* * *

I figli di Baphomet fecero il loro ingresso in città mentre Meadow si infrattava tra le gengive di roccia e tornava sui propri passi. Daimon guidava il drappello di nove uomini armati. Lui non ne portava, di armi, a parte il pugnale che usava per sventrare le femmine. L'aveva sempre con sé, anche quando dormiva. Gli piaceva sentirne la consistenza sulla pelle. Lo eccitava. Gli piaceva masturbarsi ed eiaculare sulla lama ancora sporca del sangue che spillava alle femmine offerte in sacrificio a Baphomet. Il suo Principale non se ne aveva a male se prima di ucciderle si divertiva un po'. Al Re Diavolo non interessavano i corpi. Lui mangiava anime.

La città era silenziosa. Un sudario mesto la ricopriva. Nei pressi della Piana Arcobaleno si udiva un lamento sommesso, come se il Messiah manifestasse il proprio dissenso. I cavalli in fila indiana pestarono la Gran Via di Arlene. I cavalieri erano forme identiche, brune alla luce della Luna. Solo quando passavano nei pressi di una torcia, ed entravano nel cerchio di luce, si tingevano di rosso. In entrambi i casi erano spaventosi e incutevano un certo timore religioso. A guardarli troppo a lungo finivi per credere che il mondo si fosse trasformato in un girone infernale.

Sul portico del saloon stavano Vince, Cecil e il ragazzo. Poggiati alla facciata di legno, le braccia incrociate, sembravano imitazioni di vite lasciate lì a essiccare. Vince e Cecil guardavano la marcia dei cavalieri. Il ragazzo era, come suo solito, a capo chino. La larga visiera del cappello gli copriva il volto.

«Che è 'sta pagliacciata?» fece Cecil quando vide arrivare i figli di Baphomet.

«Chiudi il becco», disse Vince.

Meadow aveva detto di loro di tenere gli occhi aperti e la bocca chiusa. Dovevano osservare. Non che fosse nelle loro intenzioni fare di più, beninteso. Cecil sbuffò e osservò, ma dentro di sé continuò a ripetersi che quella era una pagliacciata e che i pagliacci a cavallo erano dei cazzoni con un pisello piccolo come un ditale e la virilità di un verme.

Daimon si fermò proprio nei pressi del saloon e la piccola carovana di matti in vestaglia rossa lo imitò.

«Dov'è il reverendo?» chiese ai tre che stavano sotto il portico.

«Che ne so, mica sono la sua balia», rispose Vince.

Cecil sgranò gli occhi e girò la testa verso l'amico con comica lentezza.

«Siete quelli arrivati stamattina», fece Daimon.

La sua non era una domanda. Tolse il cappuccio. Vince e Cecil rimasero turbati da ciò che videro: la faccia di Daimon era un grigio blocco di pietra disseminato di vasi sanguigni viola. E incastonati nella pietra c'erano un paio di occhi luminosi. Erano neri come ametiste e c'era qualcosa di malato che nuotava sotto la superficie. Vince capì subito di aver di fronte un sadico e bastardo figlio di puttana della peggior specie, e pensò di aver sbagliato a rispondergli in quel modo. Ma forse faceva ancora in tempo a rimediare.

«Barista!» chiamò. «Vedi che hai visite!»

Daimon ghignò e Cecil rabbrividì alla vista di quel sorriso. Dall'interno del saloon giunsero passi concitati. Poi il barista apparve dietro i battenti. Aveva un'espressione da funerale.

«Dov'è il reverendo?» gli chiese Daimon.

Nel ripetere la domanda usò lo stesso tono di voce piatto e roco di poco prima.

«Doveva già essere qui», mormorò il barista, evitando lo sguardo dell'altro.

«Vallo a chiamare», fece Daimon.

Il barista sospinse i battenti come se pesassero un quintale, uscì e si allontanò con l'andatura di un condannato a morte che si avvii al patibolo. Daimon lo guardò andare, e continuò a fissare la Via Maestra anche quando il barista sparì nel vicolo accanto alla chiesa. Vince notò la fissità dello sguardo e che le palpebre non sbattevano mai.

Questo tizio è bacato fino al midollo, si disse.

Attesero pochi minuti, ma il tempo sembrò infinito. Daimon non smise mai di fissare il punto dove il barista era sparito e nessuno dei suoi compari fece un movimento. Sembravano manichini a cavallo. Neanche quando il barista uscì dal vicolo, in compagnia del reverendo Parris, l'espressione di Daimon cambiò.

Parris si affrettò a raggiungere il portico il saloon e a schermirsi. «Mi ero appisolato e...»

«Avete scelto?» lo interruppe Daimon.

«Veramente...»

Parris distolse lo sguardo. Quegli occhi scuri lo mettevano a disagio.

«Raduna tutte le donne», disse Daimon.

Parris si costrinse a guardare il gigante a cavallo, ma non riuscì a parlare.

«O lo fai tu o lo faccio fare a loro», disse Daimon, indicando con un cenno del capo i figli di Baphomet.

Parris si tormentò le mani. Guardò per un momento i due asesinos in piedi sotto il portico. Vince e Cecil non lo cacarono di striscio. Osservavano i fucili, le tuniche, i cavalli e tutto quello che c'era da guardare. Ma soprattutto osservavano Daimon. Vince non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. C'era qualcosa che lo attraeva e atterriva al tempo stesso. Quell'uomo esercitava un fascino perverso, che attirava tutte le persone malate. E Vince non era certo uno stinco di santo. Anche lui aveva stuprato la sua brava dose di donne. Per non parlare dei cristiani che aveva ammazzato.

«Come vuoi», disse Daimon e fece per sollevare una mano.

«Aspetta!» disse Parris.

Diamon ghignò e abbassò la mano. Tutto ingobbito, Parris andò di casa in casa, bussando e annunciandosi. Ogni famiglia uscì e, consigliata da Parris, si portò nei pressi del saloon. Quando tutti furono in fila come un gruppo di manigoldi pronti alla fucilazione, Daimon disse: «Le puttane.»

Parris lo fissò. «Pensavo che...»

«Non devi pensare, devi fare quello che ti dico. Le puttane.»

Parris lanciò un'occhiata al barista, che era rimasto sul portico a osservare il rastrellamento. L'uomo capì che era compito suo. Girò i tacchi e rientrò nel saloon. Nel silenzio generale, spezzato solo dai passi all'interno del locale e dal sommesso singhiozzare di qualcuno, si udì la voce della maitresse.

«Aveva detto che non le avrebbe prese! C'eri anche tu! Aveva detto...»

Daimon fece un gesto e due dei suoi smontarono da cavallo con una certa agilità. Sfilarono i fucili dalla guaina assicurata alla sella ed entrarono nel saloon, spediti. Chi era di fuori udì una gragnuola di tonfi, urla e alla fine uno sparo che risuonò come un colpo di cannone. Poi il silenzio. I figli di Baphomet uscirono e rimontarono a cavallo. Poco dopo uscirono le puttane, in lacrime. Qualcuna singhiozzava. Il barista le accompagnava, sospingendole con garbo verso la lunga fila di cristiani che ingombrava la Via Maestra. Non vedendo uscire la maitresse, Vince e Cecil capirono che s'era beccata la fucilata.

Daimon smontò da cavallo e la sua stazza era tale che il suo testone pelato superava quello del cavallo.

«Cristo, che bestia che è», mormorò Cecil.

Guardò Vince e si rese conto che Daimon lo superava in altezza e larghezza. Il ragazzo sollevò la testa per la prima volta e diede un'occhiata.

Puttana Eva, disse il dissidente, che non parlava da un po'. Quello sì che è un cristone.

«Cominciavo a pensare che fossi crepato», mormorò il ragazzo.

Cecil gli lanciò una breve occhiata e pensò: tutti i matti dell'est si sono dati appuntamento qui, stasera.

Non posso crepare, rispose il dissidente. La mia anima passa da un corpo all'altro come un tizio che trasloca, ma non va mai alla Radura o nell'Abisso.

Daimon si fermò dinanzi alla fila di poveri cristi dallo sguardo basso e le spalle flosce. Li passò in rassegna con solennità, camminando con le mani giunte dietro la schiena. Le falde della sua tunica sfioravano il terreno.

«E quando il corpo che ti ospita muore, tu che fine fai?» chiese il ragazzo.

Torno in quel cazzo di sasso e devo aspettare un altro pollo che arrivi a liberarmi.

Dopo una passeggiata avanti e indietro, Daimon si fermò dinanzi al gruppetto di puttane. Le osservò con attenzione e il suo sguardo indugiò su una in particolare. Il Re Diavolo gli parlò con la sua voce, che pareva quella di una capra che provasse a imitare la lingua degli uomini. Il sorriso di Daimon comparve come una tagliola prima nascosta sotto un tappeto folto di foglie. Allungò la mano e la chiuse su un braccio esile della puttana coi capelli rossi. Lei iniziò a piangere, poi a dimenarsi nel tentativo di sottrarsi alla presa e infine a urlare. Daimon le mollò uno schiaffone. Il palmo enorme calò sulla guancia della rossa con un enfatico ciaf! che risuonò limpido nella notte. La donna perse i sensi, Daimon l'acchiappò prima che cadesse e se la caricò in spalla senza apparente sforzo. Riuscì persino a montare a cavallo. Vince rimase impressionato dalla prova di forza.

Cecil abbassò il capo e, protetto dalla tesa, mormorò: «A quello gli dobbiamo infilare un badabum su per il culo per ammazzarlo.»

Vince non replicò. Era d'accordo con l'amico.

Senza dire una parola, Daimon girò il cavallo e fece a ritroso la Via Maestra. Il suo gregge di svitati lo seguì. I poveri cristi in fila non si mossero finché l'eco degli zoccoli non fu distante. Allora la fila si sciolse e ognuno tornò a casa sua nel più decoroso dei silenzi. Le puttane si avviarono al saloon. Vince e Cecil le videro entrare. Avevano il trucco sbavato e il volto pallido.

«Hai visto che artiglieria si portano dietro?» chiese Cecil all'amico.

«Ho visto», rispose Vince.

Parris, che era rimasto lì a guardare il gruppetto di svitati lasciare la città, si avvicinò ai due asesinos.

«Perché non avete fatto niente?» chiese.

«Che dovevamo fare?» disse Cecil.

«Provare a fermarli.»

«Hai visto che razza di cannoni c'avevano?»

«Manco tu mi pare hai fatto un cazzo, a parte cacarti addosso», disse Vince al reverendo.

«Io sono un uomo di fede», fece Parris.

«Bella scusa, ti aiuterà a dormire. Levati dal cazzo.»

Parris indugiò un attimo, una rimbeccata in bilico sulla punta della lingua, ma lo sguardo di Vince gli suggerì di ricacciarsela in gola. Girò allora i tacchi e camminò a passo spedito verso la chiesa. Svoltò in un vicolo e sparì.

«Che cazzo gliene frega a quello lì di una puttana?» chiese Cecil.

«Forse gli rode il culo che non è lui a fottersela» fece Vince, e si scollò dal muro.

«Dove vai?»

«A farmi un goccio. Da solo.»

Entrò nel saloon.

«Gli girano forte», fece il ragazzo.

Cecil si ficcò le mani in tasca. «Vince è fatto così.»

«Quell'energumeno l'ha messo in crisi, eh?»

«Nel senso?»

«Nel senso che è più grosso di lui. E più forte.»

«I muscoli non fermano le pallottole.»

«Ma la magia sì.»

«Che c'azzecca la magia?»

«C'azzecca, perché quel tizio tutto muscoli è infestato.»

«Infestato?»

«Ha qualcosa dentro. Probabilmente un demone.»

Cecil ripensò agli occhi di Daimon, al colorito della sua pelle, e chiese al ragazzo: «E tu che ne sai?»

«Perché anch'io ho qualcuno dentro», disse il ragazzo.

Un brivido gelido scosse Cecil da capo a piedi. Si forzò a non muoversi, ma aveva un gran desiderio di allontanarsi.

«Sei... infestato?» chiese al ragazzo.

«Il trucco con la sabbia te lo sei già scordato?» fece il ragazzo. «Non mi dire che non ti ha messo la pulce nell'orecchio. Pensavo che gli asesinos fossero più svegli.»

«E che cosa... chi ti infesta?»

Il ragazzo fece un mezzo sorriso. «Un Druido.»

La faccia di Cecil si trasformò in una maschera inespressiva. L'asesino si girò a guardare la Via Maestra.

«Se ti gira di prendermi per il culo, okay», disse, «ma almeno evita di spararle tanto grosse.»

«Non è una balla», disse il ragazzo.

«Se fossi infestato da un Druido non avresti bisogno di noi per far fuori quei fessi in cappuccio.»

«Hai ragione a metà, perché al momento quasi tutta la magia del mio passeggero è impegnata nella fusione, e sono pochi i giochi di prestigio che posso permettermi.»

«Fusione? E che sarebbe?»

«Mentre tu e io parliamo, la mia anima e quella del mio ospite si uniscono per diventare una cosa sola.»

Cecil continuò a fissare la Via Maestra. Le ombre dei fuochi danzavano. Si vedevano le tracce lasciate dai cavalli.

«E quindi mi stai dicendo che, mo' che finisce 'sta fusione, tu diventi potente come un Druido?» disse Cecil.

«Già», fece il ragazzo.

«E quand'è che finisce?»

«È questo il problema, si tratta di una cosa lunga.»

Cecil si staccò dal muro. «Vado a fare due passi», disse.

Il ragazzo rispose con uno dei suoi sorrisetti brevettati e lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava.

Dovevi proprio dirglielo? chiese il dissidente.

«Potevi fermarmi», fece il ragazzo.

Lo stavo per fare, poi ho visto la faccia che ha fatto.

«È diventato bianco come un osso.»

Come la tetta di quella puttana rossa.

Sghignazzarono entrambi.

Non pensavo di divertirmi così, disse il dissidente.

«E non siamo ancora fusi», fece il ragazzo.

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