Capitolo III
L'ultimo giorno di scuola prima della gita di fine anno è sempre uno dei più belli.
Quella mattina era passata languida e inosservata fin quando, dopo l'ultima campanella, l'intero istituto, per quanto piccolo, era scoppiato in festa.
Facendo slalom fra tutti i ragazzi e le ragazze che uscivano, io mi diressi controcorrente, nelle viscere dell'edificio.
Bussai a una minacciosa porta in legno e qualche istante dopo un uomo pelato di mezza età, il vicepreside della scuola, mi fece cenno di entrare.
Lo salutai educatamente e iniziai subito a esporre la mia proposta, cercando di suonare il più convincente possibile.
Lui mi osservò senza battere ciglio finché, terminato il discorso che avevo preparato, non gli porsi un fascicolo ordinato con tutte le specifiche.
" Così può pensarci e, in caso fosse d'accordo con la mia iniziativa, proporlo alla preside".
L'uomo sbatté velocemente le palpebre, forse perché fino ad allora aveva creduto di potermi liquidare facilmente.
" Non saprei Cecily, non è una richiesta facile da esaudire".
Sapeva il mio nome perché in seconda era stato il mio professore di lettere, nonostante allora non pensassi che si sarebbe ricordato di me.
" Infatti la mia non è una richiesta, professore. È una proposta", spinsi ancora di più verso di lui il fascicolo, invitandolo a prenderlo e conservarlo nella scrivania, " ci pensi, potrebbe fare del bene a tante persone".
Il professore sospirò.
" D'accordo, vedrò cosa posso fare. Ma non sperarci troppo, è più un no che un sì".
Il viso mi si illuminò e un sorriso a trentadue denti si fece strada sul mio viso.
Quando uscii dall'ufficio, controllai gli orari degli autobus.
Avevo ancora bisogno di un paio di cose prima della partenza dell'indomani e il centro commerciale del paese vicino era il posto migliore per procurarmele.
Di solito non avrei mai azzardato così tanto: la scuola mi stancava già abbastanza per cercare di fare qualcosa direttamente dopo senza un minimo di riposo a sostenermi.
Quel giorno però si trattava di un'emergenza, quindi speravo che l'euforia per il viaggio mi mantenesse in piedi.
Comprai il biglietto e mi sistemai su uno dei sedili laterali del mezzo, grata di potermi riposare per qualche minuto.
L'autobus sì riempì velocemente e ben presto la gente si accalcò sempre più stretta.
Attraverso il finestrino, osservai languidamente il paesaggio cambiare mentre ci allontanavamo dal mio paese di provincia e ci avvicinavamo sempre di più alla città.
A metà del tragitto iniziai a sentirmi osservata e, anche se non sapevo perché, giudicata da un eterogeneo gruppo di individui che non avevo mai visto. La risposta al mio dilemma arrivò quando mi voltai di lato, scoprendo una signora sulla sessantina aggrappata al retro del mio sedile.
Sospirai piuttosto rumorosamente.
Nonostante la donna sembrasse abbastanza in forze, sapevo perfettamente di apparire anch'io in salute e le norme sociali mi imponevano di alzarmi e cederle il sedile.
Una delle cose peggiori di soffrire di un malattia invisibile era proprio quella di non apparire malati e, di conseguenza, di non venire giustificati mai se manifestavamo il nostri dolore.
Mentre gli sguardi di dissenso dell'autobus mi scavavano dentro, mi chiesi se non mi stessi immaginando le occhiate di rimprovero in risposta al mio senso di colpa.
Scossi la testa, non avrei permesso al mio dolore fisico di rovinarmi la vita e di farmi diventare pazza.
Affranta, mi alzai appolaiandomi nell'angolo del finestrino mentre l'anziana signora prendeva il mio posto, chiedendomi per quanto ancora sarei stata in grado di non cadere a terra sfinita.
In quel raro momento di sconforto, mi odiai con tutta me stessa e detestai a fondo la mia incapacità di essere una normale adolescente.
Appena l'autobus sì fermò al capolinea, mi catapultai fuori soffocando le lacrime che mi stavano bruciando gli occhi per uscire.
Prendendomi la testa fra le mani, feci alcuni respiri profondi.
Quando mi sembrò di essermi ristabilita, mi incamminai verso il centro commerciale, consapevole di aver sistemato il mio aspetto esteriore trascurando la matassa di emozioni che mi artigliavano il petto.
Il tortino al cioccolato del bar del centro commerciale mi stava fissando invitante.
" Non importa" risposi sconsolata mentre lo addentavo, immaginandomelo mentre si andava a posizionare sui miei fianchi.
Aver praticato sport a livello agonistico per più di metà della mia vita mi aveva donato un corpo forte e snello, ma non potendomi più allenare gli effetti dei miei sacrifici iniziavano lentamente a scomparire.
Ancora una volta maledii me e la mia stupida malattia.
Per distrarmi mi abbassai verso i sacchetti e cominciai a elencare mentalmente ciò che avevo acquistato, controllando nel frattempo di non aver dimenticato nulla.
Dopo averlo fatto per ben tre volte mi raddrizzai soddisfatta e sospirai rumorosamente.
" Cosa c'è che non va, Bella Addormentata? "
Avvampai senza nessuna ragione, chiedendomi se avessi il viso sporco di cioccolato.
Vincent mi si era materializzato davanti e si stava sedendo sulla sedia di fronte alla mia.
" Sono solo stanca".
Incrociai le braccia riacquistando sicurezza.
" Tu piuttosto, che ci fai qui?"
Vincent rifletté per un istante che durò un'eternità, forse decidendo come rispondere.
" Avevo delle faccende da sbrigare".
Sembrava che volesse aggiungere qualcosa, ma fummo interrotti da una risatina acuta e persistente.
Kelly e Martha, due ragazze della scuola, si stavano sbellicando dalle risate osservandoci.
Per un attimo provai il forte impulso di scappare nella direzione opposta, dopo raddrizzai le spalle e mi preparai all'imminente umiliazione.
Agitando la coda bionda, Kelly mi venne vicino e, col suo timbro acuto e sgradevole,esclamò:
" Oh Cecily, come stai?"
Confusa, la squadrai chiedendomi se non fosse impazzita. Il suo atteggiamento canzonatorio e sprezzante mi inseguiva da anni, dunque non fui sorpresa quando continuò la frase.
" Dimmi, come va la tua malattia immaginaria?"
Martha, sorridendo come una iena coi suoi grandi denti storti, sghignazzò dietro l'amica.
Abituata com'ero a quel genere di insulti, non mi arrabbiai più di tanto.
Quando incrociai lo sguardo di Vincent, però, gli vidi il fuoco negli occhi.
Scuotendo la testa, gli intimai di non fare nulla mentre mi alzavo per fronteggiare le due.
" Sapete ragazze, preferisco di gran lunga essere una malata immaginaria che avere il cervello che fa eco", guardai Kelly, " o non averlo proprio" conclusi rivolgendomi a Martha.
Lei mi guardò stranita e si voltò verso Kelly in cerca di spiegazioni.
" Il cervello, Martha, non avete il cervello" le chiarii.
Le due ragazze mi guardarono con disgusto prima di scomparire fra i pizzi di un negozio di biancheria intima.
Io e Vincent restammo immersi in un silenzio parecchio imbarazzante.
Dopo un po', Vincent si schiarì la voce e riportò gli occhi di ghiaccio sui miei.
" Che intendevano? Non ti senti bene?" mi sorprese il tono agitato della domanda e, soprattutto, la premura che ne traspariva.
Mi agitai a disagio sulla sedia, mentre la gamba destra iniziava a tremare dallo stress.
" Ho una malattia cronica, io..." sbuffai e risi con amarezza " Lascia stare, non preoccuparti".
" Dai Cecily...".
Due bambine spuntarono alle spalle di Vincent e lo abbracciarono da dietro.
" Vincent chi è lei?" gli chiesero senza filtri, come se io non fossi stata presente.
Vincent sembrò voler scomparire e scappare allo stesso tempo, impressione che si accentuò quando una donna richiamò le bambine.
"Bambine, smettetela di disturbare vostro fratello!" intimò, nonostante sembrasse altrettanto curiosa di scoprire chi fossi. I nuovo venuti avevano lo stessa identica tonalità di nero dei capelli di Vincent, anche se quelli della donna erano sfibrati e molto rovinati.
I suoi occhi, invece, erano di un marrone acquoso e cerchiati da profonde occhiaie che aveva sicuramente cercato di coprire con del correttore del colore sbagliato. Dai suoi vestiti veniva emanato l'odore dolciastro e pungente di un profumo scadente, eppure, superata la pesante barriera di quel tanfo zuccherato, un leggero sentore di alcol era chiaramente distinguibile.
Guardai Vincent che ormai aveva assunto il colore di un peperoncino, quindi decisi di prendere in mano la situazione.
" Piacere, sono Cecily" mi presentai stringendo la mano alla donna e sorridendo alle due bimbe.
Avevo già intuito chi fossero, tuttavia apprezzai quando, dopo essersi schiarito la voce più di una volta, Vincent si riscosse dal suo stato di trance.
" Cecily, loro sono mia madre e le mie sorelle, Beatrice e Olivia".
Poi, come un fulmine, si alzò dalla sedia e mormorò velocemente qualche scusa, dopodiché spinse letteralmente via la sua famiglia e mi fece un cenno di saluto.
Evidentemente, pensai, non voleva che li conoscessi; o forse era il contrario?
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top