* * *
«Cos'è, uno scherzo?» chiese il tizio seduto.
Con lui c'erano altri tre galantuomini. Uno era mulatto. Il tizio che aveva parlato era pallido come latte, aveva un paio di baffoni bianchi e sopracciglia sale e pepe.
«Nessuno scherzo, mi manca il senso dell'umorismo», disse la donna.
Vestiva come un uomo: spolverino, speroni, camicia e stivali. Guardava i tre giocatori e il malloppo al centro del tavolo: cinque bronzi grandi. Intorno alla grana, i ventagli di carte a faccia in giù.
«Per me va bene», fece un giocatore, quello che non era mulatto e aveva per naso un becco d'aquila.
Il tizio coi baffoni gli scoccò un'occhiata accigliata, poi si rivolse al mulatto. «A te sta bene?» Il mulatto rispose con un'alzata di spalle.
«Lo prendo per un sì», disse la donna.
Prese una sedia e scostò un lembo dello spolverino prima di accomodarsi. Quando lo sollevò, i tre giocatori videro le pistole che le pendevano dai fianchi.
«Aspetta, prima vogliamo vedere il dinero», disse Baffone.
La donna si cavò di tasca un discreto gruzzolo e lo fece piovere sul tavolo. Le monete tintinnarono e per un momento il suono di minuscole campanelle superò quello della musica.
«Bastano?» chiese.
Baffone non le rispose, ma le inviò un muto vaffanculo con gli occhi. Il suo gruzzolo era nulla in confronto a quello della sconosciuta.
«Questa ha più grana di tutti noi messi insieme», fece Becco d'Aquila.
«Chiudi quel forno», sibilò Baffone.
Il mulatto non parlò. Si limitò a guardare il gruzzolo e a chiedersi come facesse una donna ad avere tutta quella grana. Forse l'aveva ereditata dal marito defunto.
«Finiamo questo giro, poi puoi giocare», mormorò Baffone.
Aveva il tipico tono di chi vorrebbe mandarti a farti fottere ma non ha il coraggio di farlo.
I giocatori scoprirono le carte. Baffone aveva un tris, il mulatto una doppia coppia e Becco d'Aquila un full.
«Al diavolo», fece Baffone, mentre l'altro raccattava le monete.
Pigliò le carte e, mentre mormorava maledizioni in lingua franca, le mischiò col resto del mazzo.
«Puntate», disse, e tutti i giocatori misero un bronzo piccolo al centro.
Distribuì cinque carte ciascuno, studiò le proprie e attese che gli altri parlassero. Il mulatto batté due volte le nocche sul tavolo: il suo modo per dire che gli andava bene così. Becco d'Aquila chiese una carta e Baffone la fece scivolare sul tavolo. La sconosciuta ne chiese due e, quando Baffone gliele passò, pescò tre bronzi grandi dal proprio gruzzolo e li lanciò nel mezzo.
«Col cavolo», fece Becco d'Aquila.
Il mulatto raggruppò le carte prima disposte a ventaglio, le posò a faccia in giù e le spinse in là: scannatevi voi, io mi tiro fuori.
Rimase solo Baffone a guardare in cagnesco la sconosciuta.
«Per me non hai un cazzo», le disse.
La sconosciuta non disse niente e rilanciò. Baffone prese con rabbia le ultime monete a disposizione (tre bronzi grandi e due piccoli) e le buttò nel mucchio. La sconosciuta aggiunse i bronzi piccoli per mettersi in pari e disse: «Vediamo che hai.»
Baffone schiaffò le carte sul tavolo, a faccia in su, con rabbia e soddisfazione: aveva i Quattro Padri in fila.
«'rca troia», fece Becco d'Aquila.
«Hai perso», disse Baffone con un sorrisone a tutta bocca.
La sconosciuta gli mostrò le proprie: un Druido, un Hynafol, Quello Veramente Alto, un hen e un henoed componevano la Scala Somma.
«Caramba!» sbottò il mulatto.
«Miseria puttana...» mormorò Becco d'Aquila.
Baffone fissò incredulo l'infilata di carte della sconosciuta. Le labbra presero a tremargli.
«Peccato, avevi un bel punto», fece la sconosciuta, senza malanimo, e prese a raccattare la vincita.
Baffone sollevò un pugno e lo calò con rabbia sul tavolo.
«Hai barato!» urlò.
Diverse teste si girarono a guardare e la musica si interruppe. La ragazza che serviva ai tavoli si fermò. Le mulatte in cerca di un pollo da spennare smisero di chiocciare all'orecchio dei tizi che avevano abbordato e tutta la cantina convogliò la propria attenzione sul tavolo da gioco.
«Amico, datti una raffreddata», fece la sconosciuta.
«Hai barato, sporca putta...»
Non fece a tempo a finire che la mano sinistra della sconosciuta scivolò sotto lo spolverino e riemerse impugnando una pistola. Il movimento fu così rapido che Baffone si accorse dell'arma solo quando la sconosciuta gliela spianò sotto il naso. Allora si ammutolì e fissò terrorizzato la canna opaca.
La sconosciuta armò il cane.
«Dicevi?» chiese. Baffone mandò giù un piombo che gli ostruiva la trachea. «Mi è parso che stessi per chiamarmi in un certo modo.»
«Signora, Jim non voleva offenderla...» fece Becco d'Aquila.
«Sul serio? Perché a me pareva il contrario», disse la sconosciuta senza distogliere lo sguardo da Baffone–Jim.
«Si prenda la sua vincita e...»
«Ci puoi scommettere il tuo brutto becco che me la prendo.» Estrasse anche l'altra pistola e la puntò ai coglioni di Baffone–Jim. «E magari mi prendo pure qualcos'altro.»
Armò il cane della seconda sputafuoco e Baffone–Jim sussultò. Alzò le mani, mostrando i palmi alla sconosciuta. Con gli occhi le implorò di non sparare.
«Possibile che sei sempre in mezzo alle tarantelle?» disse una voce.
La sconosciuta si voltò e vide Meadow farsi largo tra i tavoli. Con lui c'erano Vince e un ragazzo.
«E tu che ci fai qui?» chiese la donna.
Sentì Baffone–Jim muoversi e affondò la canna puntata ai coglioni dell'uomo. Baffone–Jim si immobilizzò e guardò Becco d'Aquila, che gli fece segno di restare dov'era.
«Qual è il problema?» chiese Meadow, avvicinandosi. Poi vide il denaro sul tavolo e disse: «Ah, ecco.»
«'sto stronzo dice che sono una puttana e un baro», spiegò la donna.
Meadow guardò Baffone–Jim. «A Deisdre non piace quando le danno della puttana. Sei fortunato che non ti ha fatto saltare le palle.»
«Ci sto ancora pensando», fece Deisdre.
«Perché non molli 'sti sfigati e ti siedi con noi?»
«Devo prima sistemare questa faccenda.»
«Quei quattro spicci non valgono il bordello che stai facendo. Ho per le mani qualcosa di più sostanzioso.»
Deisdre lo fissò, poco convinta. Meadow sorrideva coi pollici infilati nel cinturone. L'asesina spostò lo sguardo su Vince e sul ragazzo.
«Ci stanno immezzo pure loro?»
Meadow le indicò un tavolo libero lì vicino. Deisdre arricciò il naso in una smorfia e rinfoderò le pistole. Baffone–Jim sbuffò sollevato e cadde pesantemente sulla sedia. L'asesina raccattò la vincita e prese posto con gli altri tre. Vedendo che il peggio era passato, i commensali ripresero a respirare e l'atmosfera nella cantina tornò alla sua originale convivialità. I tizi che stavano suonando ripresero a far musica e la gente a bere e a chiacchierare. Il terzetto al tavolo da gioco si sciolse senza una parola.
Meadow chiamò il tizio che serviva ai tavoli, un giovane mulatto che poteva avere sì e no venti primavere. Ordinò una bottiglia e quattro bicchieri.
«E di' a quei due di cambiare spartito», fece, spolliciando verso i musicisti. «Questa roba mi fa scendere la uallera nei calzini.»
«No», disse il ragazzo.
Il tono che usò fu perentorio, tanto che i tre asesinos e il mulatto lo fissarono.
«Mi piace questa canzone.»
Il mulatto guardò Meadow, che annuì, quindi andò via. Il ragazzo, che era seduto spalle ai musicisti, si voltò ad ascoltare con un braccio poggiato sullo schienale della seggiola. Deisdre lanciò un'occhiata a Meadow, che rispose con una smorfia che gli stirava un angolo della bocca.
«Che cos'è questo qualcosa di sostanzioso che hai per le mani?» chiese Deisdre.
Meadow guardò per un attimo il ragazzo. Fissava assorto i due musicisti. Sembrava ipnotizzato come i marmocchi di quella storia... quella del tizio col flauto magico.
«She came to me one morning...» cantavano i due musicisti piazzati su una misera pedana rialzata.
La melodia delle chitarre, indolente e strascicata, arrivava chiara anche a quelli seduti in fondo al locale. Il ragazzo era perso tra le note. Quella canzone aveva un che di familiare, che però non riuscì a mettere a fuoco subito. Poi, quando i due tizi intonarono insieme il ritornello, gli balzò alla mente come un gatto appostato nell'erba alta che salta sull'ignaro passerotto: era una delle canzoni che anche Bonedigger suonava.
«Aaaah... aaa-haaaaaaa... aaaa-haaa aaaa a-aaa-aaaaa...»
Le voci si mescolarono al ricordo del vecchio leone che suonava dinanzi a un fuoco da bivacco, e quella parte del ragazzo che non aveva ancora rinnegato la propria umanità versò una lacrima. E mentre il ragazzo ascoltava e ricordava, crogiolandosi in quel dolce dolore, Meadow spiegava a Deisdre la situazione. Quand'ebbe finito e lei chiese di vedere i soldi, Meadow non se la sentì di distogliere il ragazzo. Il ricordo di quel dito medio che si illuminava era ancora vivido, e rassicurò l'asesina che il denaro c'era ed era pure sufficiente a comprarsi una fattoria.
«Addirittura?» fece Deisdre.
«Vince te lo può confermare», disse Meadow.
Lei lo guardò e il gigante annuì. Deisdre si accorse che era distratto. Lanciava occhiate al ragazzo e pareva turbato. Anche Meadow faceva lo strano. Sembravano in soggezione. E siccome Deisdre conosceva bene Vince, e sapeva che non chinava la testa né si mozzava la lingua in presenza di chi che fosse, la cosa gli parve parecchio sospetta.
Che diavolo succede, qui? si chiese.
Meadow le aveva spiegato quello che dovevano fare e che la paga era buona, ma c'erano un paio di robe (più di un paio, a dire il vero) che a lei non erano chiare. Prima che Meadow o Vince avessero nozione di quello che accadeva, Deisdre si allungò verso il ragazzo e gli bussò sulla spalla. I due asesinos si irrigidirono.
Il ragazzo attese l'ultima nota della canzone, oramai agli sgoccioli, e si voltò. Deisdre notò che era infastidito, e per un momento gli sembrò più grande dell'età che dimostrava.
«Che hai deciso?» le chiese il ragazzo. «Lo vuoi 'sto lavoro?»
«Se la paga è quella che dice Meadow...»
«È quella.»
Deisdre tacque un momento. «Si può fare», disse infine.
Il ragazzo le porse la mano e lei gliela strinse.
«Adesso ci manca solo Cecil», fece Meadow.
«E i trikki trakki», disse Vince.
«Li possiamo rimediare qui intorno. Di sicuro c'è qualche maneggione.»
Arrivò da bere e i quattro si scolarono la bottiglia. Finito di bere si alzarono, e i tre maschi si avviarono verso l'uscita.
«Dobbiamo pagare», gli urlò dietro Deisdre.
«E a chi aspetti?» fece Meadow, senza girarsi.
Con una smorfia, Deisdre si cavò di tasca un paio di monete tra quelle che aveva vinto e le schiaffò sul tavolo. Li raggiunse di fuori e ringhiò: «Stronzi rottinculo, mi avete menato dentro.»
«Devi contribuire alla causa», fece Meadow, i pollici ficcati nel cinturone.
«E se contribuissi a sbiancarti il buco del culo con la punta dello stivale?»
«Bella questa, non l'avevo mai sentita.»
«Fermati un po' che ti aiuto a sentirla meglio.»
«Dove lo troviamo il vostro amico?» chiese il ragazzo con voce asettica.
Deisdre si accorse che sembrava di colpo più vecchio. La postura ingobbita gli conferiva più primavere e il volto era...
Deisdre strinse le palpebre. Era una sua impressione, o c'erano delle minuscole rughe agli angoli delle labbra? Rughe su un volto che non poteva avere più di sedici primavere.
«Vince», fece Meadow.
«Annuso un po' in giro», disse il bestione e si allontanò.
Il ragazzo girò i tacchi e andò a mettersi all'ombra. Quando si voltò verso la strada, le rughe agli angoli della bocca erano sparite e il suo volto era di nuovo liscio come il culo di un pupo. Deisdre sbatté le palpebre più volte, stranita. Guardò Meadow, per capire se anche lui avesse notato l'insolita trasformazione, ma l'altro stava fissando una tipa ferma sotto il portico di un grossista. La tipa incrociò lo sguardo dell'asesino e Meadow le lanciò un bacio. Lei si girò, nascondendo un sorriso molle.
«Torno subito», disse Meadow e raggiunse la ragazza.
Deisdre lo vide appoggiarsi a un legno del portico, incrociare le caviglie e provare a rimorchiarla. Sembrava un pavone intento a mostrare il piumaggio. A volte i maschi erano così patetici... Non che la ragazza fosse da meno. Si ravviava i capelli in continuazione e lanciava sguardi da pesce lesso a Meadow. E quando Meadow allungava una mano per carezzarla, prima lo lasciava fare e poi si tirava indietro. E, quando lui ci riprovava, lo allontanava. Erano patetici entrambi, altroché.
Deisdre decise di ignorarli e raggiunse il ragazzo che attendeva all'ombra, nello spazio tra due edifici. Si posizionò sulla parete opposta a quella occupata da lui, cercò nella tasca dello spolverino e prese due sigarillos. Ne offrì uno al ragazzo, che sfarfallò una mano.
«Non fumi?» chiese Deisdre, tanto per dire qualcosa.
«Mi pare una stronzata», fece il ragazzo.
Deisdre si accorse per la prima volta che aveva una voce roca. Era così roca anche quando avevano parlato prima? Non le sembrava, ma forse la musica e il chiacchiericcio nel locale l'avevano distratta da quel particolare.
«Mi sa che non hai tutti i torti», fece Deisdre.
Il ragazzo la guardò mentre posava il sigarillo che lui aveva rifiutato, recuperava un fiammifero dalle tasche e accendeva il proprio.
Mica male, la pollastra, disse il dissidente.
«In effetti non è male», fece il ragazzo.
Deisdre sollevò lo sguardo. «Che hai detto?» chiese mentre spegneva il fiammifero, agitandolo.
«Niente», rispose il ragazzo e si voltò a rimirare quello che accadeva sulla via.
Attesero il ritorno di Vince, che ci impiegò una buona mezz'ora. Quando Deisdre lo vide, uscì dall'ombra e gli fece un cenno. Il gigante si infilò nel vicolo e chiese: «Dov'è quell'altro sfessato?»
Deisdre glielo indicò. Vince si girò e vide Meadow che passava un braccio intorno alla vita di una ragazza e la attirava a sé. Lei lo lasciò fare e, quando lui provò a baciarla, lo spinse via.
Vince grugnì divertito. «Che pollastro. Quella lo sta acchiappando all'amo come un merluzzo.»
«L'hai trovato?» chiese Deisdre
Vince annuì. «Stava entrando in un bordello con un mazzo di fiori.»
Deisdre ridacchiò. «Che mentecatto», disse, scuotendo la testa.
«L'ho intercettato prima che entrasse e gli ho detto di aspettarci lì», fece Vince.
Deisdre buttò il mozzicone, che rotolò accanto al primo. Nell'attesa si era fumata un altro sigarillo.
«Vado a prendere il nostro spacciacuori», disse e uscì dal vicolo.
«Adesso ci divertiamo», disse Vince al ragazzo, e incrociò le braccia sul petto.
Videro Deisdre raggiungere Meadow, prenderlo per un orecchio e trascinarlo via. Gli stava anche dicendo qualcosa, ma da quella distanza non poterono sentirla. Meadow le afferrò il polso, Deisdre mollò l'orecchio e con una mossa fulminea gli torse un braccio dietro la schiena, quindi lo spintonò verso il vicolo dove stavano Vince e il ragazzo. Vince ridacchiò.
«La signora è una tosta», fece il ragazzo.
«Altroché», disse Vince. «Ma non farti sentire che la chiami signora. È capace di sgozzarti mentre dormi.»
Deisdre e Meadow parlavano in strada mentre la gente gli passava accanto, li degnava di un'occhiata incuriosita e proseguiva. Meadow si sbracciava e sembrava parecchio incavolato.
«Meglio che andiamo a recuperarli, prima che si ammazzino», fece Vince.
Uscirono dal vicolo e li raggiunsero.
«Stavo per quagliare!» sbraitava Meadow.
«Come no, era pazza di te», rispose Deisdre.
«Bambini, piantatela di starnazzare», fece Vince.
La sua ombra, grande quasi quanto lui, strisciò nello spazio che divideva i due asesinos. Deisdre e Meadow si guardarono in cagnesco una volta ancora, poi Meadow girò i tacchi e risalì la strada nella direzione dalla quale Vince era venuto.
«Cazzone», mormorò Deisdre.
«Meno male che la ciurma è unita, eh?» fece Vince.
Deisdre lo mandò a fanculo con un'occhiata e seguì Meadow.
«Non preoccuparti», disse Vince al ragazzo, «sono tarantelle senza strascichi. Quando ci mettiamo all'opera, siamo gelidi come gli zigul su a Nord.»
«Lo spero», disse il ragazzo, e si mise sulle tracce degli altri due.
Vince lo guardò trascinarsi con passo molle, quindi lo seguì.
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