Golgota
La città si chiamava Golgota, come la collina dove inchiodarono il Messiah. Lo straniero superò il cartello – un rettangolo di cartone legato a un legno con un po' di spago e scritto a mano con una punta di carbone – e pestò la Via Maestra al fianco del suo baio. Il cavallo era stanco. Lo erano entrambi. Lo straniero si era costretto a smontare quando il suo unico mezzo di trasporto aveva preso a ondeggiare. L'ultima cavalcata lo aveva sfiancato. Quell'orda di invasati correva come una torma di diavoli che avesse fatto il bidet nell'acqua santa.
Zoccoli e stivali pestarono la terra rossa. Diverse teste si voltarono a guardare i nuovi arrivati. Lo straniero superò uno spaccio e la bottega del barbiere. Sulla passerella del barbiere c'erano due perdigiorno che gli tennero gli occhi addosso. Il dettaglio sul quale si concentrarono di più fu il cinturone con relative pistole che pendevano dai fianchi dello straniero. Lui li salutò pizzicandosi la tesa ricurva del cappello. Nessuno dei due rispose al saluto e lui passò oltre senza rammaricarsi.
I tempi erano cambiati. Le buone maniere erano un retaggio del passato, come certi insegnamenti del Messiah e della sua cricca.
Tirò dritto e si fermò di colpo. Le dita strinsero le briglie del cavallo. Lo straniero le strattonò senza volerlo e il cavallo soffiò dalle nari un verso di disappunto.
«Scusa», disse all'animale.
Gli carezzò il muso e guardò la chiesa. Il campanile sembrava un lungo dito teso verso il cielo. La croce sulla sommità era trasparente. Dentro ci si rifletteva un piccolo arcobaleno.
«Bella, eh?»
Lo straniero si voltò. Sulla passerella del saloon c'era un tizio.
«Scommetto che non ne vedi molte in giro, di 'sti tempi», disse il tizio.
Ghignò mettendo in mostra una dentatura gialla come pergamena. Doveva essere un gran ruminatore di tabacco.
«Ne ho vista una nel Deserto dei Bisbigli», disse lo straniero.
«Quella mica è una chiesa, è un cazzo di obbrobrio», fece il tizio.
«L'hai vista?»
«A-ha, e ci sono pure entrato. Ѐ un cazzo di museo dell'orrore, lì dentro. L'hai visto lo scalpo di Morrison?» Lo straniero annuì. «E non ti è risalita la colazione?»
Lo straniero scosse la testa.
«C'hai la scorza dura, allora. Quando ho visto la mummia di Angus Young col manico della chitarra che gli usciva dallo stomaco, per poco non sputavo fuori il tacchino del Ringraziamento.»
«Dici cose senza senso.»
«E tu non mi sembri un gran chiacchierone.» Il cavallo soffiò dalle nari. «La tua bestia è d'accordo con me.» Li squadrò. «Avete l'aria stanca.»
«Perché siamo stanchi.»
«Sembra che avete attraversato il deserto di corsa.»
«Non ci sei andato troppo lontano.»
«C'è uno stallaggio, più avanti. Ѐ di Jebediah Torton. Digli che ti mando io.»
«E tu com'è che ti chiami?»
«Richie, ma le puttane mi chiamano Tootsie.»
«Io sono Jericho», disse lo straniero.
«Begli aggeggi», disse Ritchie, accennando alle pistole. «Sei un cacciatore di taglie?»
«Qualcosa del genere.»
«Quando hai mollato la tua bestia a Torton torna qui, che ti offro da bere.»
Jericho si pizzicò la tesa del cappello. Ritchie si portò due dita alla tempia, di taglio, nella posa di un saluto che l'altro non aveva mai visto.
«Adelante», disse prima di girare i tacchi ed entrare nel saloon con passo dinoccolato.
Jericho restò un attimo a fissare i battenti che basculavano. Quel tizio era strano come le facce dei Quattro padri sulla Montagna della Memoria. E che razza di nome era Richie? Non che Tootsie fosse meglio. E parlava anche in modo strano. Diceva robe incomprensibili, tipo la storia del tacchino del Ringraziamento... che diavolo era un Ringraziamento?
Jericho superò il misero hotel e raggiunse lo stallaggio. Un uomo con una pancia tale da coprire la fibbia della cintura era seduto di fuori, su una sedia sgangherata che faticava a contenere le enormi chiappe.
«Jebediah Torton?»
«A-ha, e tu chi cazzo sei?» fece Torton.
Cordiali da queste parti, pensò Jericho.
«Mi manda Richie.»
Torton si accigliò. «Chi?»
«Lo chiamano anche Tootsie.»
«Ah, quel coglione. E che vuole?»
«Lui niente, ma io ho bisogno che dai al mio cavallo una strigliata, acqua e un po' di biada.»
«Bella bestia. Ne ho viste un fracco, ma di così belle mai.»
Il cavallo nitrì.
«Ti ringrazia», fece Jericho.
«Ma che, mi capisce?» chiese Torton.
«Ѐ intelligente come un klakun.»
«Ma va'.»
«Sta' a guardare.» Jericho si rivolse al cavallo. «Quanto fa 2+2?»
Il cavallo sollevò lo zoccolo e raschiò la terra quattro volte.
«Figlio d'una cavalla storpia!» sbottò Torton. «Che altro sa fare?»
«Qualche gioco di prestigio, ma adesso non è in vena.»
Torton si alzò e lo raggiunse. Prese le briglie del baio e chiese a Jericho: «Quanto ti fermi?»
«Conto di ripartire prima di sera.»
Torton scosse la testa. «Si sta alzando il vento.»
«E allora?»
«Sai come chiamano 'sto buco di città?» Jericho attese di saperlo. «L'inferno rosso.»
Torton indicò il terriccio.
«Sai perché è così, rosso come il culo di un pellerossa? Colpa delle tempeste di sabbia. Roba da farti stringere il buco del culo, e durano giorni.»
«Allora mi conviene ripartire subito. Quanto dista la prossima città?»
«Troppo. Rischi di beccarla per strada, la tempesta, e allora sicuro finisci sepolto vivo.»
«Non posso fermarmi a lungo.»
«Mica dipende da te. Se poi vuoi tentare la sorte, non sarò certo io a fermarti», fece Torton.
Jericho ci pensò su. Non che avesse molta scelta. L'orda di invasati era ancora sulle sue tracce, ma lui aveva accumulato un bel vantaggio. E c'era la possibilità che la tempesta di sabbia cancellasse il suo odore e quello del cavallo.
«Prenditi cura della mia bestia», disse Jericho.
«Stai sciolto», fece Torton.
Jericho si accigliò.
«La tua bestia è in buone mani», spiegò Torton. «Adesso vediamo i soldi.»
Jericho si cavò di tasca un bronzo grande e lo fece piovere sul palmo di Torton. Lo stalliere se lo ficcò in tasca, diede le spalle a Jericho e condusse il cavallo verso la stalla.
«Ci becchiamo tra un paio di lune, se piacerà al Buon Padre», disse Torton mentre andava.
Se piacerà al Buon Padre, pensò Jericho. Un paio di lune qui e te ne esci con una parlata tutta nuova.
Tornò al saloon mentre il vento faceva svolazzare i lembi dello spolverino. Sentì il sapore del deserto intrufolarsi sulla lingua e nel naso. Si calò la tesa del cappello sugli occhi per proteggerli dalla sabbia e sollevò il colletto dello spolverino. Mise piede sulla passerella e spinse i battenti. Molte teste si voltarono.
«Anima Lunga!» chiamò una voce.
Jericho vide una mano sollevarsi e riconobbe Richie. Sedeva a un tavolo nei pressi del bancone. Lasciò andare i battenti e si incamminò. Sentiva addosso gli sguardi degli astanti e delle puttane, ma non ci badò. Raggiunse Richie, spostò una sedia e si accomodò.
«Che significa?» chiese Jericho.
«Che significa, cosa?» fece Richie.
«Quella roba che hai detto quando sono entrato.»
«Anima Lunga?» Jericho annuì. «Ѐ come chiamo gli spilungoni.»
«Suppongo sia un complimento.»
«L'ultima cosa che voglio è farti incazzare, specie dopo aver visto i cannoni che ti porti appresso.»
Jericho si concesse una stirata di labbra.
«Che bevi?» chiese Richie.
«Birra ne hanno?»
«Come no.»
«Bionda?»
«Che ti viene voglia di fottertela.» Stavolta Jericho sorrise. «E a proposito di fottere, hai visto che pezzi di figa girano qui dentro?»
«E per pezzi di figa intendi...»
«Le femmine. Le tizie col paradiso tra le gambe, hai presente?»
«Vagamente.»
«Da quant'è che non ti fai una scopata come Cristo comanda?»
Jericho gli lanciò un'occhiata glaciale. Richie, che si era sporto coi gomiti sul tavolo, si fece indietro. Si incollò allo schienale, posò le mani sulle cosce con un certo imbarazzo e richiamò l'attenzione del barista che passeggiava dietro il bancone.
«Un rabbocco per me e una bionda fredda come piscio di zigul per il mio amico», disse.
Il barista si mise all'opera.
«Ne hai mai visto uno?» chiese Jericho.
«Di che?»
«Uno zigul.»
«Di sfuggita. Stava pisciando su un cespuglio. Da quel cazzetto storto e seghettato gli usciva una fontanella color ghiaccio. Quando l'acqua ha colpito il cespuglio, le foglie si sono ghiacciate in mezzo secondo. Mai vista una roba così.»
Jericho annuì. Aveva sentito storie simili in passato. Le creature che abitavano le Terre del Nord avevano il sangue freddo, in linea col clima di quelle parti. Alcune, come gli zigul, potevano sopravvivere a temperature che avrebbero ucciso un uomo nel giro di un paio d'ore.
«Che ci facevi nel Profondo Nord?» chiese Jericho.
«Vendevo cubetti di ghiaccio ai coloni», disse Richie, ed esibì un accattivante sorriso sdentato.
«Divertente.»
Arrivarono le birre. Il barista portò un boccale di birra a Jericho e un bicchiere di torcibudella a Richie. La birra aveva un piccolo strato di schiuma in cima. Richie sollevò il bicchiere.
«Alla tua.»
Jericho rispose sollevando il boccale, poi prese un sorso. «Buona.»
«Come la passera di una bella pupa», fece Richie.
Bevvero in silenzio per un po'. Fu Richie a parlare per primo.
«Com'è che sei capitato da 'ste parti?»
«Ѐ una lunga storia», disse Jericho.
«Mi avanza qualche minuto, oggi.»
Jericho prese un altro sorso. «Hai mai sentito parlare dei Sidhe?»
«Sono tipo degli stregoni, giusto?»
«Sciamani.»
«Quelle stronzate lì. Da come ho sentito sono tutti schiattati.»
«Non tutti.»
Richie restò col boccale sollevato. Fissò Jericho. «Che cazzo ti inventi?»
«Ce n'è ancora uno. Non so se ce ne siano altri, ma di sicuro uno c'è.»
«Un Sidhe?» Jericho annuì. «E tu l'hai visto?»
Jericho sollevò la manica dello spolverino, sbottonò il polsino della camicia e arrotolò la manica sino al gomito, poi mostrò l'avambraccio a Richie.
«Puttana Eva...» mormorò Richie.
Poco sotto l'incavo del gomito, la pelle era bruciata. La bruciatura aveva la forma di un teschio ghignante con un cilindro in testa. Dalla bocca usciva una lingua affilata come un pugnale.
«Mi ha marchiato», disse Jericho.
Il braccio di Richie si afflosciò. La base del boccale si schiantò sul tavolo. Molte teste si girarono a guardare. Jericho si affrettò a coprire l'avambraccio.
«Ma che cazzo...?» fece Richie. «Come è successo?»
Jericho si rilassò contro lo schienale. Sospirò e, mentre il vento frustava il saloon, attaccò a raccontare.
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