di voce tranquillo che suonò strano alle mie stesse orecchie.

«Tra un'ora ho il jet» rispose.

«Okay. Sta' attenta.»

Mi squadrò con aria sorpresa, battendo le ciglia chiare. «Perché non stai dando di matto?»

«Perché se nell'intera cazzo di Russia esiste qualcuno più bravo di me ad ammazzare gli stronzi, quella persona sei tu» attestai la pura verità.

Larysa mi abbracciò di slancio, lasciandomi piuttosto interdetta. I gesti affettuosi tra noi due erano quasi inesistenti, specialmente in pubblico. Ricambiai l'abbraccio, affondando le dita nella sua giacca di pelle, intorno ai fianchi stretti.

«Tienilo lontano dai fiumi e non ti avvicinare al suo fottuto cane» mi raccomandai, quando slegò le braccia dal mio collo. «E non farti distrarre dalle sue parole. Sa come confondere la gente.»

Larysa annuì, poi sogghignò spavalda. «Sarà l'ultimo combattimento della sua vita e sarà il più doloroso, puoi giurarci. Nessuno abbatte la mia migliore amica e la passa liscia, cazzo.»

Non avevo dubbi sul fatto che l'avrebbe ridotto in cenere anche per difendere il mio onore. Il bene che le volevo era smisurato.

Arrivammo a Villa Zaffiro una decina di minuti dopo, durante i quali le raccontai i dettagli del mio scontro con Valerio Critelli. Le posi qualche domanda sulla sua vita e rispose con prontezza, segno che aveva davvero studiato il suo fascicolo. Un miracolo, dato che Larysa neanche riusciva a leggere due righe senza perdere la concentrazione.

La salutai davanti all'entrata secondaria della base operativa, ma la sua voce mi frenò: «C'è un'altra cosa che devo dirti, in realtà».

«Ovvero?»

Si torturò una ciocca del caschetto biondo, gli occhi sfuggenti. «Ecco, vedi... oggi pomeriggio dovevo accompagnare Reed alla sua prima missione. Ma dato che devo andare a San Pietroburgo, Egor ha deciso di mollarti il novellino.»

Divenni di pietra. «Che cazzo significa, LaLa?»

«Guarda il lato positivo: sarete in un museo» tentò di rincuorarmi.

Non funzionò. Volevo soltanto raggiungere l'ufficio di Egor Bayan e sbattere la sua testa di cazzo contro la scrivania. Quel dannato bastardo sapeva perfettamente che detestavo condividere le missioni con i novellini.

Ancora di più se quel novellino era Connor Reed.

Adesso sì che sto per dare di matto.

Galleria Statale Tretyakov, quartiere Jakimanka, centro di Mosca

La struttura della Galleria Tretyakov era un capolavoro architettonico.

Una volta attraversati i cancelli situati lungo Lavrushinsky Lane, si giungeva in uno spiazzo dalla pavimentazione in mattonelle. Al centro del cortile si ergeva la statua di Pavel Tretyakov, il fondatore del museo, che accoglieva con sguardo severo i visitatori.

Dietro di essa si stagliava la facciata principale dell'edificio, nello stile fiabesco tipicamente russo. Le mura erano dipinte di un arancione scuro e le tre porte d'ingresso erano sormontate da archi e tettoie dai bordi decorati. Altri mille dettagli, come motivi geometrici e merletti colorati, impreziosivano la facciata.

Meraviglioso. C'era un elemento che stonava, tuttavia: la presenza di Reed al mio fianco. Non ci vedevamo da due notti prima, quando avevamo avuto quella specie di chiacchierata confidenziale in terrazza.

«Non è meraviglioso?» mi domandò Connor, quasi mi avesse letto nel pensiero.

Lo guardai di sfuggita. Le sue pupille erano rivolte alla Galleria, un'espressione incantata che stendeva i lineamenti definiti. Indossava un paio di jeans neri e una giacca di pelle sotto la quale nascondeva la pistola. Le ciocche disordinate di capelli gli sfioravano la montatura degli occhiali.

«Sarebbe ancora più bello se fossi da sola» proclamai, acida. Non avevo digerito che Egor mi avesse reclusa a fare da badante al novellino, mentre LaLa partiva per San Pietroburgo e dava la caccia a Critelli.

«Strano, sono d'accordo con te» disse Connor, in tono di presa in giro.

Lo ignorai e mi incamminai verso l'ingresso centrale, dai battenti di legno a forma di arco a tutto sesto. La fila per entrare era davanti la porta a sinistra, ma avevamo un'alleata che ci avrebbe introdotti nel museo in modo veloce e gratuito.

Le scrissi il messaggio in codice che mi aveva dato Larysa e, poco dopo, uno dei due battenti si aprì. Prima che la folla si accorgesse della scorciatoia, spinsi Connor oltre la soglia e chiusi la porta.

Dinanzi a noi si profilava un'enorme scalinata in marmo, con un tappeto verde e bordato d'oro a coprire i gradini. Alcuni grandi quadri, che raffiguravano paesaggi naturali, erano appesi alle pareti verde oliva; l'ambiente era illuminato da lampadari antichi che emettevano un bagliore dorato e soffuso.

«Larysa e Connor?» ci domandò la donna che aveva sbloccato la porta.

Riconobbi Zefina Tarasova, la direttrice della Galleria. Era come me l'aveva descritta Larysa: una donna bassa e robusta, con i capelli castani che arrivavano alle spalle e gli occhi rotondi.

«Sono Maybelle, la sostituta di Larysa» mi presentai. «C'è stato un cambio di programma.»

Se aveva qualche sospetto, non lo espresse. «Io sono Zefina, la direttrice del museo. Grazie per aver accolto la mia richiesta d'aiuto.»

«È il nostro capo che decide. Noi eseguiamo gli ordini e basta» precisai, puntigliosa e anche un po' irritata, perché se mi trovavo lì non era certo per mia volontà.

La donna passò alla pratica: «Il quadro si trova nella Sala 30, che oggi è stata resa inaccessibile al pubblico. I nostri investigatori dicono che il furto è previsto per le 15.45. Dovete stare attenti a un uomo con i capelli biondi. Dato che manca mezz'ora, potete occupare il tempo ammirando l'esposizione».

«Grazie. Non si preoccupi, Zefina. Ci penseremo noi» dichiarai professionalmente.

Si limitò ad annuire e a borbottare qualcosa in russo, poi sparì nel corridoio adiacente. Io e Connor iniziammo a salire la sontuosa scalinata.

«La direttrice di questo posto ha davvero voluto collaborare con la mafia?» mi domandò Connor, la voce che suonava sorpresa.

«La Galleria appartiene al governo di Mosca e non è la prima volta che le istituzioni culturali si invischiano con Egor. Lui garantisce la sicurezza delle opere pubbliche e un'immagine pulita, in cambio di denaro. Molto denaro. È un'alleanza che giova sia alla città che alla nostra organizzazione.»

«So che stiamo andando a salvare un dipinto preziosissimo da un furto, ma non chi sia il nostro obiettivo» notificò.

«È Juri Lepik, un ladro che lavora per la mafia estone. Ruba quadri dai musei nazionali di tutto il mondo e li rivende al mercato nero» spiegai in brevi termini. «È uno dei nemici più fastidiosi di Egor. Nessuno è mai riuscito a catturarlo, ma sento che oggi sarà il suo ultimo giorno di vita.»

«Per merito nostro?»

«Per merito mio. Non montarti la testa, Reed.»

«A me sembra che l'unica montata, qua, sia tu.»

Ebbi l'autocontrollo necessario a non spingerlo dalle scale. Arrivati in cima alla rampa, girammo a destra, seguendo il cartello con la freccia che indicava il luogo d'inizio dell'esposizione.

Finimmo nella prima sala della Galleria e mi sentii mancare il fiato per un attimo: sulle pareti tinte di un verde allegro, erano appesi quadri di ogni dimensione, perlopiù ritratti di gente nobile vestita sfarzosamente.

Riconobbi quell'emozione che mi riempiva il petto e mi pizzicava la pelle, al cospetto di tanta bellezza artistica. Forse soffrivo davvero della sindrome di Stendhal, come mi ripetevano sempre i miei genitori.

«Quello è Pavel Tretyakov, il fondatore della Galleria.» Connor indicò un dipinto sulla parete di fronte a noi, nell'angolo in alto. Raffigurava un uomo dalla folta barba rossastra, seduto a braccia incrociate su una poltrona. Alle sue spalle, un muro coperto di quadri. «Era un commerciante tessile. Dal 1856 cominciò a collezionare opere d'arte. Quando morì ne aveva già accumulate qualche migliaio, e le lasciò in dono alla città.»

«Sei così saccente da pensare che io non conosca la vita del fondatore del settimo museo d'arte migliore al mondo?» ribattei.

Scrollò le spalle, l'ombra di un ghigno sul volto. «Non sapevo se avessi avuto il tempo di informarti, tra un omicidio e una sigaretta.»

«Vuoi davvero vedere quanto sono informata, Reed? Conosco questo museo come le mie tasche. Anzi, come le mie cazzo di sigarette» pronunciai in tono di sfida.

Inarcò un sopracciglio, un angolo delle labbra sollevato con provocazione. «Allora mostrami il quadro che ritieni più bello.»

«Con piacere» accettai e mi incamminai verso la prossima stanza.

Attraversammo buona parte dell'ala orientale del museo, fino a varcare la soglia della Sala 16. Qui le pareti erano bianche e, al centro del muro laterale, era affisso quello che ritenevo il capolavoro indiscutibile del romanticismo russo.

«La principessa Tarakanova» illustrai, spalancando le braccia in direzione della tela, con fare teatrale. «Racconta il momento in cui un'inondazione colpì la Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo. La ragazza, di cui non si conosce il vero nome, era detenuta per aver finto di essere la figlia dell'imperatrice e del suo amante e per aver preteso di salire al trono.»

Connor studiò il volto della falsa principessa, contratto nella sofferenza e nella disperazione più assoluta, i colori cupi del dipinto e l'acqua che allagava la cella. «È... angosciante.»

Tirai un'occhiata al quadro. Aveva ragione, trasmetteva pura angoscia. Eppure... non capivo perché, ma ammirare la figura di quella ragazza dai capelli scuri, in piedi su un letto sfatto e incastrata in abiti troppo eleganti, destinata a soccombere per aver pronunciato un'innocua bugia, mi suscitava sensazioni contrastanti.

Forse perché un po' mi ci rispecchiavo, nel suo dolore. Nella consapevolezza di essere in gabbia e di essere costretta a morire senza aver più rivisto il sole.

«Sì, lo è, ma è anche splendida nella sua sofferenza» mormorai più a me stessa che a lui, continuando a contemplare la tela. «Vedi quelle pennellate dorate e la luce che proviene dalla finestra? Non ti danno l'impressione che si sia ancora una speranza di salvezza?»

Mi pentii quasi immediatamente di aver espresso quel pensiero. Era illogico e stupido, nato dal bisogno di cercare una nota positiva in quello spettacolo struggente, dalla necessità di sapere che esiste una via di fuga anche dalla realtà peggiore.

E stavo per rimangiarmi tutto, quando Connor decretò: «Dovremmo venire qui più spesso».

Girai la testa verso di lui, non capendo. «Perché?»

«Non ti ho mai vista così immersa in qualcosa. Ti brillano gli occhi.»

Accompagnò quella constatazione innocua con un sorriso dolce, e percepii uno spillo che mi trafiggeva all'altezza del petto. Le sue parole mi si incollarono addosso. E, per Dio, non riuscivo a staccarmi dal suo sguardo, perché le sue iridi mi ispezionavano con una cura che non mi aveva mai riservato. Come se solo in quel momento mi avesse vista per la prima volta.

Scossi la testa, tornando in me. Da quando formulavo pensieri così stucchevoli? Datti un contegno, May, cazzo!

«Hai ragione, è molto bella» riconobbe Connor, ma le sue pupille erano ancora inchiodate su di me. «Ma non è il quadro migliore della collezione.»

Mi girai di nuovo a guardarlo, stavolta sollevando le sopracciglia con aria di sfida. «E quale sarebbe? Vediamo.»

«Ce ne sono due. Seguimi.»

Attraversammo altre tre sale, fermandoci nella diciannovesima, dove Connor si piazzò davanti a una tela di dimensioni medie. Era l'unica rivestita da una cornice nera, al contrario delle altre, tutte in oro.

Il dipinto raffigurava una barca dispersa in mezzo a un mare in tempesta, con un gruppo di marinai a bordo. Nonostante la tragicità della situazione, i colori usati erano chiari e delicati; il mare e il cielo avevano sfumature di azzurro e rosa. E se si osservava attentamente, si poteva scorgere un arco colorato che squarciava il temporale.

«L'Arcobaleno di Ivan Aivazovskij» lo presentò Connor. «Un disastro naturale e la morte che incombe su quei poveri uomini, rappresentati come una realtà incantata. Prova a dire che non è un capolavoro, coraggio.»

«Approvo questa scelta» confessai, perché era un dipinto davvero spettacolare e mi ritenevo abbastanza intelligente da capirlo. «Qual è il secondo?»

Entrammo nella sala successiva e Connor indicò un quadro affisso poco sopra il battiscopa. «Sai chi è quella ragazza?»

Guardai la tela sulla quale era ritratto il busto di una giovane aristocratica russa, seduta su una carrozza. Aveva i capelli scuri legati in uno chignon, sotto un cappello di piume, ed era vestita di pellicce sofisticate. Dalla sua espressione trasparivano una certa arroganza e fierezza.

«Si chiama Ritratto di una donna sconosciuta, Reed. Che razza di domanda è?»

Un angolo delle sue labbra si piego all'insù. «Pensavo fosse qualche tua parente. I lineamenti da stronza devono avermi confuso.»

Ci misi qualche secondo di troppo a rendermi conto che mi stava prendendo per il culo. In effetti, assomigliavo alla ragazza del quadro più di quanto volessi ammettere, specialmente per quella faccia da schiaffi e l'aria di chi si ritiene superiore.

«Ringrazia che siamo in un luogo pubblico e che non voglia sporcare questi capolavori del tuo sangue» gli sibilai minacciosa.

Lui, per tutta risposta, scoppiò a ridere. E lo so che mi avrebbe dovuto irritare ancora di più, ma per qualche motivo sovrannaturale mi piaceva vederlo così, preda dell'ilarità, con le iridi che luccicavano, e soprattutto mi piaceva il suono della sua risata.

«È questo il tuo secondo classificato, quindi? Mi aspettavo un altro paesaggio» notai, per frenare il suo divertimento e - innanzitutto - i miei pensieri ridicoli.

«Mi conosci meglio di quanto credessi» commentò Connor, semplicemente.

Con un cenno della testa, mi invitò a seguirlo. Giungemmo nella Sala 25, dove si trovavano anche le scale per scendere al piano inferiore, e l'attenzione mi cadde sulla tela più grande tra quelle esposte.

Il pittore aveva dipinto il maestoso paesaggio di una taiga russa, con i dettagli degli alberi talmente precisi da avere l'impressione di essere lì, tra le chiome rigogliose. Il vero protagonista del quadro, però, era un gruppo di orsi che giocava ad azzuffarsi su un tronco caduto.

«Mattina in una foresta di pini? Sei serio?» lo schernii un po', per vendicarmi di come mi aveva deriso prima. In realtà era un quadro che apprezzavo e che trovavo molto suggestivo. «Non ti facevo un animalista.»

Lui mi tirò un'occhiata di disappunto. «Shishkin era un genio. In quanti riescono a rappresentare la stessa foresta nei diversi momenti della giornata e dell'anno? E gli orsi non sono opera sua. Sono stati aggiunti in seguito da un altro pittore, Savitskij, ma non si sa per quale ragione Tretyakov ha rimosso il suo nome dalla didascalia.»

«Va bene, questo non lo sapevo neanche io» mi arresi. «Non immaginavo fossi un appassionato d'arte.»

Scrollò le spalle, modesto. «D'arte in generale, direi. Pittura, letteratura, musica...»

«Ma la tua vera passione è la cucina, giusto?» gli chiesi, sinceramente interessata ai suoi hobby. Volevo capire perché un ragazzo acculturato e sveglio come Connor si fosse fatto coinvolgere nella merda della mafia.

«Esatto. Avrei voluto farne un mestiere» mormorò, e l'argomento sembrò metterlo a disagio.

Allora perché diamine non stai cercando di aprire un ristorante, invece di dare la caccia a un ladro per ucciderlo, Reed?

Non glielo domandai ad alta voce. Non eravamo così in confidenza e probabilmente non avremmo mai raggiunto livelli di fiducia simili. Una persona poteva capitare nel mondo della criminalità organizzata per diverse cause, nonostante le sue buone intenzioni e le sue passioni.

Bastava guardare me, per esempio, una diciannovenne con l'unico desiderio di diventare un architetto e finita con le pistole in mano. A volte è necessario chiudere i sogni nel cassetto e abbandonarli lì, a prendere polvere.

Io e Connor proseguimmo nell'ammirare l'esposizione, e dovevo ammettere che fu piacevole discutere dei quadri più belli insieme a qualcuno che se ne intendeva. Parlammo senza litigare - più o meno -, ci confrontammo e scambiammo le nostre opinioni sui vari dipinti e i loro creatori.

«Questo è un altro dei miei preferiti» dichiarai, arrestando i miei passi dinanzi a una tela nell'angolo della Sala 27. «Apoteosi della guerra

«Una montagna di teschi nel deserto» osservò. «Macabro come te.»

«È una denuncia verso la guerra. I conquistatori turchi erano soliti lasciare una piramide di teste fuori le mura delle città assediate, come simbolo di potere.»

«Perché ti piacciono tanto i quadri di scene tragiche?» si interessò Connor, spostando gli occhi nocciola nei miei.

Negli ultimi venti minuti avevo notato che era particolarmente curioso nei riguardi dei miei gusti artistici e dell'interpretazione che attribuivo alle opere. E io ricambiavo quell'interesse.

«E a te perché piacciono tanto i paesaggi fiabeschi?» gli rigirai la domanda.

«Ho capito» sorrise, e sapevo che aveva capito davvero.

La risposta era semplice: ci descrivevano. Lui si rispecchiava nella tranquillità e la perfezione di una distesa di acqua o alberi; io mi rispecchiavo nel dolore e nelle immagini funeste della morte. Eravamo opposti ma simili, poiché entrambi trovavamo rifugio nella fantasia di geni artistici.

«Scommetto che anche il prossimo è uno dei tuoi preferiti» dichiarò con sicurezza.

Avevo intuito a quale si riferisse, ma feci finta di nulla e lo seguii fino alla soglia della Sala 30. Connor, dinanzi a me, si arrestò di colpo sui propri passi, e per poco non andai a sbattere sulla sua schiena.

«Ma che...»

Prima che potessi chiedergli perché si fosse imbambolato, mi afferrò da un polso e mi spinse nell'angolo della sala antistante. Ero incastrata tra il suo corpo possente e una tela raffigurante un vecchio con la barba bianca che mi osservava con sguardo giudicante.

«Fai silenzio» mi ordinò Reed, in un sussurro perentorio.

Odiavo che mi desse ordini quando lui era il novellino e io il sicario esperto, tuttavia compresi dalla sua espressione grave che aveva visto qualcosa nella stanza dove eravamo diretti. Forse qualcuno.

Connor abbassò la testa e le sue labbra mi sfiorarono l'orecchio, mentre bisbigliava in fretta: «Tre uomini stanno rimuovendo un quadro. Uno è biondo».

Solo allora ricordai che eravamo arrivati alla famosa Sala 30, nella quale sarebbe dovuto avvenire il furto. Mi allontanai leggermente da lui, perché averlo così vicino mi procurava un certo fastidio, e mi sporsi con cautela dallo stipite della porta. Un gruppetto di uomini con la divisa del personale del museo aveva staccato una tela dalla parete e la stava trasportando verso l'uscita riservata allo staff. Tra di loro, scorsi una chioma bionda.

«Seguiamoli» decisi, quando uscirono.

Feci per raggiungere la porta, ma Connor mi sbarrò la strada con un braccio. «Aspettiamo che si allontanino.»

«Per dargli il tempo di scappare?» domandai ironica. «Non dirmi come fare il mio lavoro, Reed. Adesso spostati.»

«Dove vuoi che vadano, con una tela di dieci chili? Ci vedranno.»

«Be', l'obiettivo è questo, idiota! Trovarli e ucciderli.»

Lo scansai e mi diressi all'uscita secondaria. Una volta fuori dal museo, però, mi resi conto che l'idiota non aveva tutti i torti, dato che gli "inservienti" erano ancora nei paraggi. Uno di loro si voltò nella mia direzione e feci giusto in tempo a rientrare prima che potesse notarmi.

Indietreggiando, stavolta ero finita pienamente addosso a Connor, e lui si chinò di nuovo sul mio viso, soffiando in tono canzonatorio: «Dovresti imparare a darmi ascolto, May».

Non mi piacque affatto il modo in cui pronunciò il mio nome, e mi piacque ancora di meno la scossa che mi causò.

Attesi qualche altro minuto, poi appurai che la via era libera e uscimmo. Ci trovavamo nel retro del museo, in un vicoletto confinato dai cancelli in ferro. Girammo l'angolo e individuai un furgone bianco, in fondo alla strada. Due uomini stavano caricando il quadro nel cassone, cercando di incastrarlo al meglio. Non c'era traccia della nostra preda principale, il ladro estone.

«Come ci muoviamo?» mi chiese Connor, a bassa voce.

«Ho un piano. Io distraggo quei due. Tu passa dalla parte opposta e controlla se Lepik è seduto dentro al furgone. Se lo vedi, colpiscilo.»

«D'accordo. Fa' attenzione» si premurò di aggiungere, dopodiché sgusciò in un'altra direzione.

Io invece mi incamminai verso i due uomini, che avevano appena finito di caricare il quadro. Erano due tipi strani, con i baffi scuri e gli occhi infossati. Teorizzai che fossero fratelli: l'unica differenza era la corporatura.

«Salve» esordii, costruendomi un sorriso innocente, per calamitare la loro attenzione. «Parlate inglese?»

«Che c'è, bambina?» rispose quello più alto, strascicando le sillabe.

«Cercavo l'entrata della Galleria, ma credo di essermi persa. Potete aiutarmi?» mi impegnai a calarmi nella parte della turista in difficoltà, infarcendo la mia voce di preoccupazione.

L'uomo mi squadrò dalla testa ai piedi e scambiò un'occhiata eloquente con suo fratello. «Non preoccuparti. Ti aiutiamo noi.»

Proprio in quel momento, mentre si avvicinavano a me con un ghigno inquietante, scoppiò il rumore assordante di un clacson. Ci girammo tutti e tre verso il furgone. Connor si trovava davanti allo sportello del guidatore e aveva un braccio oltre il finestrino abbassato. Dedussi dalla sua espressione affaticata che stava lottando per tenere ferma la persona seduta, probabilmente Lepik.

Approfittai dell'attimo di distrazione dei due energumeni e piantai un calcio nello stomaco di quello più alto e una gomitata nelle costole di quello più basso, piegandoli a metà per il dolore. Sfilai la pistola dalla giacca e sparai due colpi netti, tramortendoli all'istante. Il silenziatore non aveva attutito completamente il suono, ma me ne fregai. Eravamo sotto la protezione della direttrice Tarasova, dopotutto.

Raggiunsi Connor, che si era finalmente scostato dal furgone. Notai che indossava dei guanti di pelle nera, per non lasciare impronte. Riconobbi che non era così stupido.

«Ha perso i sensi» mi informò, indicando l'uomo biondo che giaceva con la testa sul volante. Un rivolo di sangue gli tracciava il profilo del viso. «Dobbiamo...»

Senza tanti giri di parole, incollai la pistola alla tempia del ladro e sparai, interrompendo Connor con il boato.

«Problema risolto» annunciai, soddisfatta, rimettendo l'arma a posto.

«Sei stata... veloce» osservò lui, leggermente sconcertato.

Gli battei una mano sulla spalla. «È l'abitudine, Reed. Col tempo non ti impressionerai più e diventerà quasi normale. Aspetta che arrivino i primi pagamenti da Egor.»

Non parve affatto convinto, anzi. Problema suo. Se era entrato nella squadra dei sicari del Ghetto, conosceva le conseguenze e le modalità d'azione. O almeno, avrebbe dovuto conoscerle.

Contattai Zefina, comunicandole che avevamo svolto il nostro lavoro e che ci doveva una ricompensa. Nel contempo che la aspettavamo, ci assicurammo che il quadro fosse sano e salvo, nel retro del furgone.

«Ivan il Terribile e suo figlio Ivan?» chiesi per conferma, guardando la parte di tela che si intravedeva. «Era su questo, che avevi scommesso fosse uno dei miei preferiti?»

Connor annuì con un sorrisetto beffardo. «Ci ho azzeccato?»

«Forse» mormorai, perché mi rifiutavo di dargliela vinta.

Era davvero uno dei miei dipinti preferiti tra quelli esposti nella Galleria. La scena raffigurata, lo zar Ivan che stringeva tra le braccia il figlio moribondo, era di grande impatto. Mi ribollì il sangue al pensiero che un simile capolavoro stesse per essere rubato.

«Potresti anche riconoscere i miei meriti, ogni tanto, sai?»

«Se ci tieni tanto... ammetto che oggi sei stato bravo. Non ti avevo mai visto all'opera. Contento?» Mi ero sbilanciata anche troppo.

Scosse l'indice guantato davanti al mio naso, con disappunto. «Non lo sarò finché non ammetterai che siamo un'ottima squadra. Avanti, dillo.»

Datemi la forza di non staccargli il dito.

«Sì, Reed, siamo un'ottima squadra» sbuffai e aggiunsi subito dopo, per lenire il mio orgoglio: «Ma io resto migliore di te».

Roteò lo sguardo, ma sorrideva. «Egocentrica.»

Angolo autrice

Buonasera readers ✨️

Capitolo chill ma neanche troppo. Sicuramente non manca l'azione. Spero che tutti quei discorsi sull'arte non abbiano annoiato i meno interessati tra voi, perché io ho amato scriverli 🥰

Finalmente Connor e May cominciano a gettare l'ascia da guerra e a confidarsi un po' di più. C'è ancora tanta strada da fare, ma si sta smuovendo qualcosa. Quanto sono carini quando discutono dei quadri? 😭❤️‍🩹

Piccolo appunto: le varie missioni intraprese dai sicari sono slegate tra loro, ma ognuna ha un filo conduttore che serve ad aggiungere qualcosa alla trama. Vedremo le conseguenze dell'omicidio del ladro già nel prossimo capitolo.

Per qualsiasi dubbio, sono a disposizione!

Fatemi sapere se vi è piaciuto il capitolo, la vostra opinione è fondamentale 💓

Alla prossima! Xoxo <3

Note:

Di seguito i dipinti nominati nel capitolo

Principessa Tarakanova, 1864, Konstantin Flavitsky

Arcobaleno, 1873, Ivan Aivazovskij

Ritratto di una donna sconosciuta, 1883, Ivan Kramskoy

Mattina in una foresta di pini, 1889, Ivan Shishkin e Konstanin Savitsky

L'apoteosi della guerra, 1871, Vasily Vereshchagin

Ivan il Terribile e suo figlio Ivan, 1885, Ilia Repin

Luoghi:

• Galleria Statale Tretyakov

Sia benedetto Google Maps che ha inserito l'opzione di visitare anche l'interno dei musei 🙏🏻

Traduzioni:

1) La concha de tu madre= la f*ga di tua madre
2) Chiflada= pazza
3) Seggfej= coglione

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