* * *
... strada si allungava come la lingua mozzata di un gigante. Ancora si intravedevano le strisce continue: due fantasmi che viaggiavano in parallelo. E da lontano si intravedevano piccoli fuochi. La distanza li rendeva piccoli come fiammelle sulla capocchia di un cerino.
«Ci siamo», fece il vagabondo.
I Teihiihan mormorano eccitati. Annusarono l'aria, e l'odore che percepirono fece gorgogliare più di uno stomaco.
«Puoi portarci lì?» chiese il Teihiihan bitorzoluto.
«Amico, non sono mica una funicolare. E poi il trasferimento di poco fa mi ha spompato. Se volete mangiare, muovete quelle gambette del cazzo», fece il vagabondo.
Accelerò il passo e i Teihiihan fecero lo stesso. Purtroppo non avevano una gran falcata e il loro tentativo di stare al passo risultò comico. Ogni tanto il vagabondo si voltava per vederli sgambettare, oscillando come l'albero maestro di una nave sorpresa dalla tempesta. Qualcuno aveva una gamba più corta dell'altra, e la zoppia era accentuata dalla malformazione. La cosa lo riempiva di allegria. Guardarli arrancare era una gioia per gli occhi e per l'umore. Si accorse che in quel campo profughi improvvisato c'era fermento. Sentiva le voci lontane degli sfollati. Quando un paio di fuochi si spensero, decise di accelerare il passo, lasciando indietro i nanerottoli. Ad aspettarli c'era il rischio di mandare tutto a carte quarantotto.
Un altro fuoco si spense, e allora si mise a correre. Ridusse rapidamente la distanza. Era ormai vicino, e vedeva i profughi radunare rapidamente le proprie cose, pronti a spostarsi. Si lasciò alle spalle un paio di ceppi che l'ombra del leone non aveva sradicato e irruppe nel campo profughi.
«Saaaaaaalveeeeeeee!» urlò.
Tutti interruppero quello che stavano facendo e si voltarono. Le donne sobbalzarono. I bambini lo guardarono, incuriositi e spaventati al tempo stesso. Gli uomini avevano un'espressione indecifrabile.
«Mica andate via? Voglio presentarvi alcuni amici. Stanno arrivando. Ci mettono un po' perché hanno il culo talmente basso che tocca terra e li rallenta.»
«E tu chi diavolo sei?» chiese un tizio barbuto.
«Potete chiamarmi zietto o furbetto, potete chiamarmi papà o pascià, ma quello che sono neanche il Buon Padre lo sa», cantilenò il vagabondo.
Allargò le braccia e aprì le labbra in un sorriso clownesco. Un bambino scoppiò a piangere. La cosa mandò in sollucchero il vagabondo. L'odore della paura cominciò a salire.
«Sei fuso o cosa?» chiese il barbuto.
«Forse un pochino. Ma bando alle ciance e ciancio alle bande: diamo inizio alla festa.»
«Festa? Amico, qui stiamo smontando la baracca. Hai visto che è successo un secondo fa?» E poi, come se si fosse accorto solo in quel momento che quel tizio strambo arrivava proprio dall'occhio del ciclone: «Tu vieni da lì. Che è successo? E com'è che non sei volato via appresso agli alberi?»
Il vagabondo sogghignò perfidamente. «Adesso te lo spiego.»
Le sue mani si tinsero d'arancio, lo stesso colore dei fuochi che danzavano nel campo.
«Le tue mani...», fece il barbuto. «Che cosa...?»
Non ebbe tempo di completare il pensiero. Il vagabondo prese a sparare folgori in tutto il campo. Le donne urlarono, presero in braccio i marmocchi e corsero via. Un fulmine arancione passò sotto le gambe del tizio barbuto, fece esplodere un piccolo geyser di terra e scavò una buca. Il tizio guardò il vagabondo, che gli restituì un sorriso demoniaco. Poi una folgore tagliò in due la testa dell'uomo. Il cranio si aprì, pezzi di cervello colarono fuori come piccole spugne imbevute e l'uomo crollò sulle ginocchia. Le urla nel campo si moltiplicarono. Il vagabondo si sentiva come un bambino alle giostre. La paura lo raggiungeva a secchiate.
Un uomo impugnò il fucile, prese la mira e sparò. Il proiettile passò a un niente dalla tempia del vagabondo.
«Peccato, c'eri quasi», fece il vagabondo e gli lanciò addosso una folgore.
L'uomo prese a tremare come in preda a un attacco epilettico. Il dito che stava sul grilletto si contorse e fece partire una schioppettata che colpì e ridusse in pezzi la rotula di un tizio che se la dava a gambe. L'uomo col fucile cambiò colore. La carne cominciò a cuocersi, diventando nera ed emanando un odore dolciastro e nauseante. Crollò a terra e la folgore si esaurì. Il tizio sussultò una volta ancora e giacque inerte. Il vagabondo si guardò intorno e vide che la situazione era fuori controllo. Tutti i bocconi più prelibati correvano via alla velocità con cui una sciolta percorra il colon di un grassone. Se non interveniva in fretta, i nanerottoli non avrebbero beccato che pochi bocconi, metà dei quali bruciacchiati.
Pronunciò poche parole in una lingua gutturale mentre la sua mano disegnava un arco. Un tizio che correva si schiantò contro qualcosa di invisibile. Il suo naso fece crack! e lui rimbalzò indietro, finendo con le chiappe a terra. Stessa cosa successe a una donna che correva con il suo bambino stretto al petto. Si schiantò contro lo stesso muro invisibile e rimbalzò a terra. Per la sorpresa lasciò andare il bambino, che le cadde in grembo e iniziò a piangere.
«Adesso ce ne stiamo tutti buoni, ad aspettare i miei compari dal culo basso», fece il vagabondo.
Un tizio si avvicinò al punto dove l'uomo col naso rotto s'era schiantato. Esaminò una macchiolina bruna sospesa per aria, nel punto in cui l'uomo aveva sbattuto il grugno. La toccò e sentì sotto le dita qualcosa di granitico: una forma curva come quella di una cupola della Villa di Aramundi.
Il vagabondo sedette coi gomiti posati a terra, le gambe distese e le caviglie incrociate. Il fuggi fuggi si era interrotto bruscamente. I bambini piangevano. Le mamme cercavano di calmarli senza distogliere lo sguardo dal vagabondo, che disteso rimirava le stelle. La volta celeste, così piena di diamanti, gli ricordò quella volta che...
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