* * *

... si inoltrarono su per la ripida gobba rocciosa. Camminavano da qualcosa come mezza giornata. Avevano fatto un paio di soste, abbastanza lunghe da riprendere fiato e dare agio alle vesciche di sgonfiarsi. Almeno un po'. Poi, quando il tramonto aveva trasformato il cielo in una fornace ardente, si erano rimessi in viaggio con l'obiettivo ultimo di raggiungere quella lontana gobba della quale già intravedevano la sommità. Bonedigger diceva che da lassù avrebbero visto una Luna maestosa. Al ragazzo piaceva quando il vecchio leone usava certe parole. Erano come petardi. Il ragazzo le sentiva esplodere in testa e in un certo qual modo gli schiarivano il cervello.

«Vedrai che roba», gli disse Bonedigger mentre salivano. «Meglio di un Drive-In.»

«Cos'è... un... Drive-In?» fece il ragazzo, prendendo fiato tra una parola e l'altra.

Bonedigger si voltò. La chitarra che portava a tracolla girò con lui e il tramonto si rifletté sul battipenna e sul corpo di legno chiaro.

«Hai il fiatone, vuoi riposarti qualche minuto?»

«Ce la faccio», lo rassicurò il ragazzo.

Bonedigger gli mostrò il suo sorrisetto da vecchia lenza.

«Bravo ragazzo», disse, e l'orgoglio che ci mise dentro riempì di gioia il ragazzo.

Ripresero a camminare.

«Un Drive-In è un posto dove i tizi vanno a guardare un film», spiegò. «E un film è come un racconto che piglia vita. Hai presente quando fai un sogno o ti immagini la storia che uno ti sta raccontando, con tutti gli annessi e connessi?»

Il ragazzo annuì, poi si rese conto che l'altro non poteva vederlo e disse: «Mh-hm.»

«Stessa cosa. Ti piazzi lì, davanti a una specie di lenzuolo alto e largo come la chiappa di un gigante...» Al ragazzo scappò da sorridere. «... e c'è un affare che ci schiaffa sopra le immagini. Tu ti piazzi lì davanti con la tua auto, o col tuo pick-up, o col cazzo che ti pare – una volta ho visto uno con un trattore – e c'è una colonnina accanto a te dalla quale escono le conversazioni che quelli sul lenzuolo si dicono...»

Il ragazzo non capiva un'acca di quello che Bonedigger gli stava dicendo, e aveva il lieve sospetto che il vecchio leone lo stesse pigliando per il culo, ma gli piaceva ascoltarlo. Quando attaccava a raccontare, ti pigliava a genio di sentire tutta la storia. Non sapeva cosa fosse a piacergli di più, se il modo che aveva di raccontare o la sequenza di immagini strambe che gli si formavano in testa mentre lui parlava, fatto sta che l'avrebbe ascoltato per ore senza mai annoiarsi.

«Qualcuno non ci andava per il film, ma per fare altro», disse Bonedigger.

Sollevò un pugno lasco, ci infilò dentro l'indice e impresse al pugno un movimento a stantuffo. Il ragazzo scoppiò a ridere. Bonedigger sorrise con lui. La risata del ragazzo lo metteva sempre di buon umore.

«Allora erano dei bordelli», disse il ragazzo.

«No, perché in un bordello scegli la ragazza che ti piace e poi la devi pagare. Se vai al Drive-In, la pupa te la porti da casa... nel senso che la vai a prendere a casa... a casa sua, della tipa, e poi non la paghi dopo il servizietto.»

Evitò una crepa abbastanza grande da inghiottire la sua Timberland e un pezzo della caviglia. Si voltò un secondo per indicarla al ragazzo, che annuì e ci passò intorno.

«In realtà non è che non cacciavi un soldo e non è che quella ti faceva un servizietto per il gusto di fartelo. Nessuno fa niente per niente. Ci sono però le tipe che si accontentano, che Dio le benedica. E se la tua tipa si accontentava, il servizietto ti costava il prezzo del biglietto, un bidone di pop-corn, una Fanta...»

«Una che?»

«Una roba piena di zucchero che sa di arancia. Dicevo, una Fanta o una Coca – che è tipo la sorella negra della Fanta – e cinque dollari di benzina, che è consigliabile mettere prima di andare a prendere la tipa, se non vuoi che quella ti pensi spilorcio... che poi è quello che sei, se la porti al Drive-In invece che al ristorante.»

«E tu ci sei mai andato?»

«Al Drive-In? Un paio di volte.» Fece una pausa: «Più di un paio.» Altra pausa. «Vuoi sapere quante?»

«A-ha», fece il ragazzo, sganciando la borraccia dallo zaino.

«La prima volta avevo i brufoli. Dopo l'ultimo servizietto avevo la barba, e i brufoli erano spariti.»

Il ragazzo, che stava bevendo, spruzzò un fiotto di acqua tiepida. Il resto gli andò di traverso, facendolo tossire di brutto. Bonedigger si voltò con un sorrisetto che gli tirava l'angolo destro della bocca. Anche il ragazzo sorrideva mentre tossiva.

«Fermiamoci un secondo», disse Bonedigger. «Se schiatti mi sentirò in colpa.»

Il ragazzo fece un gesto con la mano, tossì ancora e sputò in terra un grumo di saliva.

«Ce la faccio», disse. «Dammi solo un secondo.»

«Te ne do quanti ne vuoi, gnoccolone

Il ragazzo tossì ancora. Il fantasma di un sorriso gli tese le labbra.

«Così non mi aiuti», disse.

«Sai come si dice: aiutati che il Buon Padre ti aiuta», fece Bonedigger.

«Non l'avevo mai sentita.»

«Adesso l'hai sentita.» Diede al ragazzo un buffetto dietro la nuca. «Muoviamo le chiappe, mi sta crescendo il muschio sulle scarpe.»

Il ragazzo tappò la borraccia e la mise nello zaino, poi seguì Bonedigger.

«Ci siamo quasi, vedo la cima.»

«Era ora», fece il ragazzo, e subito si pentì di averlo detto.

Non voleva che Bonedigger lo pensasse uno scansafatiche.

Il vecchio leone non diede segno di essersela presa, tutt'altro. Gli sarebbe anzi parso strano se il ragazzo non avesse accennato neanche un lamento. Era forte, e aveva una resistenza fuori del comune per uno senza peli sul viso e una spruzzata accennata sulle palle, ma era pur sempre un ragazzo.

«Ora che siamo su», fece Bonedigger, «ti faccio sentire la mia ultima hit.»

Il ragazzo non era del tutto abituato a quel frasario, anche se ormai girovagavano insieme da un pezzo, e ci mise un secondo a capire di che parlava. E quando lo capì, si lasciò sfuggire un verso disperato. Bonedigger abbaiò divertito. Era la reazione che si era aspettato.

«Ti sto prendendo per il culo, gnoccolone. Ci sediamo e facciamo fuori metà delle provviste. Mi ci voglio sbronzare, su quel cazzo di collina.»

Non era un'idea malvagia, pensò il ragazzo. Dopotutto erano quasi arrivati. Bonedigger gli aveva assicurato che da lassù avrebbero visto Spassolandia. In realtà l'aveva chiamata in un altro modo, ma il ragazzo faticava a ricordarlo e allora la chiamava Spassolandia, che tanto racchiudeva il senso di quello che era quel posto.

Fecero un ultimo tratto di ripida salita. Erano entrambi a corto di fiato e la fatica c'entrava fino a un certo punto. L'aria lassù era più rarefatta. Bonedigger insisteva a chiamarla collina, ma era la cima di una cresta che componeva quella spina dorsale montuosa.

Il vecchio leone fu il primo a conquistare la vetta. Si voltò e allungò una mano verso il ragazzo, che gliela schiaffeggiò e si issò da solo. Bonedigger sogghignò orgoglioso, sfilò la chitarra che teneva a tracolla e sedette a gambe incrociate sulla nuda roccia. Il ragazzo gli fece compagnia e per un lungo intervallo non parlarono. Restarono a godersi il panorama che il tramonto riempiva di luce sanguigna. Laggiù, ai piedi della cresta rocciosa, il mondo ardeva.

Il ragazzo spaziò con la vista. Bonedigger se ne accorse e puntò un dito verso ovest.

«È lì che sta», disse.

Il ragazzo seguì la direzione del dito e la vide. Era grande, più di quanto avesse immaginato. E c'era come una torre (o forse era un campanile, da quella distanza non riusciva a capirlo), che sembrava un dito di pietra rivolto al cielo. E il ragazzo pensò che, se da lassù gli pareva grande, le sue dimensione reali dovevano essere mastodontiche come quelle di un gigante steso a terra o come quell'enorme pesce che avevano trovato riverso sul bagnasciuga del Mare Orientale. Se quel pesce era un gigante del mare, Spassolandia era un gigante di terra, costruito dall'uomo per l'uomo. Bonedigger gli aveva spiegato che era un posto dove la gente andava a svagarsi.

«Che svaghi ci sono?» gli aveva chiesto il ragazzo.

«Del tipo che farebbero venire uno gnoccolone come te nelle mutande», gli aveva risposto Bonedigger, suscitando un'esplosione di ragli del ragazzo.

Ora che la guardava da lassù, il ragazzo si chiedeva che tipo di svaghi potesse contenere il campanile-torre. Pensò di domandare a Bonedigger, ma lo vide assorto e non se la sentì di interrompergli i pensieri. Aprì invece lo zaino e recuperò due involti. Uno lo piazzò accanto a sé, l'altro lo scartò. Addentò il panino e lo fece fuori in pochi morsi, un'abitudine che Bonedigger gli aveva recriminato in passato. Diceva che per digerire, poi, doveva spararsi un paio di fucilate nello stomaco. Il ragazzo avrebbe voluto seguire il consiglio, ma la camminata era stata lunga e aveva una fame d'inferno.

Quando Bonedigger si riebbe da quel suo momento zen

(chissà a che stava pensando)

il ragazzo gli porse l'involto con la cena. La carta era macchiata di sugo.

«Riempilo come un bacherozzo si riempie di merda», aveva detto Bonedigger al tizio che gli aveva preparato i panini.

Srotolò l'involto e addentò lo sfilatino con cinque polpette in fila stipate dentro. Al confronto, quello del ragazzo doveva pesare un quarto. Ma in fondo anche il ragazzo era un quarto della carne che Bonedigger si portava addosso. Per nutrire quella montagna di muscoli ci sarebbe voluto una chianina al giorno.

Consumarono il pasto mentre quello che sembrava un grosso tuorlo d'uovo schiacciato ai lati si immergeva dietro la linea dell'orizzonte. Era uno spettacolo che non lasciava indifferenti. Il ragazzo percepì d'un tratto la magia che lo circondava. Bonedigger gli aveva tenuto una lezione sull'argomento, quello stesso pomeriggio. Durante una sosta all'ombra di un albero, l'aveva invitato a chiudere gli occhi e a sentire. Il ragazzo ci aveva provato, ma non aveva avvertito nulla, e Bonedigger non gliene aveva fatta una colpa. Ora però sentiva. Era come una vibrazione. Correva sotto la pelle e si propagava in tutto il corpo. A tratti era ubriacante. Gli faceva la testa leggera.

Invece di dire a Bonedigger che stava sentendo quel qualcosa di cui avevano parlato nel pomeriggio, si aprì ancora di più a quella nuova e per nulla spiacevole sensazione. Lasciò che lo invadesse e prendesse il controllo. Chiuse gli occhi e cercò di isolarsi. Per un attimo sentì il solo ciancicare di Bonedigger. Porca puttana se la faceva lavorare quella mandibola. Poi il suono scemò gradualmente, allontanandosi, e si ritrovò solo. La luce del tramonto bussava sulle palpebre, ma lui non cedette alla tentazione di aprirle. Nuotò nel buio, ascoltando la vibrazione con un orecchio interiore che non sapeva neanche di possedere. Udì sbocciare delle voci lontane, armoniche come un coro di chiesa, che cantavano il suo nome, il nome dei suoi genitori e quello di Bonedigger.

Poi qualcosa si infranse. Lo avvertì nello stesso modo in cui avvertiva il resto: con una parte di sé che Bonedigger chiamava il cagacazzi interiore. Il cagacazzi lo informò che aveva rotto una barriera ed era entrato in una nuova dimensione. Lo avvertì che avrebbe visto e sentito cose, ma soprattutto sentito. E che se lui poteva vederle e sentirle, loro potevano fare altrettanto. Poi si ritirò e il ragazzo sollevò le palpebre, esaltato e spaventato al tempo stesso.

Si voltò verso Bonedigger. Il vecchio leone mangiava mentre guardava il panorama. Non si era accorto di nulla. Il ragazzo fece per dire qualcosa, ma si rese conto che non sapeva cosa cominciare. Bonedigger strappò un pezzo di panino che avrebbe riempito la bocca del ragazzo e lo masticò con dedizione. Un filo di sugo gli ruscellò sul mento ispido di barba. Si ripulì col dorso della mano, rivolse un'occhiata al ragazzo, gli fece l'occhiolino e gli porse la rimanente parte di panino. Il ragazzo scosse il capo. Bonedigger rispose con un'alzata di spalle, buttò giù parte del boccone e disse: «Ba fuffo fe-e?»

«Che?» chiese il ragazzo.

Bonedigger mandò giù la restante parte e riprovò. «Va tutto bene? Hai la faccia di uno che ha visto l'Uomo Negro che fa capolino dall'armadio.»

«Ho... sentito qualcosa.»

Bonedigger annuì. «È più facile quando hai di fronte robe come questa», disse, indicando il tramonto con un cenno della testa. «Com'è stato?»

Il ragazzo ci pensò un attimo e disse: «Strano.»

Bonedigger annuì ancora. Il ragazzo pensò che a quel punto gli avrebbe tenuto una delle sue lezioni (che lui chiamava menate di suocera), ma il vecchio leone tacque. Forse voleva che ci pensasse su da solo, almeno per un po'.

Quando finì di mangiare, arrotolò la carta e la passò al ragazzo, che la mise nella tasca inferiore dello zaino assieme a quella del suo panino. Il vecchio leone era un patito dell'ambiente. Diceva che riempire la schiena di Madre Natura con la loro immondizia l'avrebbe fatta incazzare. E che se a quella vecchia zitella partiva la brocca, erano cazzi amari. E poi la magia e Madre Natura erano indissolubilmente legate. Gli spiriti elementali che abitavano la Regione degli Sciamani, ora conosciuta come Regione Verde, ne erano la prova. Il ragazzo aveva sentito parlare a più riprese della Regione Verde. Lì, in mezzo alla natura incontaminata, i Druidi avevano inventato la magia. Bonedigger ne aveva parlato come di un posto dove la natura cresceva rigogliosa e senza freni. Se volevi imparare qualcosa sulla magia, era il posto giusto da visitare, e il vecchio leone aveva intenzione di portarci il ragazzo.

Ma prima voleva vedere Spassolandia.

«Mai stato sull'ottovolante?» chiese Bonedigger.

«E che sarebbe?» fece il ragazzo.

«Una di quelle cose che ti fa venire nelle mutande.»

«Meno male che ne ho di ricambio, allora.»

Bonedigger grugnì. «L'hai svaligiato, quel negozio.»

«Ne avevo bisogno.»

«Dieci paia di mutande?»

«Forse hai ragione, un paio bastano. Se ci crescono dentro le tartarughe, possiamo farci una zuppa.»

Stavolta il vecchio leone raschiò un principio di risata dal fondo della gola: il suo modo per manifestare sincero apprezzamento. Lo gnoccolone aveva un certo senso dell'umorismo.

Bonedigger pigliò la chitarra. Il ragazzo gli lanciò un'occhiata di traverso, e il modo ansioso in cui lo fece strappò una risata al vecchio leone.

«Rilassati, voglio solo cazzeggiare un po'.»

Imbracciò l'acustica che sulla paletta aveva incisa la parola Gibson (Bonedigger gli aveva spiegato che era il nome di quello che l'aveva costruita) e iniziò. Il ragazzo ascoltò i passaggi con curiosità via via crescente. Non era quella chiavica di musica che gli propinava di solito.

«Che roba è?» chiese, stupito.

«Blues», fece Bonedigger, e ripeté la sequenza di accordi mentre mormorava con voce calda e roca un motivetto senza parole.

Si esibì in un assolo che lasciò il ragazzo spiazzato e concluse con un accordo di settima.

«Cazzo...» mormorò il ragazzo mentre l'eco delle note svaniva.

«Forte, eh?»

«Molto meglio di quelle...» si trattenne dal dire cagate, «... robe che suoni di solito.»

«Un giorno o l'altro ti insegno.»

«Sul serio?»

«A-ha. Poi ti piglio una chitarra e andiamo in giro a fare spettacoli. Vedrai in quanto si riempie il piattino.»

Ovviamente scherzava, ma al ragazzo sarebbe piaciuto. In giro col vecchio leone, a vagare di città in città con nient'altro che le chitarre e una manciata di blues.

Bonedigger cazzeggiò ancora un po' e, quando il Sole affondò del tutto, posò la chitarra e si dispose a cercare legna per il fuoco notturno. Il ragazzo si offrì di farlo al posto suo, ma Bonedigger gli disse di riposarsi e gli rivolse il suo sorriso da vecchia lenza quando l'altro non protestò. Una delle menate che gli aveva fatto nel pomeriggio era era sull'imparare a riconoscere i propri limiti, e forse lo gnoccolone iniziava ad imparare.

«Smanetta pure con Caroline, se ti va», disse.

«Con chi?» fece il ragazzo.

«La ragazza dal collo stretto e i fianchi larghi.» E visto che il ragazzo ancora non capiva: «Lady Gibson

Gli occhi del ragazzo scivolarono sul corpo della chitarra e sembrò accorgersi solo allora che le forme di Lady Gibson ricordavano un casino quelle di una donna dai fianchi larghi.

«Trattala bene», disse Bonedigger mentre si incamminava giù per il pendio. «E non fare il porcellone, che me lo viene a dire.»

Il ragazzo lo guardò scendere a passi pesanti, evitare crepe scartando di lato e mugugnando un motivetto a labbra strette. Quando non lo vide più, allungò una mano verso Lady Gibson per poi ritrarla quasi subito. Era incuriosito ma anche intimorito. Aveva paura di danneggiarla. Bonedigger sembrava legato a quel pezzo di legno come a una donna in carne e ossa, di quelle che sa regalarti momenti di intenso piacere. E comunque non aveva idea di come suonarla. Aveva visto Bonedigger un milione di volte, e gli era sembrato facile da imitare, ma qualcosa gli diceva che se ci avesse provato non ne avrebbe cavata neanche una nota pulita.

Sollevò Lady Gibson con attenzione e la imbracciò. Era più leggera di quanto si aspettasse. Fece scivolare la mano sul manico. La frizione sulle corde era piacevole. Cercò di imitare le mosse di Bonedigger, ma gli uscirono solo cacofonie che ad ascoltarle ti veniva il mal di pancia. Inoltre aveva la mano piccola. In confronto, quella di Bonedigger era un battipanni. Lasciò perdere gli accordi e tentò di abbozzare un assolo su una singola corda. Riuscì a tirarci fuori una melodia che non gli pareva male. Magari Bonedigger ci avrebbe fatto qualcosa. Continuò a ripetere la sequenza di note fino a memorizzarla, poi si mise a fissare i colori del tramonto: rosa, gialli e aranci. Le ombre di Spassolandia si allungavano. Quel grande villaggio di ferri che si rincorrevano e attorcigliavano e di strutture strambe, assumeva un'aria un po' meno spassosa via via che le ombre aggredivano il mondo.

Quando Bonedigger tornò, il ragazzo aveva posato la chitarra. Il vecchio leone mollò i rametti secchi, le pietre e una manciata di rami più spessi. Ce n'erano abbastanza da tenere il fuoco alto per parecchie ore.

«Avete fatto amicizia?» chiese al ragazzo.

«Più o meno», fece il ragazzo.

«Cos'è, troppo raffinata per i tuoi gusti? Ti piacciono quelle che si sbottonano e ti sbottonano al primo appuntamento?»

Il ragazzo ridacchiò. «Ci ho provato, ma non ne ho cavato molto.»

«Devi sbatterci il grugno finché non ti diventa livido. È l'unico modo.» Radunò le pietre e iniziò a sistemarle in cerchio. «Hai detto che non ci hai cavato molto. Vuol dire che qualcosa ci hai tirato fuori.»

Il ragazzo tradì un moto di imbarazzo. «Non è che proprio...»

«Risparmiami le arrampicate sui vetri. Piglia quella baldracca con la puzza sotto il naso e fammi sentire.»

Conoscendo Bonedigger, e sapendo che quando si metteva una cosa in testa non mollava la presa finché non la otteneva, il ragazzo pigliò la chitarra. Le dita scivolarono sulle corde, cercarono per un attimo la tonalità giusta muovendosi impacciate e trovarono infine la quadra. Suonò quelle poche note in croce e Bonedigger alzò la testa.

Il ragazzo lo guardò e disse: «Tutto qui.»

«È forte.»

«Sì?» chiese il ragazzo, e la comica nota speranzosa che ci mise fece ridere Bonedigger.

«È un inizio.»

«Mi fanno un po' male le dita.»

«Devi farci il callo.» Sogghignò. «Nel vero senso della parola, non è un modo di dire. Strano, però.»

«Che cosa?»

«Dovresti già averceli, i calli. Alla tua età mi smanettavo il piffero che a sera avevo gli occhi storti.»

Il ragazzo scoppiò a ridere. Bonedigger sogghignò. Il ragazzo gli passò la chitarra e il vecchio leone intuì che non gliela stava semplicemente ridando: voleva che la suonasse. Così la imbracciò e suonò un blues ipnotizzante. Nella luce del giorno morente, con quell'ultimo spicchio di arancio che si rifletteva sul battipenna di Lady Gibson, il ragazzo ascoltò chiedendosi se sarebbe mai riuscito a tirare fuori da una sei corde una roba come quella.

Devi sbatterci il grugno finché non ti diventa livido.

Una volta Bonedigger gli aveva detto: «Devi prendere qualche botta per imparare che fa male.» Ti sputava fuori robe del genere e poi ti lasciava un minuto o due a rifletterci su. Stava a te, poi, trovarci un senso. All'inizio non era facile ma, ora che erano entrati in sintonia, il ragazzo cominciava a prenderci il piglio. Alle volte pensava con la voce e il frasario del vecchio leone. Ormai le loro menti erano sintonizzate sulla stessa lunghezza d'onda. E sotto un certo punto di vista erano come padre e figlio. Le lezioni di Bonedigger ne erano la prova. Il vecchio leone voleva un gran bene al ragazzo. Gli aveva mosso sin da subito una naturale simpatia. Era uno giusto. E con un po' di aiuto e le giuste menate (verbali, s'intende, non avrebbe mai alzato un dito su quello gnoccolone), sarebbe venuto su come il Messiah comandava.

L'assolo finale e l'accordo di settima conclusero la canzone, e il ragazzo si disse che avrebbe imparato a suonare come il suo anfitrione. Gli piaceva un fracco quel blues. Aveva un che di nostalgico e potente. Molto meglio di quelle cagate celtiche che, per dirla alla Bonedigger, ti smollavano los huevos.

Quando l'ultimo raggio di Sole salutò il mondo, Bonedigger accese il fuoco. La stagione era relativamente calda. La primavera era alle porte, ma non avrebbero saputo dire quanto vicina fosse (c'era penuria di calendari e di tante altre cose). Lo sentivano dall'aria, che da qualche tempo era frizzante. Non avrebbero sofferto granché il freddo ad altitudini più basse, ma lassù era diverso. Di notte spirava una brezza pungente e, come soleva ripetere Bonedigger: «Lo spirito è forte, ma la forza d'animo non cura i reumatismi.»

Parlarono un po'. Il ragazzo volle sapere cosa avrebbe visto a Spassolandia e Bonedigger gli disse che l'avrebbe scoperto a tempo debito. Non voleva rovinargli la sorpresa. Il primo parco divertimenti era un'esperienza che andava gustata senza spoiler.

Si distesero mentre il fuoco danzava e le ombre si raccoglievano come astanti curiosi sul luogo di un incidente. Il ragazzo tirò fuori dallo zaino due cuscini da viaggio che aveva raccattato lungo la strada. Erano sgonfi e sembravano pelli morte. Li gonfiarono soffiandoci dentro e ci posarono sopra la nuca. La roccia era scomoda lassù, irregolare per le sue piccole gobbe e i suoi avvallamenti, e probabilmente il vecchio leone si sarebbe svegliato col mal di schiena, ma c'era di peggio. Tipo essere sorpresi nel sonno da asesinos o invasati.

Bonedigger tirò via la pistola dalla fondina ascellare, se la mise in cinta e posò le dita sopra il calcio. Anche il ragazzo ne aveva una e anche lui la sfilò dalla fondina ascellare per metterla in cinta. Si diedero la buonanotte. Il ragazzo credeva che non sarebbe riuscito a dormire per l'eccitazione di quello che l'indomani lo aspettava, ma la camminata era stata lunga e il sonno lo colse rapido. Il vecchio leone dormicchiò a sprazzi, come sempre faceva. Il ragazzo sognò che...

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