Capitolo 25

Scelsero di rimanere. Hart aveva ragione, il passato stava ancora subendo i cambiamenti provocati da Wilmut. Sascha doveva finire ciò che aveva involontariamente iniziato.

Dopo la morte dei compagni, tornarono per un breve periodo a Londra.

Tutti erano addolorati, Edith era distrutta, per notti pianse per aver perso Hans.

Sascha pareva non provare emozioni.

Era sempre freddo, distante. Sembrava vuoto, in certi momenti.

Cercava sempre qualcosa da fare per tenere la mente distratta.

Nonostante le scarse abilità provò a disegnare qualcosa.

Stava rivivendo nella sua mente gli ultimi ricordi avuti con gli amici, riviveva i momenti della loro morte.

Ritrovò posto nella sua mente quel ricordo di quella notte di tanti anni fa.

Aveva solo sette anni, era nel suo letto a dormire, rannicchiato sotto le coperte.

Improvvisamente iniziò a sentire dei brividi, avvertiva una strana sensazione.

Aprì gli occhi e si mise seduto.

Non sentiva nessun rumore, ma in qualche modo sapeva che stava per succedere qualcosa.

Un rumore di passi si faceva sempre più vicino.

Fissava intimorito la porta.

Vide una mano appoggiarsi allo stipite.

«Ciao, piccolo Sascha» una donna era lì, davanti alla porta. Alta, sembrava mastodontica comprata al suo piccolo fisico da bambino, indossava un lungo cappotto.

Sascha tremava dalla paura, non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Avrebbe voluto correre via, ma non riusciva a muoversi, non riusciva nemmeno ad aprire bocca.

Era immobile.

La donna si tolse il cappotto.

Sascha continuava a non vederla bene.

Al buio era semplicemente un’ombra alta.

Si intravedeva la sagoma dei capelli lunghi, con due trecce che si distinguevano, e poté intravedere la forma di una gonnellino al punto vita, unica cosa che aveva indosso. Un gonnellino che le copriva solo il lato posteriore.

Forse, aveva il semplice scopo di disturbare, inquietare.

«Non preoccuparti, dolce bambino» disse lei, mentre gli si avvicinava per togliergli il pigiama. «Questa notte non la dimenticherai mai.»

Dopo qualche minuto, in cui Sascha era rimasto paralizzato mentre quella donna aveva le mani su di lui, si sentì un tuono.

Il piccoletto poté notare un’espressione nella donna, sembrava preoccupata.

Ci fu un altro tuono, che fu molto più forte, fu come se il fulmine fosse caduto lì, vicino a loro.

Sascha non seppe mai come, ma la donna sparì.

Si rimise il pigiama e tornò sotto le coperte.

L’immagine di quella sagoma nera rimase fissa nella sua testa, ogni volta che chiudeva gli occhi.

Ora, quella sagoma era lì e mostrava dei lucenti bagliori rossi all’altezza degli occhi.

Sascha si osservava allo specchio.

Il cappuccio, le treccine su di esso, il kilt da battaglia che copriva solo il lato posteriore, tutto completamente nero.

L’uniforme fu creata dalla collaborazione tra Dietrich, Hart e alcuni sarti e scienziati.

Era aderente ma progettata per flettersi sotto pressione, senza strapparsi. Era composta da vari strati di tessuti, nylon e un precursore del kevlar, per proteggere il corpo, senza però appesantirlo. Protezioni extra furono aggiunte ai gomiti e alle ginocchia. Integrato nel tessuto c’era una rete di fili metallici, e fu utilizzato uno strato interno isolante che impediva al calore di filtrare verso la pelle. All’esterno aveva un rivestimento di materiali ceramici resistenti al calore.

Dietrich la definì un capolavoro scientifico, stesse parole le usò per descrivere Sascha quando seppe dei poteri.

«Andiamo a porre fine alla guerra» disse l’Inglese, porgendogli il pugnale, il revolver e lo scudo.

~~

30 aprile 1945.

Sascha, con la sua nuova uniforme, e Hart erano alla porte di Berlino.

Con loro c’erano le forze armate russe.

Appena ripartiti da Londra, i due ragazzi dal futuro si unirono all’esercito sovietico.

Affrontarono tante battaglie insieme e ora…

Avevano davanti quella definitiva.

Quella era “La battaglia”.

I generali russi, così come i soldati, non nascondevano i loro timori.

La capitale era blindata. Tra le vaste aree distrutte dai bombardamenti ce n’erano altrettante ancora perfettamente intatte.

Due dirigibili bellici giravano attorno al perimetro che si era formato, appunto, con la parziale distruzione della città.

All’interno, attendevano trepidanti numerosi membri dell’esercito nazista, carri armati, Wunderwaffen e una decina di Super soldati.

«È un suicidio» disse uno dei generali russi.

«Cosa?» domandò Hart, allibito. «Che fai, ti arrendi?»

Gli andò vicino a passo svelto.

Muso a muso.

«Ti arrendi, è questo che fai?»

Due soldati intervennero per tenerli distanti ed evitare litigi.

«Siamo arrivati qui, stiamo per ridare la libertà al mondo e tu che fai, ti metti paura?»

«Hai visto che c’è lì dentro?» gli urlò in faccia il generale. «Hai visto che c’è lì dentro? Se entriamo ci uccidono tutti e addio alla libertà di cui parli. Il piccoletto non so se basta. Sono troppi!»

«Non possiamo arrenderci» disse Hart nel tentativo di convincerlo.

«E non lo faremo!» il generale fece un respiro profondo e calmò la voce. «Non lo faremo. Uccideremo ogni singolo nazista, ma così… non andremo da nessuna parte. Saremo noi a morire.»

Hart si voltò verso i soldati, vide i loro volti, stanchi, affamati, spaventati.

Poi guardò verso Sascha, il volto era coperto dalla maschera e il corpo non lasciava intravedere nessuna possibile emozione.

«Ci vorrà troppo tempo» provò a dire un soldato. «Saranno loro a venire da noi e ci massacreranno.»

Sascha andò verso il perimetro che delimitava l'ultima linea difensiva tedesca.

Salì sulla carcassa di una macchina.

Poté scorgere i nemici che lo avevano avvistato.

I soldati, i generali, tutti i membri dell’esercito russo presente si voltarono verso di lui.

Sei giovani soldati si fecero avanti e gli andarono vicino.

«Non siamo noi che dobbiamo temere loro. Sono loro che devono avere paura di noi.

«Non hanno il coraggio di venire ad affrontarci, andranno a chiamare i rinforzi.»

Un altro gruppo di soldati si fece avanti e si mise poco più dietro la macchina.

«Avranno tutti i macchinari che vorranno, avranno i Super soldati, ma non hanno persone come noi.»

Hart osservava tutti i membri dell’esercito russo avanzare, lentamente, impugnando le armi.

«Non hanno le nostre anime. Non hanno i nostri cuori. Non avranno mai le nostre vite.»

Alcuni soldati urlarono.

I due nazisti che li osservavano da lontano, con le braccia tremolanti, presero i fucili dalle loro spalle.

Non troppo distanti da loro, vedevano quell’orda di sovietici.

«Non ci faremo battere» continuava Sascha. «Noi non li combatteremo. Noi li annienteremo.

«L’era dell’oppressione è finita.»

I due nazisti li videro urlare, ma non riuscirono a muoversi per andare a chiamare aiuto.

«Noi non ci faremo intimorire.»

I russi stringevano forti le armi nelle loro mani.

Hart si unì a loro, con un insolito ghigno apparso sulla sua faccia.

«Noi non ci tireremo indietro.»

Avevano gli occhi fissi in avanti, spalancati al massimo, cariche di adrenalina.

Sascha prese il pugnale e lo puntò verso i nemici.

Corse verso di loro scatenando un’esplosione che rivelò ai nemici l’inizio dell’attacco.

Mentre il fumo si dissolveva le forze naziste si avvicinavano a Sascha e i sovietici correvano al suo fianco, entrando nel campo di battaglia.

«Soldati, insorgere!»

Alzò il pugnale verso l’alto, rilasciando un’elevata energia di fulmini che pervase i corpi dei primi sei ragazzi che lo avevano seguito.

I sei furono momentaneamente posseduti dai poteri di Sascha e poterono usarli per devastare le forze naziste, superiori per numero e mezzi.

Anche gli altri sovietici subirono, in un certo senso, l’influenza di Sascha. L’adrenalina scorreva nel loro corpo, rendendoli instancabili, infermabili, imbattibili.

Capitanati da Sascha e da Hart, i sovietici misero alle strette i nazisti.

Le Wunderwaffen furono distrutte in modo veloce dai sei ragazzi, mentre i Super soldati furono uccisi facilmente dagli quelli sovietici normali.

Non poterono fare niente.

Per loro non c’era nessuna chance di vittoria.

L’esito della guerra non poteva più essere cambiato.

Nel casino totale, Sascha si tolse la maschera, in cerca di Hart.

Si guardarono per qualche secondo, per un’ultima volta.

Hart annuì, capendo le sue intenzioni.

Sascha rimise la maschera e corse via.

~~

Prima di tornare a casa, fece un’ultima tappa.

In parte rimase deluso quando arrivò a quella grande porta blindata grigia, si aspettava di trovare qualcuno pronto a fermarlo, sia dal presente che dal futuro.

Passò attraverso la porta, e lo vide.

Uno degli esseri umani peggiori della storia, sicuro aveva la posizione sul podio: il Führer, Adolf Hitler.

Il baffone si accorse dopo qualche secondo della presenza di Sascha, fu un fulmine a fargliela notare.

La moglie si era già suicidata, era sul divano, con un buco in testa. Lui aveva una pistola in mano, poteva essere possibile che l’avesse uccisa lui stesso.

Dal suo atteggiamento dava l’impressione che stava per andarsene.

Chissà come sarebbe andata realmente, si chiese il ragazzo tanto tempo dopo, ricordando l’accaduto, sarebbe scappato o si sarebbe, come quasi tutti danno per certo, suicidato?

«E tu chi sei?» domandò sorpreso il Führer.

«Io, sono, Sascha» la voce del ragazzo sembrava molto più profonda.

Hitler balbettò qualcosa di indecifrabile, era troppo spaventato.

Sascha gli fece il verso.

«Purtroppo non saprai mai come sarebbe andata a finire» disse il ragazzo, prendendo il vecchio revolver dalla tasca. «Non lo saprà nessuno.»

Hitler lo guardò confuso, ma ancora non riusciva a parlare.

«Era questo il tuo obiettivo? Fare un gran casino... e poi... arrenderti, senza combattere? Scappi via o ti suicidi? Allora che senso ha tutto quello che hai fatto, tutte le persone che sono morte a causa tua?»

Sascha si avvicinò a Hitler che indietreggiò e, terrorizzato, finì anche per cadere a terra.

Sascha lo afferrò per il colletto della camicia. Improvvisamente, Hitler notò che tutto l'ambiente intorno a loro due diventava sempre più cupo, caldo, buio.

«I miei amici sono morti per causa tua. Soffrirai, per l'eternità. Sarò il tuo peggiore incubo. Niente e nessuno, da qualsiasi parte del tempo, potrà salvarti.»

L'atmosfera ritornò quella di prima.

Sascha scagliò violentemente Hitler vicino alla moglie.

«Ricordati di me» gli disse puntandogli la pistola in faccia e sparando il colpo.

Rimase qualche secondo a guardare.

La donna dai capelli rossi era dietro di lui. Sembrava stupita, sorpresa. Teneva lo sguardo fisso sul ragazzo, interrogandosi su ciò che era appena accaduto.

Stavolta non era stata lei ad influenzarlo.

Aveva fatto tutto da solo.

Scacciò il pensiero e gli si avvicinò.

«È ora di tornare.»

Sascha si concesse qualche attimo per sbollire.

Infine, corse via.

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