PARTE SECONDA

Quella donna, apparsa per sbaglio nella mia vita, era stata in grado di sconvolgermi. Sembravo aver scioccato allo stesso modo lei. Non era un colpo di fulmine ma uno schiaffo in piena faccia.

Sprofondai nella mia poltrona e presi la copia del suo manoscritto che mi era stata fatta recapitare da un collega. C'erano delle annotazioni al margine che Guglielmo aveva fatto prima di cadere malato e trovarsi così nell'impossibilità di terminare quel lavoro - provvidenzialmente, così ricaduto tra le mie mani.

Non badai a quelle e mi misi a leggere subito il romanzo di Diana.

Lessi tutto d'un fiato i primi dieci capitoli in ufficio e fagocitai avido altri due capitoli durante il tragitto della metro che da lavoro mi portava vicino casa. Dopo aver preso al volo un hamburger al formaggio, al mini fast food di fronte al mio palazzo, mi fiondai letteralmente a casa, animato da una lacerante impazienza di terminare la mia lettura.

Non un refuso, una virgola fuori posto, un concetto espresso in maniera banale, c'era solo poesia, pagine e pagine di poesia. Se fossi stato un autore di canzoni, avrei potuto riassumere quel libro nella più meravigliosa e struggente canzone d'amore, dove la passione era così palpabile da tramutarsi in sofferenza ad ogni rigo.

Eccitato, sudato, frastornato, avevo completamente perso il contatto con la realtà, ritrovandomi alle quattro del mattino, con le pagine del libro di Diana sparse ovunque tra divano e tavolino del salotto. Ogni singolo amplesso dei personaggi era divenuto il mio, ma senza che avvertissi la necessità di liberarmi in qualche maniera. L'orgasmo che Diana era in grado di procurarmi con le sue parole era sensoriale, metafisico, qualcosa di staccato dalle necessità meramente carnali.

Quando ebbi terminato, avvertii la necessità di farmi una doccia calda che fosse in grado di imprimere sulla mia pelle tutte le emozioni provate in quella giornata tanto assurda.

Fu la prima volta in cui ebbi la sensazione di aver scopato la mente di una donna fantastica.

Il mattino dopo, nonostante le pochissime ore di sonno, giunsi raggiante e galvanizzato in casa editrice. Il sole splendeva alto, nel cielo di novembre, ma nel mio animo era piena primavera. Il mio obbiettivo del giorno era diventato quello di parlare con Diana, sperando di poter anticipare il nostro incontro a quel pomeriggio. Avrei potuto chiamarla direttamente, giacché ero in possesso di tutti suoi contatti, ma non volevo turbarla eccessivamente.

«Buongiorno Serena, ho bisogno di mettermi in contatto con la signorina DeRossi, prima di subito» ingiunsi arrivando alla scrivania della mia assistente e lasciando la stessa, basita.

Vidi Serena spostare lo sguardo dal mio viso al plico che avevo sotto il braccio.

«Ma ti sei portato il lavoro a casa, ieri sera?» chiese turbata.

Guardai il piccolo tesoro che stringevo sotto il braccio e annuii.

«Ma tu odi lavorare a casa!» aggiunse come se avessi appena asserito di essere un eretico meritevole della pena capitale.

«Avevo bisogno di accorciare i tempi visto il casino che avevo combinato con la signorina DeRossi» risposi pacato, sperando di non destare altri sospetti in quella donna curiosa.

«Voglio la signorina DeRossi al telefono, tra cinque minuti!» tuonai, improvvisamente autoritario e spazientito.

Raccolsi la posta e mi rinchiusi nel mio ufficio. Non riuscivo a stare fermo così, camminavo su e giù impaziente di essere messo in contatto con Diana. Dopo quattro minuti e trentacinque secondi, squillò il mio telefono diretto, facendomi sobbalzare.

Scattai verso la scrivania e alzai il ricevitore.

«Pronto!» udii dall'altra parte e mi sentii spezzare.

«Diana! Sono Gabriel. Volevo dirti che ho letto la tua storia e vorrei poterne parlare con te nel primo pomeriggio di oggi, se per te va bene», dissi tutto d'un fiato.

«Vuoi farmi credere che hai letto un libro di trecento pagine in un pomeriggio?!» disse velatamente piccata.

«Non ci credi? Ragione in più per venire qui quanto prima, per sincerartene», la sfidai malizioso.

«Ci sto! Sono proprio curiosa», rispose.

«Ti aspetto per le tre e mezza», dissi euforico.

«A più tardi, allora», ribatté chiudendo la chiamata.

Fu in quel momento che mi sentii un po' orfano, solo, abbandonato da quella donna che bramavo in preda alla follia, ma cercai di darmi uno schiaffo mentale ricordandomi che l'avrei rivista dopo poche ore.

Avrei vissuto di quell'attesa.

Alle tre e un quarto la porta del mio ufficio si spalancò, lasciando entrare un'altra Diana. Era una ragazza con i capelli raccolti in due piccoli chignon ai lati della nuca, un paio di occhiali da vista dalla montatura nera e sottile. Indossava dei jeans attillati, una t-shirt con la faccia di Frida Kahlo in quattro colorazioni differenti stile pop art, una felpa viola con il cappuccio che usciva dalla giacca sfiancata in ecopelle nera e un paio di Adidas Stan Smith bianche con le bande dorate laccate. Sembrava una ventenne, di una bellezza che lasciava senza parole e che mi bloccava il respiro in gola.

«Ciao!» disse entrando e lasciando basita ancora una volta la mia assistente che la fissò stranita.

Mi affrettai a trascinarla nella stanza e chiudere a chiavi la porta, sul naso di Serena.

Diana si mise a guardarmi come se fossi un alieno e poi scoppiò in una fragorosa risata che contagiò anche me.

«Dovrei avere paura di te?» mi chiese continuando a ridere.

«Non so, tu che ne pensi?» ammiccai.

Il viso di Diana da diafano divenne improvvisamente incandescente, tanto che fu costretta ad abbassare lo sguardo. Maliziosamente si morse il labbro e mi mandò realmente fuori di testa. A quel punto, il mio istinto primordiale e irragionevole mi invitava in modo prepotente a prendere quella donna, trascinarla sulla mia scrivania e saltarle addosso come un animale. Per fortuna avevo conservato un po' di buone maniere e un pizzico di morale così, respirai a fondo, cercando di ritrovare un contatto con la parte più carnale del mio essere e intimandole di tenere a freno le proprie pulsioni.

«Vorrei sapere cosa pensi del libro?» chiese lei.

«Ecco, forse è meglio che ci sediamo» risposi cercando le parole più giuste per comunicarle le emozioni che aveva suscitato in me quel suo manoscritto e non essere volgare o indelicato.

La vidi ricadere sul divano che aveva accanto, come se l'anima l'avesse abbandonata di colpo, e non fosse più in grado di reagire, mettendosi a fissare il vuoto, pallida come un cadavere.

«Lo sapevo. Non ti è piaciuto e ora ti sarai fatto un pessimo concetto di me», disse avvilita.

Compresi che aveva appena travisato la mia espressione e le mie parole, così mi affrettai a sedermi accanto a lei e dirle ciò che realmente pensavo del suo manoscritto.

«Il tuo romanzo è magnifico. Non ci sono espressioni o metafore che mi permettano di darti un'idea precisa di cosa io abbia provato leggendolo. Non si può spiegare a parole. Io...» mi dovetti interrompere perché avevo il cuore che mi usciva dal petto e la gola asciutta.

«Allora trova il modo per esprimerlo», disse lei lasciva.

La osservai per qualche istante poi le dissi: «Non so se sia il caso. Rischierei di non potermi fermare», risposi frustrato.

«E non ti fermare», aggiunse guardandomi in un modo talmente sensuale da procurarmi già i primi strazi di un'erezione costretta nei pantaloni.

La vidi togliersi dapprima la giacca e poi la felpa, restando solo con la sua t-shirt aderente e i jeans che mettevano in risalto le sue perfette curve.

Mi avvicinai lentamente, quasi con timore, ma quando fui abbastanza vicino al suo viso da sentire il respiro sulle mie labbra, ruppi tutte le mie barriere e le presi il volto tra le mani baciandola con foga. Lei dischiuse la bocca lasciando entrare la sua lingua nella mia e affondando quasi nella mia faccia. Sentii improvvisamente le sue mani sui bottoni dei miei jeans e subito il mio sesso si fece sentire con prepotenza, anelando il contatto con le sue dita operose. Mentre lei cercava di liberarmi dei miei vestiti, io iniziai a toccarle le braccia e poi scesi sui seni, che raccolsi e strinsi fra le mie mani strappandole un lungo gemito.

Mi staccai per fissarla un istante, lei sembrò cogliere al volo quel mio desiderio inespresso di vederla senza maglietta e senza reggiseno, perché subito provvide a sfilarli entrambi.

Era la perfezione e io potevo toccarla, osservarla, possederla.

Prese le mie mani, ma le portò verso parti del suo corpo differenti dal seno ormai esposto. Voleva che la toccassi nella sua intimità più profonda, liberandola. Così la feci stendere con la schiena sulla seduta del divano e le sfilai lentamente le scarpe e poi il jeans, facendola restare solo con il perizoma.

Sì dimenava, era caldissima e voleva me, voleva le mie mani dentro di lei. Voleva me.

Mi tolsi anch'io le scarpe, i miei di jeans e i boxer, poi misi un ginocchio tra le sue gambe e l'altra gamba la lasciai a sostegno giù dal divano. Ero sopra di lei che ansimava e muoveva il suo bacino verso di me supplicandomi di prenderla.

Allora infilai la mano nel suo perizoma e iniziai a massaggiarle il piccolo nucleo del piacere con delicati movimenti circolari sentendo il suo sesso gonfiarsi sotto le mie attenzioni sempre più insistenti. Raccolsi i suoi umori sulle mie dita e me le portai alla bocca succhiandone forte il sapore meraviglioso, mentre la osservavo contorcersi e cercare finalmente soddisfacimento.

«Ti prego Gabriel», m'implorò tra gli ansimi.

A quel punto mi ritrassi e le sfilai quell'ultimo indumento, lasciandola completamente nuda e distesa sul mio divano. La osservai per qualche istante, lascivo, poi mi alzai in piedi e andai a prendere un preservativo dalla confezione che avevo comprato la mattina, prima di giungere a lavoro e che avevo riposto nel cassetto della scrivania.

Quando ritornai da lei, Diana mi osservò attentamente come se aspettasse qualcosa, come se bramasse qualcosa che solo io potevo darle.

«Alzati!» le ordinai.

Senza battere ciglio, lei eseguì l'ordine.

La feci sedere sulla mia scrivania, facendo volare libri, fogli, penne. Le divaricai le gambe e m'inginocchiai davanti a lei, iniziando quello che avrei voluto fare il giorno prima. Presi a succhiarle l'alluce del piede e con la lingua risalii l'interno delle sue gambe fino alle grandi labbra grondanti di umori che io ero stato in grado di procurarle. Sogghignai compiaciuto e alzai lo sguardo per vedere la sua espressione mentre la torturavo. Diana si teneva a stento sui propri gomiti, con la schiena che sfiorava la base del tavolo e la testa reclinata all'indietro. Vedevo i suoi seni sollevarsi e abbassarsi al medesimo ritmo dei suoi ansiti e la cosa mi spronò ulteriormente a continuare a indugiare ancora con quel mio gioco erotico.

Iniziai a leccare le morbide e invitanti vie d'accesso alla sua più profonda femminilità, succhiandole, mordendole delicatamente mentre Diana, completamente spezzata dalle mie attenzioni, scivolava sulla scrivania in preda agli spasmi del piacere, aggrappandosi con le gambe alle mie spalle e cingendomi in una morsa. Ero lì, inginocchiato davanti alla donna più eroticamente sensuale della terra, capace di farmi provare sensazioni che mai avevo conosciuto e che volevo provare sempre di più, come se fossi un tossicodipendente in cerca della sua droga preferita.

Affondai la lingua dentro di lei un'istante, il tempo di saziarmi del suo sapore e poi mi rimisi in piedi. A quel punto Diana sollevò appena il capo e mi guardò perplessa.

«Perché?» mi chiese con un filo di voce.

«Perché mi hai chiesto tu, di farti capire ciò che sei stata in grado di farmi provare mentre leggevo il tuo manoscritto», risposi.

Reclinò la testa all'indietro ancora una volta, sembrava esausta ed esasperata.

«Ho capito», disse mentre sembrava chiudersi in una sorta di bolla meditativa.

«No! Non hai capito niente. Sono arrivato alle ultime battute, non vuoi conoscere il finale?» aggiunsi lascivo.

Improvvisamente, Diana si sollevò sui gomiti e iniziò a fissarmi con aria interrogativa.

«Che?», proferì.

Ma non le diedi molto tempo perché la sollevai dalla scrivania prendendola in braccio e la rimisi in piedi rigirandola, in modo da poter avere davanti la sua schiena.

«Che fai?» mi chiese con la voce impastata di malizia, come se volesse sentirselo dire a voce alta quello che stavo per farle.

«Ti faccio sentire come mi hai fatto venire alla fine del tuo libro», le sussurrai in un orecchio.

«Tieniti alla scrivania!» le ordinai.

Poi la feci piegare in avanti, divaricandole per bene le gambe così da avere, non solo una migliore visione del suo fondoschiena ma anche un migliore accesso. Mi rammaricai un attimo di non avere più tempo per mordere anche quel meraviglioso sedere perché non potevo più indugiare oltre. Presi la bustina del preservativo che avevo poggiato sulla scrivania accanto a lei, la strappai e srotolai il cappuccio sulla mia erezione.

«Tieniti!» le intimai un'ultima volta e poi affondai dentro di lei.

Ero in Paradiso, ad ogni spinta più forte, sentivo gli angeli cantare nella mia testa. È più mi insinuato a fondo più i suoi gemiti mi invitavano a prenderla con tutta la forza di cui ero capace. Aggrappato ai suoi sinuosi fianchi, diedi un'ultima spinta che mi partì dalle viscere e la sentì, gemere come se le avessi toccato l'anima e poi sciogliersi attorno e insieme a me. Mi accasciai sulla sua schiena baciando le sue spalle. Era calda e profumata. Respirai la sua essenza e poi mi risollevai per permetterle di rimettersi in piedi.

Diana traballava e non proferì una sola parola mentre si rivestiva, limitandosi semplicemente a lanciare verso di me delle occhiate ammiccanti.

«Spero di essere stato abbastanza esauriente», proferii mentre cercavo di sistemarmi, sperando di cavarle finalmente qualche parola dalla bocca. Quel suo lungo silenzio iniziava a preoccuparmi.

A un certo punto la vidi avvicinarsi a me con la giacca tra le braccia e lo sguardo malinconico.

«Che hai? Ti ho fatto male?» chiesi turbato.

Scosse il capo.

«Io, non vorrei che questa cosa finisse così. Anzi, avrei voluto che non finisse mai su quella scrivania. Ma non vorrei che ti fossi fatto un'idea errata di me. Hai letto il mio romanzo e ti è scattato l'impulso di prendermi e io ti ho lasciato fare, ma non sono così. Non sono quel genere di donna che solo perché scrive romanzi erotici deve essere comportarsi anche come una puttana. Mi vergogno di me stessa, ma al tempo stesso so di non essere pentita di ciò che è appena accaduto anzi, vorrei che accadesse ancora con te, solo con te.»

Quella sua confessione mi mandò in pezzi.

«Ti ho desiderata dal primo istante in cui hai messo piede in questa stanza. Credo sia stata una vera fortuna che il mio collega si sia ammalato, passando a me il tuo lavoro. C'è qualcosa di chimico tra noi e non credo sia la stronzata del colpo di fulmine, perché quando ti vedo non mi fai battere semplicemente il cuore, ma fai vibrare tutto il mio corpo. Non ritengo che tu sia una donna dai facili costumi e mi fa incazzare che tu possa aver pensato questo di te stessa. Sei bellissima, attraente, ma soprattutto hai una dote: scrivi in modo sublime qualcosa che mai in vita mia avrei voluto dover leggere ed editare. Certo che voglio rivederti ancora e certo che voglio fare continuare questa cosa», le dissi prendendole il volto tra le mani.

«Ma non credo di essermi innamorata di te e non credo di volerlo fare per il momento», rispose, ancora una volta spiazzandomi.

«L'amore non si programma, ahimè. Io direi piuttosto di vivere questa cosa con estrema tranquillità, senza crearci troppe aspettative. Se abbiamo entrambi voglia di stare insieme, ok, altrimenti amici come prima. Neanche io voglio perderti, ma voglio conoscere meglio la tua mente, voglio conoscere la fonte di tutto questo, perché sono assetato di te.»

Vidi Diana farsi paonazza e poi gettarsi al mio collo per baciarmi.

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