* * *
Quando si svegliò, il cielo andava schiarendosi in lontananza. Il mondo era una macchia sfocata. Vedeva sagome rosse e indistinte dinanzi a sé, mentre si lamentava per il pulsare sordo e continuo alla nuca.
«Buongiorno, principessa», disse una voce cupa.
Sbatté le palpebre e le strizzò finché la vista non si schiarì.
Dinanzi a lui c'era un gigante pelato, con la faccia pallida come cera e due occhi neri come ametiste. Intorno a lui, radunati in un semicerchio, i figli di Baphomet. Solo il gigante pelato aveva il volto scoperto.
«Hai dormito un bel po'», disse Daimon.
Il ragazzo provò a muoversi e scoprì che non ci riusciva. Abbassò lo sguardo e vide una corda che gli cingeva la vita. Solo in quel momento percepì la rude consistenza del legno dietro la schiena e la pressione a polsi e caviglie. L'avevano legato come un salame. E sotto i piedi, che il Buon Padre lo aiutasse, c'era una piccola catasta di legni ammonticchiati.
«Slegami», disse il ragazzo.
Daimon sorrise e il dissidente vide affacciarsi nei suoi occhi un bagliore pallido, che un'ombra subito oscurò.
«Mettiamoci d'accordo», fece il ragazzo.
«Vuoi fare un accordo?» chiese Daimon. «E cosa può offrirmi un moccioso?»
«Anime.»
«Anime?»
Il ragazzo annuì mentre il dissidente gli suggeriva cosa dire. «Tutte quelle che servono al Re Diavolo per allargare a sufficienza la porta dietro la Luna di Sangue ed entrare. In una sola botta.»
Un paio di tonache alle spalle di Daimon si guardarono e altre presero a mormorare.
«Ma davvero?» fece Daimon con quel suo sorrisetto sbeffeggiante. «Tu puoi procurarmi centomila anime in un colpo solo?»
Il ragazzo annuì ancora.
«E come?»
«Sono infestato da un Druido», disse il ragazzo. «Quando le nostre anime si fonderanno, avrò il potere dei doeth.»
Il sorriso di Daimon vibrò incerto. Un silenzio improvviso calò tra i figli di Baphomet. Poi tutti scoppiarono a ridere, alcuni piegandosi e schiaffeggiandosi le cosce. La mezza luna sul volto di Daimon riapparve.
«Dico sul serio», insisté il ragazzo. «Guarda da te, se non mi credi. Sai cosa cercare, visto che pure tu sei infestato.»
Daimon si fece serio di colpo. Mise piede sulla catasta di legna e con una mano afferrò il mento del ragazzo. Fissò i suoi occhi neri in quelli castani dell'altro, la punta del suo naso camuso che sfiorava quello del giovane. Il ragazzo poteva sentire il fiato del gigante, che odorava come una tomba scoperchiata. Il Gran Sacerdote scrutò a lungo gli occhi del prigioniero, mentre alle sue spalle i figli di Baphomet rientravano nei ranghi.
«Io non vedo un caz...» fece per dire Daimon, ma poi la vide.
Pulsò per un attimo, ed era dello stesso colore di un fuoco da bivacco. Un'ombra la inghiottì lesta. La fronte del Gran Sacerdote si riempì di rughe. Mollò il ragazzo e si allontanò.
«Convinto?» chiese il ragazzo.
«Come so che è un Druido?» chiese Daimon.
Il volto del ragazzo cominciò a invecchiare. Rughe apparvero ai lati delle labbra e sugli zigomi. Macchie scure si allargarono sulla fronte, che lentamente incartapecoriva. Le ciglia e i capelli si ingrigirono, la pelle tutta avvizzì e il naso cominciò a sciogliersi. Daimon fissò impassibile, serio come i faccioni di pietra dei Quattro Padri.
«Ti basta?» gracchiò il ragazzo nella sua nuova voce, sottile e tagliente come un rasoio.
«Questo posso farlo anch'io», disse Daimon.
Il cadavere che andava sciogliendosi ringhiò. Denti marci, come pietre tombali annerite e ricoperte di muschio, guizzarono per un attimo. Poi gli occhi del morto ambulante si fissarono su una tonaca. Il tizio che la indossava si sollevò di una spanna buona dal terreno, cominciò a mulinare braccia e gambe e si lasciò sfuggire un'imprecazione. Daimon si voltò e lo vide galleggiare a mezz'aria, sollevarsi oltre le teste dei presenti e continuare a salire.
Tornò a rivolgersi al cadavere e disse: «Questo sa farlo qualsiasi telelwybr.»
«Hai mai visto un telelwybr capace pure a farsi sciogliere la faccia?» gracchiò, incazzato, il cadavere ambulante legato.
«Se avesse un demone in corpo, potrebbe farlo», rispose con un sorrisetto il Gran Sacerdote.
Il cadavere ambulante ringhiò ancora e il dissidente si decise a forzare la mano, provando a materializzarsi. Ma l'influsso della Luna di Sangue era agli sgoccioli e lui aveva già sprecato energie preziose. Quando il Re Diavolo ritirò i suoi artigli e scivolò dietro il disco lunare, l'ultimo residuo di magia si esaurì e il tizio che svolazzava cadde a faccia in giù nella polvere.
«Merda», fece il ragazzo.
Il suo volto si era ricompattato in quello di un normale moccioso.
«Peccato», disse Daimon. «Cominciavo a divertirmi.» Si rivolse ai figli di Baphomet. «Bruciatelo.»
«Che? No, aspetta!» fece il ragazzo, ma Daimon aveva girato i tacchi e stava allontanandosi.
Una tunica avanzò con una torcia.
«Ho più di mille bronzi da parte!» urlò il ragazzo. «Sono tutti tuoi!»
Il Gran Sacerdote tirò dritto senza fermarsi. La tunica si chinò e diede fuoco alle fascine. Le prime fiamme guizzarono. Il ragazzo prese ad agitarsi come una trota pigliata all'amo, sprecando solo energie. Sotto di sé, le lingue di fuoco aggredivano i legni.
«Duemila bronzi! Sono nascosti in città!»
Daimon continuò a camminare e il ragazzo a dibattersi, poi si fermò di colpo. Cominciava a sentir caldo, ma un caldo particolare, che non veniva dal rogo. Si accorse quasi subito che non erano le fiamme sotto di sé a produrlo, ma un tipo diverso di fuoco che gli ardeva nelle viscere. Lo sentì sbocciare e allargarsi nello stomaco come un sorso di buon torcibudella, salire sino al petto e bruciargli i polmoni. Fu una sensazione piacevole, come quella provocata da un unguento su una scottatura.
Il ragazzo prese a respirare affannosamente.
«Che cazzo succede?» mormorò, più a se stesso che al dissidente.
Il fuoco continuò a crescere ed espandersi. Lo sentiva circolargli nelle braccia e persino nei lombi. Il dissidente gli disse qualcosa, ma la sua voce arrivava da lontano, dal fondo di un pozzo profondo come il twndis.
«Gran Sacerdote», chiamò una tunica.
Daimon si voltò, vide cosa accadeva nel mezzo della stella a cinque punte e tornò indietro a grandi falcate. Si fece largo tra i figli di Baphonet e guadagnò la prima fila. Le fiamme cominciavano ad allungarsi e a mordere le caviglie del ragazzo, che tuttavia non pareva spaventato. La sua espressione tradiva qualcos'altro, una roba che Daimon non riuscì a interpretare ma che non gli piacque affatto. E c'era pure una sorta di bruma che aleggiava intorno al moccioso: una nebbiolina verdognola, nella quale erano sospese goccioline dorate simili a resina che le fiamme facevano brillare. I figli di Baphomet erano ipnotizzati dallo spettacolo inatteso. Qualcuno fece un passo avanti e si accorse che la bruma, ora di un verde chiaro, sembrava uscire dal ragazzo, dai pori della sua pelle. E lo avvolgeva come un bozzolo, camminandogli sopra come una roba viva impegnata a esaminarlo.
Il dissidente disse qualcos'altro. Il ragazzo sentì solo un flebile sussurro che nessun orecchio umano avrebbe potuto interpretare. Gli parve però di cogliere una certa soddisfazione nella voce del suo compagno di viaggio.
«Che gli sta capitando?» chiese una tunica.
«La vedete anche voi quella roba che gli corre addosso?» chiese un'altra.
La nebbia si compattò e aderì al ragazzo come un sudario bagnato e lucido. Le goccioline dorate sospese al suo interno ammiccarono. Poi si allargò, crescendo in altezza e in larghezza. I figli di Baphomet e il Gran Sacerdote la videro superare in altezza il palo di legno al quale era legato il ragazzo e assumere contorni luminosi e ben definiti.
«Che diavolo...» mormorò una tunica.
Alle spalle del ragazzo c'era ora la sagoma eterea di un tizio con indosso un saio, una cintura d'edera e un bastone nodoso in una mano. Il cappuccio del saio era su e non si riusciva a vedere il volto del tizio alto e nebuloso, ma sospesi nel nero di quello spazio nero avvampavano gli occhi: due braci di sigaretta allungate ai lati. Il tizio alto restò a troneggiare per pochi secondi, poi si dissolse in un vortice verde che avvolse il ragazzo e sembrò scomparire dentro di lui, succhiato via come aria nella bocchetta di un mantice. Il ragazzo si afflosciò mentre le fiamme si radunavano ai suoi piedi, assaggiando il cuoio degli stivali.
«Che diavolo...» fece una tunica e si interruppe quando il ragazzo si drizzò di colpo, gli occhi sbarrati.
Una raffica impetuosa soffocò le fiamme e scalzò i cappucci delle tuniche rosse, rivelando diverse facce spaventate. Con uno strappo rabbioso, il ragazzo liberò i polsi. La corda che gli girava intorno al petto scivolò sino alle caviglie. Il ragazzo si guardò le mani. Le sentiva formicolare: una sensazione piacevole che percepiva in tutto il corpo. Guardò Daimon, che lo osservava con un cipiglio serio, e sogghignò. Fu un sogghigno alla Bonedigger, che serbava però una malignità estranea al vecchio leone.
«Adesso sono cazzi», gracchiò il ragazzo.
Aveva una voce roca che non si addiceva a uno di quell'età.
Lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e fece in modo che quel piacevole formicolio andasse dove voleva, e di colpo un bagliore aranciato gli circondò le mani. Minuscole scariche di elettricità guizzarono come serpenti dorati.
«Ci si vede all'inferno, cazzoni», disse ai figli di Baphomet.
Rivolse i palmi ai suoi aguzzini. Ci fu lampo di luce, come l'esplosione di un tramonto, poi una pioggia di folgori investì i figli di Baphomet e il Gran Sacerdote. Urlarono mentre la pelle cuoceva e un odore dolciastro si spandeva nell'aria. Nel giro di pochi secondi l'accampamento si trasformò in un circo di torce umane che correvano in tutte le direzioni e in alcuni casi si scontravano, cadevano e rotolavano. Daimon era l'unico che giaceva nella polvere, la faccia in un solco della stella tracciato nel terreno. Un fulmine l'aveva beccato in pieno petto e la sua tunica, col caprone disegnato sulla schiena, ardeva come un piccolo falò.
Il ragazzo rimirò lo spettacolo dei fuochi su due gambe che correvano per tutta la gola, che inciampavano nelle tende e davano fuoco un po' alla volta a tutto l'accampamento. Lo invase una prostrante soddisfazione. Era un fracco che aspettava quel momento. E che culo aveva avuto, che la fusione si concludesse proprio un attimo prima di finire arrostito. Che poi, com'è che era successo così in fretta? Secondo i suoi calcoli mancava ancora molto.
«La Luna di Sangue», mormorò.
Forse era merito del suo influsso. Aveva amplificato la portata dell'incantesimo e accelerato il processo di fusione.
Si allontanò dal rogo sacrificale e, quando passò accanto a Daimon, la mano del Gran Sacerdote scattò e gli afferrò una caviglia. I pochi residui di stoffa ancora indenni della sua tunica bruciavano. Le fiamme l'avevano divorata in poco tempo, lasciando nudo il Gran Sacerdote. Il ragazzo guardò la schiena di Daimon, pallida come un osso. Il fuoco non aveva intaccato la pelle.
«Sono la pupilla del rettile», mormorò Daimon. Le sue dita strinsero lo stivale. «Sono l'artiglio del demone.»
Si tirò su, col ragazzo che lo guardava e pareva intenzionato a lasciarlo fare.
«Sono le moltitudini incarnate», disse il Gran Sacerdote, prima di mettersi in piedi con qualche difficoltà.
Sovrastò il ragazzo come una montagna. Una proboscide di notevoli dimensione gli penzolava tra le gambe.
«Nessun'arma può spezzarmi.»
«Ci sarà da divertirsi, allora», fece il ragazzo.
La mano di Daimon scattò e afferrò la gola del ragazzo. Le dita si serrarono come i denti di una tagliola. Il braccio del Gran Sacerdote provò a sollevare il ragazzo e non ci riuscì. Era come se quel fuscello di ossa e carne pesasse un quintale. Ci provò ancora, stavolta con entrambe le mani, ma niente. Il ragazzo sogghignò beffardo.
«Mi sembri in difficoltà», disse.
Daimon serrò allora le dita intorno al collo esile e di colpo gli parve di stringere una sostanza molle e duttile come la cera flessibile con cui certi marmocchi giocavano. Ritirò le mani e vide che il collo del ragazzo si era assottigliato e sembrava proprio un blocco di quella cera modellata dalle manine di un bambino.
«Tu sarai pure tutte quelle stronzate che hai detto, ma anche io sono una spina nel culo mica da ridere», fece il ragazzo.
Si ficcò il pollice in bocca, soffiò e il collo si gonfiò rapidamente, tornando alle dimensioni usuali.
«Che cosa sei, tu?» chiese Daimon, sorpreso davvero per la prima volta.
«Pensavo di avertelo detto», fece il ragazzo. «Sono un doeth, uno dei Sette. Mi chiamano Haul. Forse hai sentito parlare di me.»
«Dovresti avere più di cento inverni.»
«Me li porto bene, di' la verità», fece il ragazzo.
La sua mano scattò rapida e trapassò il petto di Daimon. Il Gran Sacerdote sentì la carne lacerarsi e un paio di costole spezzarsi, ma non provò dolore. Il demone che lo infestava, un Mastino Infernale, gli impediva di provarne. Il Gran Sacerdote percepì solo un corpo estraneo che gli entrava nel petto e rimestava il suo contenuto. Il ragazzo estrasse la mano. Le dita stringevano il cuore del Gran Sacerdote, che grondava sangue e ancora pompava.
«È un bel pezzo di manzo», disse il ragazzo, osservando il cuore mentre esauriva gli ultimi battiti.
Daimon sentì che le forze lo abbandonavano.
«Io sono...» disse il Gran Sacerdote, e un fiotto di sangue gli uscì di bocca.
Cadde in ginocchio, ed era comunque più alto del ragazzo.
«... immortale.»
Poi crollò di lato, gli occhi vitrei e un rivolo di sangue che gli colorava il mento.
«Tu sei un cazzone», fece il ragazzo. Buttò via il cuore. «E ora sei un cazzone morto.»
Dal corpo del Gran Sacerdote si levò una nebbia nera con due occhi, nella parte alta, come braci ardenti. Le braci avvamparono e il ragazzo sentì tutto l'odio che serbavano. Fu come una vibrazione che gli attraversò le ossa.
«Meglio che ti levi dal cazzo», fece il ragazzo mentre una sagoma incappucciata, dai contorni luminosi, si ergeva alle sue spalle.
Gli occhi di brace la fissarono con odio mortale. Poi l'ombra si fiondò nel terreno e sparì. La sagoma alle spalle del ragazzo rimpicciolì e scomparve. Il ragazzo sorrise soddisfatto e si guardò intorno. L'accampamento era un cimitero a cielo aperto. Si sentiva il pungente odore di corpi bruciati. La maggior parte ancora fumava. Qualche matto aveva raggiunto i cavalli e, nel tentativo di zompare in sella al proprio, aveva dato fuoco alla bestia. Ora giacevano entrambi nella polvere. I cavalli sopravvissuti erano fuggiti via mentre il ragazzo affrontava Daimon. E a proposito di fuggire, si disse, forse era arrivato anche per lui il momento di levare il culo da lì. Prima, però, aveva ancora qualcosa da fare.
Girò i tacchi e tornò da dove era venuto. Raggiunse l'imboccò del sentiero sul lato della gola, intenzionato tornare al cunicolo che l'avrebbe riportato ad Aurora. Rifare la strada non era un problema, ora che la fusione gli aveva curato le abrasioni sulle palme dei piedi. Miracoli della magia moderna.
«'spetta un secondo», si disse, fermandosi. «Lo sto facendo in modo cretino.»
Conosceva una maniera più rapida per arrivare in città. Chiuse gli occhi e pensò alla cittadina. Visualizzò il saloon e la sua insegna mentre il primo raggio di Sole si allungava verso la gola, verso l'imbocco del sentiero e verso di lui. Arrivò a lambire la sua lunga e magra.
Poi il ragazzo svanì.
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