Capitolo IV
" Avere il viola come proprio colore preferito non è un po' scontato?"
Forse il fato si stava divertendo a prendermi in giro, o forse ero solo sfortunata, fatto sta che in aereo il posto accanto al mio era toccato al ragazzo che negli ultimi giorni mi aveva fatta arrossire un centinaio di volte e che aveva sfacciatamente iniziato a scavarsi un posto all'interno del mio cuore. Come se non bastasse l'altro posto, quello a destra, era occupato da un Val non proprio contento di vedermi così vicina a Vincent
Alzai le spalle incontrando gli occhi caldi di Val.
" Mai come il rosa, quello è scontato".
" Se lo dici tu" acconsentì lui, prima di girarsi ulteriormente verso di me piantandomi gli occhi addosso.
In verità, non ero sicura di cosa stesse accadendo al mio cuore.
Per la tredicesima volta da quando l'aereo era decollato ( sì, le avevo contate ) il mio cuore saltò un piccolo battito e sentì le guance imporporarsi di rosso. Il problema era che non capivo perché mi stesse accadendo ciò.
Era la presenza di Val o la sensazione di avere lo sguardo di Vincent addosso?
Come se mi avesse letta nel pensiero, lui sghignazzò non troppo velatamente facendomi ulteriormente arrossire.
Immaginai che se qualcuno mi avesse scattato una foto in quel momento sarei probabilmente sembrata una sorta di creatura mitologica dal viso scarlatto e e le orecchie arrossate.
Le occhiaie che mi segnavano gli occhi, come anche le gambe in continuo movimento, non aiutavano affatto l'espressione che stavo dando di me. La malattia non mi aveva risparmiato neanche quella mattina, il giorno della partenza, ma anzi mi aveva schiaffeggiata con un malessere costante che non avevo nemmeno visto arrivare.
Durante la notte, passata in bianco in preda ai lamenti e ai dolori in tutti muscoli del corpo, avevo sperato che fosse tutto dovuto allo stress della partenza, come una bambina che, anche se sa perfettamente che le fate non esistono, si ostina a cercarle ogni volta che esce in giardino.
Al mattino, tuttavia, ero stata colta da un'ulteriore mazzata che si era sommata con la stanchezza e la confusione del mio cervello sfinito: alcune parti del corpo, come il lato sinistro della schiena o l'intera gamba destra, mi dolevano e pizzicavano come se una serie di aghi appuntiti mi si stesse conficcando nella carne.
Cercando di non guastare il mio buon umore con quei pensieri lugubri, sorrisi quando Val mi propose
delle patatine al formaggio. Le trangugiammo, avidi come solo gli adolescenti sanno fare.
Dopo Val mi diede un colpetto al braccio e si alzò per andare in bagno.
Per fortuna il suo posto era quello più esterno che dava sul corridoio, perché se a volersi alzare fosse stato Vincent, che sedeva dal lato del finestrino, non ero certa che sarei stata in grado di alzarmi per farlo passare.
Rimasta sola con Vincent, anche se non stavamo parlando e lui sembra completamente assorto nei suoi pensieri, mi sentii improvvisamente a disagio.
Nell'aria aleggiava quella sensazione tipica dei momenti prima di una tempesta, della quiete oziosa che sapevi che sarebbe stata spazzata via in fretta.
Vincent si chinò per recuperare qualcosa sul fondo dello zaino, finendo però per sfiorarmi la parte della coscia vicina al ginocchio.
Non credevo che l'avesse fatto di proposito,eppure mi provocò una scarica di dolore improvviso.
Trasalii, cercando di mascherare la tensione che irradiava il mio corpo. Mi sentivo come un tronco, vecchio e immobile, a cui avessero appena staccato un ramo carico di frutti e, con essi, i semi che gli promettevano un nuovo avvenire.
Evidentemente non inghiottii abbastanza velocemente il suono che mi uscì dalle labbra, perché Vincent, ancora con le cuffie prese dallo zaino in mano, si girò a guardarmi con la sorpresa dipinta negli occhi azzurri.
"Non dirmi che adesso mi basta sfiorarti per farti svenire, Bella Addormentata."
Mentre arrossivo come un pomodoro e cercavo una risposta convincente, lui mi squadrò da capo a piedi soffermandosi sulle mie iridi castano miele e riuscendo, nonostante il piccolo bruciore che avvertivo ancora dove mi aveva sfiorata, a far fare una piccola capriola al mio cuore agitato.
Purtroppo, compresi troppo tardi, impiegai troppo tempo a formulare la risposta che più ritenevo adeguata.
Con voce tremante, completamente in disaccordo col timbro forte e sfacciato che lo contraddistingueva, Vincent mi domandò apprensivo:
"Ti ho fatto male? È qualcosa che riguarda la tua malattia?"
Col cuore che sprofondava, il cervello in tilt e il corpo rigido e immobile per la sorpresa, l'unica cosa che riuscii a dire fu:
" Quindi lo ricordi."
Speravo di poter fare cadere la conversazione, magari allegerendo la tensione che aleggiava fra noi con una battuta di spirito, ma lui continuava ad osservarmi in cerca di risposte. Mi terrorizzava la possibilità che avrebbe potuto non credermi, che avrebbe potuto dirmi che era tutto nella mia testa come in tanti avevano già fatto.
Ero terribilmente spaventata dalla prospettiva di parlargli della mia malattia e per un attimo mi ritrovai a sperare che una navicella aliena attaccasse l'aereo in quel momento.
Quando questo non accadde, qualche istante dopo, mi concentrai per rispondere nel modo più conciso e chiaro possibile.
" Ho la Fibromialgia, una malattia cronica non degenerativa che, semplificando al massimo, si traduce in dolore perenne."
Le mie parole si cristallizzarono fra noi, rimanendo impigliate come l'aria di una tempesta ghiacciata.
Di solito, a quel punto della conversazione, il mio interlocutore diceva qualcosa in tono sommesso come '' è terribile'' o '' mi dispiace molto'', dopodiché il suo interesse per la mia malattia scemava a tal punto da non considerarla più reale. Purtroppo, è difficile credere a ciò che non puoi vedere e toccare con mano; io avevo conosciuto la Fibromialgia anni prima e lei mi aveva accompagnata e distrutta in un modo così profondo che era impossibile pensare che qualcuno la credesse una semplice invenzione.
Vincent scandagliò il mio corpo alla ricerca di segni evidenti del mio malessere, posando lo sguardo ghiacciato su ogni centimetro di me.
Pensavo che, non trovando nulla a cui aggrapparsi, avrebbe abbassato gli occhi e lasciato cadere la conversazione, finendo per non parlarne mai più.
Tutti coloro a cui l'avevo detto, compresa Dee, non parlavano mai apertamente della mia malattia,
considerandola più come un fantasma che mi inseguiva che come qualcosa a cui si sarebbero potuti avvicinare. A me andava bene così, mi bastava che almeno le persone a me più care mi credessero, anche senza capire fino in fondo ciò che provavo ogni giorno.
In quel momento, però, Vincent mi sorprese.
" Ecco perché sei svenuta, quel giorno a scuola. Eri sfinita dal dolore."
Non era una domanda, bensì un'affermazione.
Ciononostante annuì lievemente mentre sentivo gli occhi che, senza alcun motivo apparente, si riempivano di lacrime. Forse perché nessuno mi aveva mai creduto così ciecamente, nemmeno Dee, o forse perché mi ero abituata ad essere lo sfondo delle storie altrui. Il suo corpo, i suoi occhi e l'anima che vi sostava all'interno erano pieni di consapevolezza, senza alcun dubbio, in un modo che non avevo mai sperimentato fino ad allora.
Da quel momento Vincent si fece silenzioso e io acconsentì perché sentivo che se avessi pronunciato un'altra sola parola sarei scoppiata a piangere. Non dubitai nemmeno per un minuto che si fosse zittito perché dubitava di me o della mia malattia, poiché anche senza parlare i suoi occhi non si staccarono mai da me per tutto il resto del viaggio. Anche quando Val si risistemò accanto a me e mi passò il braccio dietro la schiena, anche quando l'aereo atterrò, lui non accennò mai a dire una parola.
Mentre scendevamo, però, mi rimase vicino, la sua presenza che bruciava al mio fianco.
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