L'ultima Città di Pietra
Mentre Isaiah inviava una muta preghiera agli dèi del sonno, un tizio che pareva appena uscito da un concerto rock passeggiava sotto una Luna cinta da un'aureola viola e pulsante. Il logo dei Guns N' Roses era come un bersaglio sulla schiena. Il rumore ciancicante delle suole che macinavano il pietrisco e il mormorio roco e intonato
(«She's got a smiiile that it seems to meee...»)
erano, in quel silenzio, una fanfara che annunciasse il suo arrivo.
«Whoaaaa, oh, oh, oooh, sweet child of miiine...»
La voce sembrava uscire da una gola piena di lana. Era roca ma intonata. L'uomo che la possedeva non si preoccupava di fare meno rumore possibile. Chiunque gli si fosse messo fra i piedi sarebbe finito sciolto o cotto come una chianina della feria di fin de año. Se cantava sottovoce era perché così gli andava. E se cantava quel pezzo era perché gli era rimasto incollato alle terminazioni nervose. E il riff di chitarra che lo apriva gli andava parecchio a genio. Anche il tizio che lo suonava. Il giubbotto col logo sulla schiena era suo. Gliel'aveva fregato dopo il concerto. E a proposito: gran concerto. Una band da sturbo. Il chitarrista col cilindro in testa che correva a destra e a manca, e che ora aveva un giubbotto di meno, sembrava uscito da un cartone animato. A vedere come si conciava non gli avresti dato un bronzo bucato, ma quando metteva mano alla sei corde... ragazzi, se ci sapeva fare. Aveva un sound che era una roba mai vista, blues e rock fusi insieme in un matrimonio perfetto. Se lo ascoltavi con attenzione e non eri troppo a digiuno di buona musica, potevi cogliere in certi passaggi le anime di Angus Young, Jimmy Page e qualche altra rockstar di quelle toste, ma in definitiva aveva uno stile diverso e personale, anche se le influenze rimanevano quelle.
Mentre lasciava la mente libera di muoversi nei ricordi, udì un rumore che avrebbe potuto essere quello di ossa enormi che cozzassero le une contro le altre. Buttò un occhio ai paraggi e si accorse di un rudere di pietra. Un albero faceva capolino dal tetto. Pareva un enorme broccolo. La folta capigliatura che di giorno era verde, e ora era bruna, aveva scalzato parecchie tegole. I cocci erano sparsi intorno al rudere.
Ecco il rumore che aveva sentito: tegole calpestate. Fece finta di niente e continuò a cantare
(«Whoaaaa, oh, oh, oooh, sweet love of miiine...»)
mentre una forma scura si muoveva nelle ombre intorno al rudere. Non la vide ma ne avvertì la presenza. La tastò, anche se non si spinse troppo oltre. Restò sulla soglia, un po' come aveva fatto col tizio resuscitato. Alzò gli occhi alla Luna. Nel momento in cui si accorse che l'anello pulsante andava a tempo col suo cantare, le ombre lo accerchiarono. Si fermò di colpo con l'ultima sillaba che gli restava impigliata in gola e le guardò. Erano una marea, così tante che a contarle ci avresti perso mezza nottata. Sulle prime pensò di avere di fronte un esercito di spettri, ma si accorse subito della svista. Questi erano tozzi e pelosi, e non riuscivi a vederci attraverso. Li passò in rassegna con lo sguardo: una truppa di volti che erano l'uno la fotocopia dell'altro.
«Ehilà», li salutò.
Quelli risposero snudando denti aghiformi in una salva di ringhi silenziosi e identici.
«Non siamo di buon umore, mi pare di capire. Siete il comitato di benvenuto?»
I volti deformati dalla rabbia e da una malattia della pelle e delle ossa, che certi mocciosi chiamavano quella-che-ti-fa-brutto, erano quelli di feroci predatori. Percepì la loro fame. I mutanti, gli insetti, i vermi e l'altra merda che ingoiavano bastava forse a chetare l'appetito, ma non mitigava la voglia di un boccone decente: carne fresca, grondante sangue e che non avesse il sapore di castagne marce. Peccato che lui non avesse intenzione di interpretare il ruolo della pietanza principale.
Il cerchio che lo circondava si strinse. Avanzarono a piccoli passi, asce e coltelli ben stretti nei pugni pelosi. Qualcuno indossava un gilet fatto con la pelle di qualche animale. Altri avevano una benda sull'occhio a mo' di pirata. I capelli di tutti erano lunghi e scarmigliati. Le froge dei nasi camusi si allargavano e restringevano.
«Che paura», disse il vagabondo.
Il tono era quello dell'adulto che finge stupore di fronte al moccioso mascherato per la notte di Halloween. Si accorse che la distanza si accorciava, girò il palmo della destra verso di loro e piegò le dita come zampe di ragno.
«Meglio se vi fermate lì», disse e dai polpastrelli saettò una scarica elettrica screziata d'arancio.
Le punte elettriche colpirono il terreno, a pochi centimetri dai piedi nudi della tribù di bonsai mutanti, scaricando la furia a basso voltaggio. I nanerottoli lanciarono grugniti di sorpresa e versi da suino prima di rinculare precipitosamente. Le fruste elettriche mormorarono ancora un paio di avvertimenti e scomparvero con un ftzzz nervoso. L'odore di ozono ristagnò per qualche secondo nell'aria. Uno dei nanerottoli mutanti, che faceva parte dell'avanguardia, fissò i segni di bruciature lasciati dalla danza elettrica e fece un passo avanti. Gettò un occhio al bagliore arancione che imbrigliava ancora la mano del vagabondo e decise di mettere a terra l'arma che impugnava: una specie di piccola roncola fatta in casa. Mostrò i palmi con fare titubante, spinse in fuori il labbro inferiore e il suo volto si accartocciò in un'espressione contrita (la stessa di uno costretto a fare qualcosa che non vorrebbe), che lo rese ancora più brutto.
«Vieni avanti, cacasotto», gli fece il vagabondo.
Non era sicuro che l'altro capisse la sua lingua. Manco sapeva che cosa diavolo fosse. Aveva un sospetto, però. E quando il nanerottolo mutante ridusse ancora la distanza, gli parlò in una lingua che somigliava a quella dei pellerossa. Il nanerottolo si bloccò mentre era nell'atto di alzare un piede piccolo e con più dita di quante fosse ragionevole aspettarsi.
«Allora ci ho preso», disse fra sé e sé il vagabondo.
Il nanerottolo lo guardò negli occhi. Sembrava combattuto. Il vagabondo capì che aveva paura, ma anche voglia di comunicare con lui. Gli fece allora una domanda in quel dialetto che mischiava la lingua dei pellerossa e quella delle tribù dell'Ell. La domanda era: «Siete Teihiihan?» E, miracolo dei miracoli, il nanerottolo rispose con una voce incrinata che lo erano.
Il vagabondo gli chiese se avevano sentito odore di esseri umani, lì in giro. Il nanerottolo gli rispose di no, ma che comunque l'isola era grande e loro non si spostavano sovente. Il cibo scarseggiava e, quando trovavano un posto frequentato da animali che camminavano o strisciavano, tendevano a restare lì, perché dove ce n'erano due di solito ne trovavi quattro, e dove ce n'erano quattro...
«Non ne avete piene le palle piene di masticare vermi e schifezze varie?» lo interruppe il vagabondo.
Il nanerottolo rispose che a loro i vermi piacevano, e anche parecchio, ma che potendo scegliere avrebbero preferito un bel cosciotto al sangue.
«C'è un bell'accampamento, qui intorno», disse il vagabondo. «Esseri umani. Carne a morire.»
I Teihiihan fissarono i loro occhietti catarrosi sul vagabondo. Rabbia e timore sparirono per lasciare posto alla sorpresa. Il Teihiihan chiese se tra gli umani ci fossero anche marmocchi.
«Ce ne stanno che camminano dritti e a quattro zampe.»
Le bocche dalle mandibole disallineate vibrarono eccitate. Qualcuno prese a sbavare. La carne dei marmocchi era tenera e aveva un buon sapore. Conteneva nutrienti che avevano l'effetto di una pippata di peyote. Quando l'assumevano, quelle versioni mutanti dei Sette Nani si sballavano come adolescenti a un rave party.
Il vagabondo rifletté che un gruppo di Teihiihan intenti a sgranocchiare marmocchi era uno spettacolo che non si vedeva tutti i giorni. Persino meglio del concerto dei Guns N' Roses in quell'immensa arena piena di capelloni che zompavano, urlavano e sudavano. E quello era stato uno show coi controcazzi.
«Andiamo», disse al portavoce dei nanerottoli.
Si incamminò e i Teihiihan si fecero da parte per farlo passare. Il cerchio si spezzò e il vagabondo passò oltre il varco. I Teihiihan lo seguirono grugnendo e scaccolandosi.
Più avanti si trovarono di fronte una muraglia di rovine che sbarrava loro la strada. C'era un pezzo di muro bello grande. Qualcuno ci aveva scritto sopra con della vernice spray. Il messaggio era: IL MESSIAH STA ARRIVANDO. A lato, qualcuno aveva aggiunto: BUTTA LA PASTA. Il vagabondo si lasciò andare a un sorriso sbilenco. Avevano senso dell'umorismo. Com'era quella citazione? Una risata ci salverà?
Non in questa vita e non in questo quando, pensò il vagabondo.
Sollevò un braccio, distese l'indice e lanciò una folgore arancione. Usandola come fosse una penna, cancellò IL MESSIAH e scrisse sopra L'UOMO NERO. Ci pensò un secondo e fece lo stesso con la parola pasta. Mentre tirava una grossa 'X', un bagliore arancione riverberava sui visi dei nanerottoli contratti in espressioni idiote di estatico stupore.
Quando finì, la scritta sul muro diceva: L'UOMO NERO STA ARRIVANDO, BUTTA LA SPERANZA.
Si voltò verso i mostriciattoli e chiese loro: «È o non è un cazzo di capolavoro?»
Il portavoce della truppa, che aveva il labbro leporino e mezzo viso coperto da bitorzoli enormi, chiese cosa ci fosse scritto. Il sorriso si spense sul volto del vagabondo.
«Se te lo devo spiegare si perde tutta l'arte», disse infastidito.
Il Teihiihan non aveva idea di cosa fosse l'arte di cui parlava l'altro, ma tenne la bocca chiusa e sperò che un lampo non lo incenerisse. Il vagabondo doveva essere in serata di grazia, perché lo risparmiò.
«Andiamo, che tanto ormai mi avete spento la poesia, maledetti figli di puttana.»
Aggirarono i mausolei di pietra e si ritrovarono sul limitare di una foresta. Da dove fosse spuntata, il vagabondo non ne aveva idea. Per quel che ne sapeva, quella era l'Ultima Grande Città di Pietra. La foresta non era prevista. Curiosa, come cosa. Evidentemente la natura si era ripresa quel che era suo. E doveva aver cominciato pure parecchio tempo fa, a giudicare dalla stazza degli alberi che aveva di fronte. Quanto esattamente non avrebbe saputo dirlo. Mentre stava dall'altra parte non è che facesse caso al tempo, che comunque doveva scorrere in modo diverso, vista la stazza di quegli alberi. L'unico modo che aveva per scandirlo, il tempo, era contare il susseguirsi dei presidenti. E, mentre stava dall'altra parte, ce n'erano stati parecchi che si erano dati il cambio.
Chiese ai nanerottoli cosa ci fosse oltre la foresta e quelli risposero che non ci si erano mai avventurati. Accadevano strane robe, lì dentro. Bagliori e pallidi fuochi che apparivano e si dileguavano, tanto per dirne una. Se ti guardavi alle spalle con la coda dell'occhio, potevi vedere volti esangui e alle volte caprini che ti seguivano, per dirne un'altra. E poi c'erano gli spettri.
«Hai detto spettri?» fece il vagabondo.
Il volto gli si illuminò. Un sogghigno lupesco gli tirò in su gli angoli della bocca.
«Che cazzo aspettiamo?»
Si incamminò e subito si fermò quando non sentì lo scalpiccio della truppa deforme.
«'mbè? Serve un calcio in culo per mettervi in moto?»
Il nanerottolo col tumore che gli cresceva in grossi bubboni sul volto gli spiegò che non volevano mettere piede nella foresta, perché lì dentro c'erano gli spettri. E gli spettri erano cattivi.
Il vagabondo lo guardò, dapprima sconcertato, poi con un angolo della bocca tirato all'in su. Cominciò a ridere a scatti, come un catorcio che fatichi a mettersi in moto, il petto che a tratti sussultava. Poi anche l'altro lato della bocca si sollevò e rise apertamente. Gettò la testa all'indietro con uno scudiscio e si scartocciò dal ridere.
«Sono cattivi», disse, calcando quell'ultima parola, e rise più forte.
I nanerottoli lo guardarono come se fosse impazzito. Lui si asciugò le lacrime agli angoli degli occhi e lasciò che gli ultimi scossoni del petto si esaurissero.
«Muovete il culo, figli di puttana», disse e, quando capì che quegli invertiti non avrebbero mosso un passo, alzò gli occhi al cielo e sbuffò. «Che cagacazzi.»
Si scorciò le maniche del giubbotto fottuto a Slash e si sfregò i palmi. Scintille arancioni zampillarono e piovvero a terra con tiepidi sospiri elettrici. Si voltò verso la foresta. Gli alberi sembravano tante sentinelle dalle folte capigliature. Impose le mani e liberò una tempesta di fulmini arancioni. Come filo spinato, le scariche avvolsero gli alberi, li trapassarono da parte a parte, incendiarono la corteccia e le verdi capigliature. Incendi di discrete dimensioni divamparono. La foresta si illuminò a giorno e, quando la luce del fuoco e quella dei lampi diradò le ombre, iniziarono a sciamare. Erano un esercito e non perdevano tempo ad aggirare gli alberi o le fiamme: ci passavano attraverso. Avevano i volti contriti, la follia negli occhi e sulle labbra.
Uno dei nanerottoli si esibì in una salva di imprecazioni che avrebbe fatto arrossire il Messiah. Alcuni degli altri risucchiarono aria. Il vagabondo era l'unico che sorrideva come lo Stregatto di Carroll mentre gli spettri gli correvano incontro, simili a matti fuggiti da un manicomio.
Quando furono abbastanza vicini da poterne distinguere gli abiti, (vecchi stracci logori con all'occorrenza fibbie graffiate e opache), smise di lanciare saette. Gli occhi si tinsero di nero, come se una boccetta di inchiostro si fosse rovesciata nelle sclere, e luccicarono selvaggiamente. Il vagabondo pronunciò poche parole: «Royna glaa'k alakay semet!»
Ci fu uno schiocco secco, forte abbastanza da indurre i nanerottoli a guardarsi intorno per capire da dove provenisse, quindi il vagabondo iniziò a risucchiare aria. All'inizio il sibilo fu contenuto, poi si trasformò nel risucchio di un mantice. Il vagabondo spalancò la bocca e la mandibola si allungò lenta, come melassa, finché il mento non toccò terra. Allora inspirò profondamente e gli spettri che formavano l'avanguardia di quell'esercito evanescente schizzarono verso di lui come se avessero un razzo acceso nel culo.
Alcuni nanerottoli rincularono precipitosamente e qualcuno si diede alla fuga. Il loro portavoce, quello che aveva parlato col vagabondo, urlò agli altri di non muoversi. Quindi aggiunse: «Guardate!» e puntò un dito come se gli altri non sapessero dove guardare. Quelli si accorsero che il mento del vagabondo toccava terra, che la bocca si era fatta larga e squadrata e che gli spettri che correvano come diavoli avevano un'espressione terrorizzata. Solo allora capirono cosa accadeva. E lo capirono perché videro le capigliature di un paio d'alberi, quelli più vicini, piegarsi verso il vagabondo. Non erano gli spettri a correre veloci: era il vagabondo che li attirava a sé. Li stava risucchiando. Se li ciucciava come ci si ciuccia una truppa di formiche usando una cannuccia.
Il portavoce dei Teihiihan si voltò verso la truppa e disse una parola che nella lingua degli uomini significava Signore dei Morti. Gli altri lo udirono e sobbalzarono, ma non distolsero lo sguardo dallo spettacolo che si svolgeva a pochi metri di distanza.
I primi spettri si voltarono per darsi alla fuga, ma continuarono a scivolare verso il vagabondo come se trascinati da una forza invisibile. Lanciarono urla acute e disumane, poi sparirono nel buco dentato e ampio come uno dei focolari che avresti trovato nella Reggia di Aramundi. L'eco delle grida si affievolì gradualmente mentre alle seconde linee toccava la stessa sorte. Il vagabondo li risucchiò nel pozzo nero che aveva sotto il naso e le loro grida si spensero lentamente. Riuscì a inghiottire una dozzina di spettri. Poi, forse perché sazio, smise di colpo di risucchiare aria. Gli spettri che stavano scivolando all'indietro schizzarono verso il folto del bosco e si dispersero.
La bocca del vagabondo tornò alle sue dimensioni originarie con una serie di schiocchi articolari. Lui ruttò, disse: «Beccati questa, Pavarotti», e si voltò verso la truppa sottodimensionata.
«Non penso che ci daranno fastidio», disse nell'antico dialetto. «E adesso muovete il culo o vi sparo addosso la truppa di morti che mi sono sbafato.»
La luce tremolante delle fiamme alle sue spalle lo tingeva di nero, e allungava la sua ombra trasformandola in un gigante scuro. Il nanerottolo bitorzoluto gli fece notare in tono dimesso – e che il Signore dei Morti lo perdonasse per tanta impudenza – che non potevano passare attraverso le fiamme. Il vagabondo si voltò e vide che la prima fila di alberi divampava. L'incendio si stava propagando e, se una pioggia torrenziale non fosse intervenuta a breve, l'intera foresta si sarebbe trasformata in un girone infernale.
«Mi sa che hai ragione», mormorò.
Replicò di nuovo il suo numero, ma stavolta risucchiò le fiamme. L'onda di calore che gli si abbatté addosso costrinse i nanerottoli a retrocedere. Il numero non durò molto, e alla fine i vestiti del vagabondo non erano ridotti neanche male. Un po' bruciacchiati e anneriti, ma poca roba se pensavi che s'era appena sbafato un rogo che avrebbe facilmente distrutto una città delle dimensioni di Fresno.
«E pure questa...» ruttò una nuvoletta scura, «... è fatta. Andiamo, che sto finendo la pazienza.»
Si sistemò le maniche e si accorse solo allora che il giubbotto di jeans era sporco come di fuliggine e aveva delle lievi bruciature. La cosa lo mise di cattivo umore. Strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche e iniziò a tremare. Si chinò per prendersi a pugni le cosce una, due, tre volte, poi si girò di scatto e lanciò una scarica cicciona. Il fulmine colpì tre nanerottoli, che avvamparono quasi subito mentre gli altri scappavano in tutte le direzioni, terrorizzati e con qualche bruciatura di rimbalzo su braccia o gambe.
«È colpa vostra, figlidiputtanadalculobasso!» guaì il vagabondo, continuando a sparare fulmini nonostante i tre nanerottoli fossero ormai mucchietti di cenere.
Stava pensando di farli fuori tutti e sparargli addosso anche i fantasmi inghiottiti, quando qualcosa lo fermò. Perse interesse e i fulmini si esaurirono di colpo.
«Che cazzo è?» chiese, più a se stesso che ai mostriciattoli, visto che per un momento aveva accantonato l'antico dialetto.
Sentiva come un odore di gelsomino. Gli solleticava l'olfatto e copriva il sentore di bruciato. E che cos'era era quella sensazione che lo accompagnava, quella specie di...
«Pace», mormorò.
Era odore di santità. Ma i Santi erano morti da tempo, come il Barba e gli Hynafol. Tuttavia... qualche Santo amico del Barba poteva essere sfuggito al rastrellamento voluto dai Quattro Despoti. Ma poi avrebbe dovuto scampare anche all'epidemia che aveva decimato le Quattro Terre, e tanto culo gli pareva decisamente troppo, persino per uno baciato dagli dèi.
No, non poteva trattarsi di un Santo. E nemmeno del Santo-Barba. Era tornato due volte e due volte aveva fatto una brutta fine. Nel Deserto dei Bisbigli c'era ancora la Grande Croce dove l'avevano inchiodato. Un braccio di legno era spezzato. Quando l'emaciato cristiano che ci stava appeso per i polsi era spirato, una colonna di luce era scesa dal cielo e aveva avvolto la croce. C'era stato un lampo color del ghiaccio, che aveva accecato gli impalatori e lo sparuto drappello di spettatori. Quando avevano riacquistato la vista, il Barba era sparito e alla croce mancava un braccio. Sul palo verticale piantato nel terreno, e sulla metà orizzontale rimasta, c'erano impresse le sagome pallide della schiena e di un braccio, punteggiate di chiazze brune che erano sangue rappreso. Il legno era più chiaro lì dove le carni martoriate del Messiah poggiavano, e si vedevano con chiarezza i contorni.
Dunque no, non era opera di un Santo e nemmeno del Barba. E non potevano essere nemmeno gli Hynafol, che erano tutti crepati, l'ultimo per mano sua.
Nel pensare alla strega bianca gli venne in mente il motivo della visita alla casa rosada. La strana vibrazione che aveva percepito. Era debole, ma gli aveva provocato un certo fremito. Questa che sentiva ora era diversa, più carica e... colorata. E le sfumature che avvertiva gli davano il voltastomaco. Anche nell'altra c'erano sfumature sgradevoli, ma in misura minore. In confronto a questa che odorava di gelsomino, quell'altra era poca roba. Tuttavia...
«Può essere cambiata», mormorò.
Dopotutto la magia mutava. C'era la possibilità che quello che in origine era un piccolo sputo si trasformasse in una pozzanghera, e che la pozzanghera diventasse in seguito uno stagno.
Ma quello che sento somiglia di più a un oceano del cazzo.
Non ne avvertiva la pienezza, perché il tizio a cui apparteneva era molto lontano da lì (e lo capiva dal fatto che l'odore di gelsomino era debole), ma il solo fatto di poterlo annusare significava che era un potere di tutto rispetto. Ma perché non lo schermava?
Non ha ancora imparato, si disse.
E se non aveva ancora imparato, significava che aveva acquisito da poco quella nuova consapevolezza. Forse era esplosa proprio in quel momento. L'avrebbe sentita prima, sennò. E comunque, già il solo fatto di percepirlo lo metteva col culo al caldo, dato che non poteva percepire un potere più grande del suo.
La cosa gli restituì il buon umore. C'era in giro qualcuno con cui svagarsi, che era molto potente ma non abbastanza da metterlo in seria difficoltà. Considerando la facilità con cui aveva fatto fuori la strega bianca, riteneva che quest'altro tizio (o tizia, chi poteva dirlo) gli avrebbe regalato solo un tiepido divertimento.
«Svagati oggi, che domani potresti morire», disse, e si accorse che l'esercito di nanerottoli lo fissava con morboso interesse.
Ricambiò con un sorrisetto sghembo. Avevano identiche espressioni e volti che si somigliavano. O avevano una madre in comune o si accoppiavano fra loro come campagnoli incestuosi. Nel quando che aveva visitato accadeva, e neanche così di rado. Aveva visitato cittadine, grandi come un brufolo sul culo di una pulce, i cui abitanti non facevano caso ai rapporti di parentela. E non è che lo facessero perché erano a corto di chiappe nel quale spingere i loro manganelli: a quei figli di puttana piaceva inchiappettare le proprie sorelle e cugine.
Si drizzò, visto che la furia di poco prima gli aveva piegato un po' le ginocchia, e parlò loro.
«Miei piccoli amici deviati», disse come se tenesse un comizio, «non abbiate paura. Avvicinatevi.»
Gli fece cenno con le mani. Per nulla convinti, i nanerottoli si fecero avanti.
«Anche voi, lì dietro», disse a quelli che se l'erano data a gambe. «Fatevi sotto, che la notte è corta e il tempo non va sprecato.»
Uscirono lentamente dai loro ripari e si avvicinarono con prudenza. Il vagabondo attese con un sorriso.
«Direi che ci siamo tutti... a parte quelli che ho spacciato, si capisce.» Spiattellò in faccia ai presenti un sorriso accattivante. «Ho sclerato un po', ma mi è passata.»
Tacque e li osservò, protraendo il silenzio.
«Che ne dite se serriamo le chiappe, pigliamo armi e bagagli e muoviamo il culo?»
I nanerottoli si guardarono. Avevano capito solo mezzo discorso, e non perché quel tizio matto come un cavallo pronunciasse male le parole. Non avevano idea di cosa volesse dire con: «Ho sclerato», né perché dovessero serrare le chiappe (che poi come facevano a camminare se le stringevano?).
Il Teihiihan che parlava col vagabondo si fece avanti. L'altro lo accolse con blando interesse.
«Dimmi tutto, mio piccolo e orrido amico.»
Con una paura fottuta annidata nello stomaco, il Teihiihan gli disse che avevano armi da portare ma che non sapevano cosa fossero quei... come li aveva chiamati? Bagalli?
Una nuova serie di spasmi colse il vagabondo. Un sorriso gli allungò gli angoli delle labbra fin dietro le orecchie. Lanciò la testa all'indietro e rise come uno sciacallo, le mani premute sulla pancia. Gli sghignazzi risuonarono attraverso la foresta. Rise fino alle lacrime, schiaffeggiandosi le cosce e rotolandosi a terra sulle ceneri dei nanerottoli fulminati, finendo per sporcare ancora di più il giubbotto. Il Teihiihan se ne accorse e rabbrividì. E se gli partiva di nuovo la brocca e lo fulminava come aveva fatto con quegli altri?
Ma quando il vagabondo si alzò, non sembrava interessato allo stato del giubbotto.
«Mi farete crepare, sporchi figli di puttana dal culo basso», disse mentre si ricomponeva.
Detto ciò, si voltò e si incamminò. Il Teihiihan mandò giù il groppo che gli si era formato in gola. Lo stomaco gli si alleggerì di colpo. Si mise sulle tracce del vagabondo e il gruppetto alle sue spalle lo seguì senza fiatare. Il vagabondo cominciò a cantare.
«Take me down, to the Paradise City...»
Grande canzone. Sarebbe piaciuta a Bonedigger. Che poi, in certa misura, la città di cui parlava la canzone avrebbe potuto essere la Radura.
«... where the grass is green and the girls so pretty...»
Lui e Bonedigger fantasticavano a volte su come fosse la Radura e su cosa li aspettasse dopo la morte. Bonedigger credeva che ci fossero prati a perdita d'occhio.
«Take me down to the Paradise City, where the girls are firm and they have hard nipples», cantò il vagabondo.
Questa versione sarebbe piaciuta al vecchio leone, ne era convinto. E anche il rock che l'accompagnava. Non era poi molto diverso da quel suo blues. Ricordava una volta, quando...
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