* * *

Job si destò con un senso di irrequietudine che gli ballava nel cervello e nel petto. Una lama di Sole entrava dallo spazio tra gli scuri accostati e scivolava sulle lenzuola. Si girò a guardare il soffitto. La mente era ancora annebbiata dal sonno e dal sogno, che si era interrotto nel momento in cui i demoni di sabbia e le sagome oscure piombavano sul Messiah come un branco di iene affamate.

Job scostò le lenzuola e si accorse di aver dormito vestito. Mise i piedi nudi in terra. Aveva avuto la presenza di spirito di togliere almeno i sandali, anche se non ricordava di averlo fatto. Si guardò le unghie dei piedi, fin troppo lunghe e sporche. Un po' di toeletta non avrebbe fatto male. Prima, però...

Si accorse, voltandosi, che su una branda sistemata in un angolo dormiva Abigail. Gli dava le spalle e il suo respiro era lento e regolare. Di sicuro era stata lei a sfilargli i sandali. Job decise che, se si fossero fermati un'altra notte, le avrebbe ceduto il letto. Infilò i sandali (ora che aveva ritrovato la memoria gli parevano oltremodo ridicoli) e uscì dalla stanza senza fare rumore. Scese di sotto. Quando il tizio che stava al bancone lo vide, sorrise e si informò subito: «Ha dormito bene?»

«Come un pupo tra le tette di sua madre», disse Job.

Il sorriso sul viso dell'altro sparì.

«C'è un posto dove posso azzannare qualcosa?» chiese Job.

«Azzannare?»

«Mangiare.»

«Oh... il saloon di Doyle, sulla Via Maestra.»

Job girò i tacchi e uscì, lasciando il tizio dell'hotel confuso. Lo sceriffo gli aveva detto che quell'omone grande e grosso era un reverendo, ma da come parlava sembrava più un asesino o comunque un poco di buono.

Job pestò la Via Maestra guardandosi i piedi, imprigionati in quel paio di sandali. Avrebbe dato il coglione sinistro per un paio di anfibi. Mentre camminava gli tornò in mente il sogno. La Via Maestra della cittadina che aveva sognato era diversa da quella su cui camminava ora, ma neanche tanto. A parte il campanile di pietra (dettaglio interessante, quello), avrebbe potuto essere la stessa. Riesumò per un attimo i dettagli più inquietanti del sogno, come le voci animalesche e il disco nero che oscurava il Sole. Sollevò il mento ad ammirare la moneta d'oro che scintillava nel cielo, che era del colore di un jeans stinto. Quella mattina spirava giusto un filo di vento. Non abbastanza da creare mulinelli di sabbia che somigliassero a demoni o a ombre che un negromante avrebbe potuto evocare.

Vide l'insegna del saloon in lontananza. Salì i gradini ed entrò. Quando mise piede dentro il locale, una voce lo raggiunse.

«Guarda chi si è trascinato fuori dalla tana.»

Job vide Gary in piedi dinanzi al bancone, uno stivale posato sulla staffa in basso, e lo raggiunse nel giro di poche e ampie falcate.

«Dormito bene?» chiese Gary, mollandogli una pacca sull'ampio bicipite.

«Come un marmocchio sdentato», disse Job. Gary ridacchiò. «Ho una fame che mangerei un cavallo.»

«Ti faccio preparare qualcosa. Doyle è il miglior cuoco di tutta Aurora.»

«Di tutto l'est», fece Doyle.

«Nei tuoi sogni», disse Gary, che poi notò l'espressione di Job. «Ohè, che c'hai? Sembra che sta per pigliarti un colpo o roba simile.»

«Cos'è che hai detto?» chiese Job, stranito.

«Che sembri uno che sta per...»

«Prima di quello.»

«Che Doyle è il miglior cuoco di Aurora.»

«Aurora?»

«Eh.»

Job si allontanò barcollando, prese la sedia più vicina e ci si accomodò senza dire una parola.

«Che cavolo gli è preso?» chiese Doyle.

Gary raggiunse l'amico, pigliò una sedia e gli sedette accanto.

«Tutto okay?» domandò.

Job avevo lo sguardo stralunato. Si prese un attimo per riordinare i pensieri e cominciò a raccontare. La prese da lontano, iniziando da quella volta che aveva visto il Messiah spirare. Poi il lampo di luce che gli aveva cancellato la memoria, la parentesi ad Aramundi come reverendo, i miracoli, l'odore di santità e infine il viaggio verso Aurora. Finito di raccontare, si lasciò andare contro lo schienale della sedia, esausto.

«Non sembri molto sorpreso», disse a Gary.

«La tua amica mi aveva già raccontato tutto», fece Gary.

«Potevi dirmelo. Mi hai fatto seccare la lingua.»

«Volevo sentire la storia da te.»

«E adesso che l'hai sentita? Che pensi?»

«Quello che pensavo ieri, che non hai la fantasia di inventarti una roba così. La parlata col Messiah, la visita alla Radura e il sogno che hai fatto ieri... devo dire che mi hanno impressionato parecchio.»

«Allora ce la dai una mano?»

«L'ho detto già ieri alla tua amica: la nostra levatrice è tipo una nazista, ma è anche brava a sfornare pupi belli e sani. Non ha mai sbagliato un colpo e in città si fidano tutti di lei. E comunque non ce la vedo che si fa da parte e lascia fare a una straniera. E se sperate di convincere Constance Conway, state freschi. La tua amica ha detto che vuole aspettare fino all'ultimo prima di intervenire.»

Job si passò le dita a pettine fra i capelli sottili e sospirò. «Abigail è più saggia di me e sa sempre cosa è meglio. Penso sia per questo che il Messiah me l'ha appioppata.»

«Siete una strana coppia, però devo dire che la tipa ha qualcosa di...»

Gary non riuscì a trovare la parola giusta e Job gli venne in soccorso.

«Magico?»

«Eh», fece Gary. «Pure il modo come parlava a quel llew, manco fosse un cristiano.»

«Eira», disse Job, sorpreso. «E Abigail le ha parlato?»

«Eh.»

«Quel micione ci ha salvato le chiappe, e pure tutto quello che sta sopra e sotto. A proposito, sai mica dove Abigail l'ha parcheggiata?»

«In gabbia.»

«In gabbia?»

«L'ho messa in una cella della prigione.»

«Hai messo in cella Eira?»

«Mica potevo lasciarla gironzolare per la città. Ci sono polli, maiali, cavalli e cristiani.»

«Eira non farebbe male a nessuno, animale o cristiano.»

«A quella cosa nel deserto l'ha fatta fuori senza pensarci.»

«Perché voleva ammazzarci!» gridò Job e calò una mano sul tavolo.

Doyle smise di lucidare bicchieri e si voltò. Gary si tirò indietro, schiacciandosi allo schienale della sedia. Gli venne d'istinto.

«Scusa», fece Job, passandosi ancora le dita tra i capelli con un sospiro. «È che saperla in gabbia dopo che mi ha salvato le chiappe...»

«Facciamo così», disse Gary, «adesso tu ti riempi la pancia, e dopo andiamo insieme a liberare il gattone. Poi pensiamo a dove sistemarlo per non mandare in panico tutta Aurora. Come la vedi?»

«D'accordo», disse umilmente Job.

Gary chiese a Doyle di preparare una colazione abbondante, poi si rivolse a Job. «Non ti avevo mai sentito chiedere scusa.»

Job fece un sorriso forzato. «Ne è passata di acqua sotto i ponti. Possiamo dire che sono un uomo nuovo.»

«Lo vedo. Quando sei arrivato in città ho pensato di avere di fronte tuo fratello gemello. La moto che fine ha fatto?»

«E chi lo sa», fece Job. «Mi ricordo che ce l'avevo prima di perdere i sensi. L'avrà sgraffignata qualcuno che s'è svegliato prima di me.»

«Si è fregato pure gli anfibi, mi sa.»

Job si guardò i piedi e grugnì divertito. «Questi affari mi fanno venire voglia di urlare.»

«Si chiamano sandali», scherzò Gary.

«Possono anche chiamarsi belle passere, non cambia il fatto che mi sento un'idiota a indossarli.»

«Anche senza non è che sembri un cervellone, eh.»

Job gli mostrò il medio con un sorriso e Gary ridacchiò. Doyle arrivò giusto in tempo per vedere Job che alzava il medio. Consegnò allora la colazione (uova, pancetta e pane di mais) e girò i tacchi chiedendosi che razza di reverendo fosse quello che sedeva con lo sceriffo di Aurora. Aveva sentito dire che girava con un llew albino che lo tallonava come un cane fa col padrone. La notizia arrivava da Roy, il vice di Gary, che non era tipo da cacciar balle.

Doyle aggirò il bancone mentre il reverendo si sbafava la colazione a tempo di record. Lo vide poi mollare la forchetta di legno, raccogliere il cibo con le mani e schiaffarselo in bocca. Lo sceriffo pareva divertito da quella scena. Più che un reverendo, pensò Doyle, pareva un morto di fame.

Job ripulì il piatto e soffocò un rutto portandosi un pugno alle labbra.

«Vedo che hai gradito», fece Gary.

«Non male», disse Job.

«Vogliamo andare dal gattone?»

«Mi hai letto nel pensiero.»

Gary si alzò e rivolse a Doyle con un cenno. Il barista non lo fece neanche parlare.

«Mi faccia indovinare: vuole che le metta in conto la colazione», disse.

«Sei un telelwybr», fece Gary.

«Prima o poi ha intenzione di saldarlo, 'sto benedetto conto?»

«Posso saldarlo anche ora, se vai di fretta. A quanto ammonta?»

«Venti bronzi grandi e dieci piccoli.»

Gary si tastò platealmente le tasche. «Mi sa che ho scordato il portafogli in ufficio.»

«Il... cosa?» chiese Doyle, accigliandosi.

«Il portamonete», si corresse Gary e la fronte di Doyle si spianò.

Il barista bofonchiò qualcosa e prese a lucidare i bicchieri. Gary ridacchiò e fece cenno a Job di seguirlo. Uscirono dal saloon e si avviarono verso l'ufficio dello sceriffo.

«Quindi adesso come devo chiamarti?» fece Gary.

«Come ti pare», disse Job. «Non mi cambia.»

«Che poi perché Job? Non ti si addice granché come nome.»

«Tutti i ministri del culto hanno nomi presi dal Buon Libro

«Potevi sceglierne un altro.»

«Ero indeciso tra Job e Gesù, poi ho scelto il primo perché non volevo creare confusione.»

Gary ridacchiò. «Facciamo che ti chiamo Job. Sarà strano forte, ma penso sia meglio così.»

«Come ti pare.»

Misero piede nell'ufficio dello sceriffo. Roy li accolse zompando giù dalla branda e mettendosi sull'attenti.

«Ti facevi un sonnellino?» fece Gary in tono brusco.

Roy aprì bocca per dire che stava solo riposando le ossa, ma Gary non lo lasciò fiatare.

«Visto che sei in piedi, fai uscire quel maledetto ubriacone.»

Roy scattò a recuperare le chiavi da un cassetto e aprì l'ingresso alle celle in tutta fretta.

«Sei diventato un sergente nazista», disse Job.

«E non hai ancora visto niente», fece Gary.

Peter Ronson uscì, mezzo ingobbito, ed era sobrio come un cactus. Aveva una spolverata di barba e se la grattava mentre metteva piede nella stanza affianco.

«La prossima volta ti porto da iawn Maddock», gli disse Gary.

Meddwyn Ronson smise di tormentarsi la barba e lo fissò. «Per una bevuta?» disse poi.

«Hai anche fatto a botte... o almeno ci hai provato. Hai tirato un pugno, hai mancato il bersaglio e sei svenuto.»

Ronson continuò a strofinarsi la barba con aria accigliata, poi disse: «Non me lo ricordo mica.»

«Che cazzo ti vuoi ricordare? Eri pieno fino agli occhi. Mo' smamma, e ricorda quello che ti ho detto.»

Ronson si trascinò fuori.

«Chi sarebbe questo Maddock di cui parlavi?» chiese Job.

«Una specie di giudice», fece Gary. «Gli mando i tizi che fanno robe un po' più gravi di una sbevazzata.»

«Il tuo ubriaco sembrava terrorizzato all'idea di vederlo.»

«Perché Maddock può cacciarti dalla città, se ritiene, o farti impiccare.»

«Addirittura?»

Gary annuì con fare solenne. «Mo' hai capito perché mi preoccupa il tuo micio?» Si rivolse a Roy, che stava sull'ingresso della prigione. «Visto che ti trovi lì, libera pure il gattone.»

Roy fece una faccia che era tutto un programma, ma girò i tacchi ed eseguì senza aprir bocca. Lo sentirono che apriva la cella e lo videro tornare indietro camminando veloce. La cosa strappò un sorrisetto maligno a Gary.

Eira spuntò sulla soglia e si guardò in giro, poi puntò i suoi occhi grigi e lustri su Job. Il reverendo le andò incontro, si accosciò e le carezzò la testa, bianca come neve appena cascata. Eira socchiuse gli occhi, estasiata, e cominciò a fare le fusa.

«Ti hanno trattata bene?» le chiese.

«Benissimo», rispose Gary. «L'ho sfamata a dovere, e aveva pure Pete Ronson con cui chiacchierare.»

Job si alzò ed Eira lo seguì quando tornò da Gary.

«Non può andarsene in giro», sospirò Gary.

«La porterò fuori città», fece Job. «Ma non posso portarcela in braccio.»

«Mettile almeno un guinzaglio.»

«Bella battuta.»

«Non è una battuta.»

«Io dico di sì», fece Job e lanciò uno sguardo di sfida all'amico.

Quell'atteggiamento molto poco da reverendo convinse Gary che era meglio desistere. In fondo l'amico non era poi tanto cambiato.

Lo sceriffo di Aurora sospirò. «E va bene», disse, «ma se fa male a qualcuno...»

«Datti pace», tagliò corto Job e girò i tacchi.

Gary lo seguì, ma prima si rivolse a Roy e, nello stesso tono duro di prima, gli disse: «Piglia la ramazza e pulisci la cella del gattone. Voglio trovarla linda e pinta.»

Roy scattò come un gatto. Gary aspettò che sparisse oltre la soglia della prigione e sorrise. Quel ragazzo era uno spasso.

Girò i tacchi e seguì Job e il gattone.

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