* * *

... gli risuonò in testa la voce

(gnoccolone)

di Bonedigger e spalancò gli occhi. L'illusione era così ben concepita che il ragazzo si voltò, convinto di trovarselo accanto, che ghignava come la vecchia lenza navigata che era. Ma a riempire l'altra metà del letto non c'era nessuno. La realtà gli piombò addosso come un maglio. Bonedigger era morto, andato, caput. L'aveva visto mentre precipitava...

Scrollò la testa con rabbia, come per scacciare il ricordo. Non voleva pensarci. Pensarci faceva male.

Il ricordo cambiò prospettiva e virò sulla creatura: quell'enorme lumacone con dozzine di bocche e tentacoli occhiuti che si agitavano in una danza folle. Il pensiero di cosa gli avrebbe fatto, quando avesse ottenuto il potere necessario a distruggerlo, gli accendeva il ventre come un falò. Mentre vegliava sul suo scomodo e polveroso giaciglio, fissando il soffitto bucherellato della baracca, rievocò la scena che da tempo infestava la sua mente: giungeva a Spassolandia e squarciava in due il lumacone. A volte lo uccideva rapidamente, pronunciando un incantesimo che lo faceva gonfiare a dismisura. Gli occhietti scuri facevano capolino dalle carni gonfie e unte di bava, e per un attimo vedeva autentico terrore luccicare sul fondo di quelle uvette fuori misura. Poi il lumacone ruggiva dolorante ed esplodeva in una pioggia di viscere e liquami puzzolenti. Ed era soddisfacente. Ma ancor di più lo era ucciderlo lentamente, portandolo al punto massimo di resistenza e poi lasciandolo sgonfiare, così da ripetere quella tortura all'infinito.

Il ragazzo si baloccò al pensiero del lumacone che lo fissava terrorizzato e si agitava in preda a spasmi dolorosi. Una cosa che gli avrebbe provocato intensa soddisfazione sarebbe stata strappargli i tentacoli uno per uno, come le zampe a un ragno. Difficile, visto che quel mostro era alto come uno degli alti palazzi dell'Ultima Città di Pietra.

Dovrei essere alto come un gigante, si disse.

Si chiese se esistesse un incantesimo in grado di farlo crescere in statura fino a diventare grande e grosso come il tizio intagliato nel fianco della Montagna Salata. E se magari avesse avuto lo stesso potere...

«Il potere di un Sidhe», mormorò all'occhio lunare che riempiva uno dei buchi nel soffitto.

Peccato che non lo vendessero un tanto al chilo. Bonedigger gli aveva parlato del Sidhe conosciuto come Quello Veramente Alto, apparso dalla nebbia di un giorno uggioso nell'Entro-Terra. Il vecchio leone gli aveva detto di non fare troppo affidamento alla questione della mistica comparsa, ma di badare solo ai fatti. E i fatti erano che i Sidhe esistevano, erano potenti oltre ogni immaginazione e votati al bene.

L'unico fatto che lampeggiava in quel momento nella mente del ragazzo era l'enorme potere di cui erano dotati. Una magia che prendeva le mosse da quella antica dei Druidi, anche se non era ugualmente pura né altrettanto potente. C'era stato qualcosa che aveva cambiato le carte in tavola, ma Bonedigger non aveva avuto modo di completare quella lezione. O forse non credeva fosse importante. Ad ogni modo, il ragazzo aveva le idee chiare in proposito a quello che avrebbe dovuto fare: passare dalla teoria alla pratica. Conosceva quanto c'era da sapere sulla magia (le menate di Bonedigger erano state esaurienti), ma non aveva mai avuto un'esperienza diretta. E l'unico modo per avercela, quell'esperienza, era recarsi lì dove tutto era cominciato. La risposta che cercava, ne era ormai sicuro, si trovava lì, nel cuore della Foresta Alta.

Si girò su un fianco e trovò che il lato sinistro del cuscino era umido. Doveva aver pianto di nuovo nel sonno. Gli capitava spesso, anche se era passato un po' da...

Frenò il ricordo, costruendogli intorno una gabbia. Chissà perché di notte gli piombava addosso come un avvoltoio sulla preda macilenta. Era come se le tenebre spalancassero le vecchie ferite dell'anima e invitassero il dolore a entrare. Gli era successo spesso, in quelle ultime settimane di solitario vagabondaggio. Solitario e utile. Stava imparando un fracco di cose da quando viaggiava da solo.

Si sollevò a sedere e mise i piedi in terra. Ormai non aveva più sonno. Si alzò e uscì fuori. L'aria fresca era rinfrancante dopo la puzza persistente di vecchiume della baracca. Si guardò intorno. La città aveva l'aspetto di un pugile suonato. Era spettrale, ma non c'erano residui di anime irrisolte a infestarla. Una brezza leggera si alzò portando con sé piccoli mulinelli di sabbia.

«Gnoccolone.»

Si voltò, rapido come una saetta, ed estrasse la sputafuoco dalla cinta.

«Chi c'è?» disse, odiandosi per il tremito fuggevole nella voce.

Nessuno rispose, ma

(qualcosa)

qualcuno gli alitò sulla nuca. Il ragazzo fece un salto, si girò e sparò due colpi. Una nebbia grigia si dissolse. Poco prima che si scomponesse in tanti batuffoli, gli parve di vedere una sagoma con due spalle ampie e un ghigno che aveva un che di familiare.

«Lascia perdere.»

«Chi c'è?» chiese ancora.

Lanciò occhiate all'intorno. I battenti del decrepito saloon oscillarono, indolenti e con un sinistro cigolio. Iniziò a pensare di aver giudicato male quel posto. Ma com'era possibile? Se fosse stato infestato se ne sarebbe accorto. Valanghe di sensazioni medianiche l'avrebbero invaso non appena varcato il piccolo arco semidistrutto.

«Quello che è perso non può essere ritrovato. Non stavolta.»

Corse nella baracca, raccattò velocemente quelle quattro cose che aveva sparpagliato sul pavimento e le ficcò nel nuovo zaino che si era procurato. Uscì con la pistola nella destra e lo zaino nella sinistra, e una nebbia lo avvolse come un sudario. Un gelo artico gli si insinuò nelle ossa. Vedeva il respiro condensarsi in piccole nuvolette. Mollò lo zaino e si circondò le spalle con le braccia, come se servisse a qualcosa. Iniziò a battere i denti e la voce del vecchio leone gli rimbombò in testa.

«Non è questo che ti ho insegnato.»

Smise di battere i denti e per un istante dimenticò il freddo.

«Mai prendere decisioni quando rabbia, felicità o desiderio compromettono il tuo discernimento.»

«Sei davvero tu?» mormorò il ragazzo.

«Ricordi questa lezione?» incalzò la voce.

Il ragazzo annuì. Poi, non sapendo se l'altro potesse vederlo, disse: «Sì.»

«Non si direbbe.»

E il tono deluso fece star male il ragazzo. Gli ricordò che c'erano verità che pensava di aver assimilato e che invece continuavano a sfuggirgli. Gli ricordò che la strada per diventare adulto, la strada verso la saggezza, quella stessa saggezza che il suo maestro possedeva, era lunga e infida.

«Molla», disse la voce. «Gira i tacchi e vai dove la luce è più forte. Quello che stai percorrendo è un sentiero insidioso, che ti porterà a sofferenze più grandi. Io lo so, perché...»

Una massa scura come una nube temporalesca bucò la nebbia. Il ragazzo la vide gonfiarsi e assumere fattezze umane: spalle, busto, gambe, braccia e una testa. Crebbe rapidamente e, quando divenne alta come un campanile, due labbra sottili e pallide come schegge di ghiaccio comparvero nell'ovale del volto.

«Non c'è dignità nel perdono», disse il nuovo arrivato. «Non ce n'è nell'arrendevolezza. Se vuoi trovare la pace che tanto desideri, abbandona i vecchi precetti e percorri altri sentieri.»

Si chinò come per condividere un segreto col ragazzo.

«La vendetta ti renderà libero», mormorò.

Poi cominciò a girare su stesso, perdendo gradualmente le fattezze umane, trasformandosi in un vortice nero che ingoiò la nebbia nella sua frenetica rotazione e schizzando infine verso l'alto. Il fenomeno durò poco e, quando terminò, il ragazzo si ritrovò a guardare le stelle che ammiccavano dai loro altari celesti. Il freddo, la nebbia, le voci e il tizio alto come un campanile erano spariti. Solo un'eco lontana resisteva: una voce che risuonava nella mente del ragazzo, sotto lo strato della coscienza, e che gli mormorava robe difficili da decifrare.

Il ragazzo fissò il cielo. Si chiese che diavolo fosse successo e se non avesse camminato nel sonno per poi svegliarsi di fuori, convinto di aver vissuto qualcosa che aveva solo sognato. Sentiva la testa leggera e le cosce pesanti. Forse era sonnambulo. Certo che sembrava tutto così reale...

Prima di mettere piede nella baracca si voltò a guardare i battenti del decrepito saloon. Si aspettava di vederli muoversi, anche se in quel momento non tirava un filo di vento, ma non sapeva da dove derivasse quella convinzione.

A forza di vegliare stai perdendo la brocca, si disse.

Nelle ultime settimane aveva dormito a singhiozzi e pianto un fracco. C'erano state un paio di volte che aveva pensato di morire sotto il peso che gli gravava sul petto. Bonedigger conosceva il suo punto debole: l'emotività. Il ragazzo, dal canto suo, non aveva nozione di quel limite, perché non aveva ancora imparato a guardarsi dentro con la giusta consapevolezza. La giovane età e l'assenza di una guida non lo aiutavano certo, e aumentavano il rischio che si perdesse negli intricati sentieri dell'animo.

Si mise a letto, e il ricordo delle conversazioni nella nebbia si affievolì. Gli restò solo la convinzione che l'Est fosse la direzione giusta e la Regione Verde la meta da raggiungere. Lì, dove la magia era nata, avrebbe trovato

(la pace a lungo desiderata)

quel che cercava.

Si assopì lentamente e sognò. Era a Spassolandia e con lui c'era Bonedigger. Il vecchio leone si allontanava un attimo per un bisognino e gli diceva di proseguire. Le tazze giravano e la musica suonava, e tutto sommato era divertente. Di certo più del giro nella casa stregata. Lo vedeva da lontano, che metteva fuori la testa dal cespuglio. Mentre camminava sembrava gasato come una Sprite, come se avesse in tasca l'idea del secolo o avesse scoperto il senso della vita durante il suo bisognino. Era a pochi metri dalla pensilina, quando la terra tremava e la strada sussultava. La casa stregata si spaccava e nell'esplosione volavano legni e vetri. La gigantesca e flaccida creatura emergeva come un incubo danzante. Si agitava, ruggiva, apriva bocche e snudava tentacoli. Un tentacolo si allungava e prendeva Bonedigger. Il vecchio leone gli rivolgeva un ultimo sguardo e in quell'istante sembrava sorpreso come uno beccato a menarsi l'attrezzo. Poi il tentacolo lo tirava su e la visuale del sogno cambiava.

Mentre un secondo prima era sotto la pensilina, ora si trovava in strada. Il flaccido e unto lumacone era sulla collina, che agitava il posteriore unto di bava sulle macerie della casa. Sollevava Bonedigger e lo lasciava andare. Il vecchio leone, una bambolina nera che si stagliava su uno sfondo celeste, cadeva in un frullare di braccia e gambe, e l'eco del suo terrore si perdeva tra i grugniti di gioia della creatura. Poi il lumacone si accorgeva di lui e non c'era più tempo per nulla se non per la fuga.

Le ali ai piedi e la folle corsa.

La promessa.

E mentre era seduto in strada, sui solchi del tram, un'ombra lo copriva. Lui alzava la testa, convinto per un secondo che davanti a lui ci fosse Bonedigger, che in qualche modo era riuscito a scampare al lumacone, e invece si trovava davanti una sagoma alta e nera. Era come un'ombra, gemella di quella che lo accompagnava, e sembrava fatto di pece. Non aveva tratti somatici: era una forma che Dio aveva scordato di agghindare. Era lo stampo di un progetto incompiuto.

«Non è piacevole sentirsi impotenti, eh?» dice il tizio e, sebbene non abbia labbra, il ragazzo sa che è lui a parlare. «Io posso aiutarti ad ottenere più potere. Un potere che neanche ti immagini, che ti permetterebbe di fare a pezzi cento di quelle bestiacce in un colpo solo.»

Il ragazzo non sa che dire, e l'unica cosa che riesce a fare è continuare a fissare quel tizio alto e nero e senza faccia. Neanche si accorge che il sogno sta prendendo una piega diversa. Inizia a sospettare qualcosa quando sente la terra comincia a vibrare. Allora si volta e vede il lumacone strisciare lungo la Via Maestra di Spassolandia. La mole di carne si agita, i tentacoli frustano l'aria e una striscia di bava si allunga alle sue spalle.

«Giusto in tempo», fa il tizio nero. «Sta' a guardare.»

Si posiziona a protezione del ragazzo, che vorrebbe alzarsi e fuggire, ma è paralizzato dall'orrore. Il lumacone striscia veloce, con le bocche che si aprono e chiudono come tenaglie, ed ecco che il tizio alto solleva un poco il braccio che gli pende lungo il fianco. Un alone nero gli cinge la mano, riempie i vuoti tra le dita, sfrigola disseminando scintille scure ai piedi del tizio, e qualcosa di simile a un fulmine nero schizza dalla mano aperta verso il lumacone. Lo prende in pieno e il bestione urla come un suino assassinato. Si agita mentre il fulmine lo consuma e brucia le carni unte di bava.

«Lo vuoi un potere così?» chiede il tizio alto e nero, girando un pochino la testa di lato.

E il ragazzo vorrebbe rispondere: «Sì!», urlarlo a pieni polmoni, ma è ipnotizzato dallo spettacolo del lumacone che brucia. Sta cuocendo come una chianina la notte di fin de año. Piccole colonne di fumo si alzano dal corpaccione molliccio e informe. La pelle, che prima era di un rosa chiaro, ora va scurendosi come quella di un maialino arrosto.

«Allora, lo vuoi o no? Ultima occasione.»

E stavolta il ragazzo urla il suo «Sì!», e continua a urlarlo mentre una gioia selvaggia si impadronisce di lui e il lumacone frigge nel mezzo della via. Poi il tizio alto rilassa il braccio e il fulmine si dissolve. Il lumacone smette di friggere e fa dietrofront, fuggendo con la grazia di un ciccione senza gambe.

Il ragazzo punta il dito e urla: «Sta scappando!»

«Lo farai fuori tu, a tempo debito. Non voglio schizzarti il gioco», risponde il tizio alto, girandosi. «Quando sarai nella Regione Verde, cerca il deml.»

Il ragazzo fa per chiedergli cosa sia un deml, ma lo spilungone non gli lascia modo di articolare.

«Nel cuore della foresta, lì dove Madre Natura s'inchina, s'erge la dimora dei Druidi.»

Il ragazzo guarda in alto, perché ha come l'impressione che stia calando la notte. Il cielo è limpido e il Sole scintilla come una moneta dorata, eppure...

«Lì dove riposa l'antica magia, la...» segue una parola che il ragazzo non sa decifrare, «... che gli spiriti elementali proteggono con le loro mistiche illusioni.»

Non sta calando la notte. È più come se il

(sogno)

giorno vada spegnendosi. Come se qualcuno dall'alto lo copra con un sottile panneggio.

«Entra nel cerchio e lasciati guidare dalle forze che lo abitano.»

Il giorno si spegne e la vista del ragazzo si offusca.

Sto diventando cieco, pensa, un secondo prima che le tenebre l'avvolgano.

Aprì gli occhi. Era mattino e la baracca era ancora in piedi. Avrebbe scommesso il contrario. Si alzò a sedere, stropicciandosi gli occhi, e controllò distrattamente il cuscino. Era umido, si vedeva la chiazza sulla federa vecchia e logora, eppure non si sentiva triste nonostante avesse pianto nel sonno. Non troppo, almeno. Sotto la patina di dolore vegliava qualcosa. Qualcosa che aveva il sapore di...

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