Capitolo I

La mia migliore amica Dee mi stava venendo incontro, gli occhiali dalla spessa montatura rotonda che spiccavano sotto il sole primaverile.
I riccioli scuri le incorniciavano il volto e la pelle mulatta era messa in evidenza dalla t-shirt arancione fluo, il suo solito sorriso allegro le illuminava il viso e le scaldava lo sguardo.

“  Buongiorno tesoro, di che colore è la giornata oggi? ”

Nonostante ci conoscessimo da sempre, Dee si sentiva ancora a disagio quando si trovava di fronte alle evidenze della mia malattia, quindi avevamo tacitamente deciso di comunicare attraverso sottili non detti.
Quella domanda, in particolare, me la faceva ogni mattina per chiedermi come mi sentissi.
Prima di risponderle riflettei su tutte le articolazioni doloranti e sulle gambe che quel giorno sembravano esser pronte a spezzarsi.

“  Azzurro ceruleo” risposi, che nella nostra lingua speciale significava né bene né male.

Insieme andammo in classe e prendemmo posto una accanto all'altra, come sempre.
Al suono della campanella, il professore iniziò a fare l'appello e noi a rispondere educatamente.

“ Delfina Evie Ellermeyer”.

“ Presente” disse Dee con un cenno.

Poiché il mio nome, Cecily Iva Lefleur, si trovava più o meno a metà dell'elenco, trascorsi i rimanenti minuti in una sorta di trance, immersa nei miei pensieri. Ripensavo agli anni delle elementari e a come, ogni volta che qualcuno diceva i nostri nomi completi, io e lei ci scambiassimo un'occhiata d'intesa, come se il fatto che i nostri secondi nomi fossero simili fosse un segreto di cui solo noi due eravamo a conoscenza.
Quando le mie orecchie catturarono un nome nuovo, però, alzai lo sguardo,  improvvisamente incuriosita.

“  Vincent Valeriev ” stava chiamando il professore e un ragazzo nell'angolo dell'aula alzò la mano .
Mi girai verso la mia migliore amica.

“  E quello chi è?”

“ È uno nuovo, è arrivato la settimana scorsa. È piuttosto scorbutico, comunque, non parla mai con nessuno” sussurrò lei di rimando, omettendo che il motivo per cui non lo conoscevo erano le mie continue assenze.

A giudicare dal modo in cui era accartocciato sulla sedia, Vincent sembrava piuttosto alto. I capelli neri gli ricadevano selvaggi sul viso e gli occhi blu oceano ghiacciato brillavano in un guizzo di sfida.  Curiosamente però, non era il loro insolito colore ad attirarmi verso di lui, bensì la notevole quantità di piercing alle orecchie, ornate tanto da piccoli punti luce e cerchietti quanto da pendenti che riprendevano le forme di una sciabola.
Mentre lo osservavo, lui voltò velocemente la testa, fissando lo sguardo impetuoso su di me.
I suoi occhi mi squadrarono ovunque, con una tale intensità che mi fece arrossire e girare repentinamente. Aveva un modo di osservare che non trasmetteva curiosità, bensì una forma di disprezzo verso il mondo intero così elevata da bruciare la pelle con un solo sguardo di puro odio.
Improvvisamente mi sentii a disagio nei miei jeans a zampa e il sottile cardigan giallo.

Trascorsi il resto della lezione percependomi il suo sguardo addosso e, quando finalmente la campanella suonò la ricreazione, sospirai di sollievo.

Dopo che tutti furono usciti per andare in giardino, Dee prese la spazzola e una serie di elastici dal suo zaino, inclinando la testa in quel suo modo buffo per chiedermi se volessi fatta la solita acconciatura.
Io annuì lievemente e lei si mise a pettinarmi i capelli castano miele, le mani abili che scioglievano amorevolmente i nodi delle onde.
Avevamo la stessa routine da più di due anni, cioè da quando avevo avuto il coraggio di dirle che non riuscivo più a tenere sollevate le braccia per abbastanza tempo da farmi una qualsiasi acconciatura che non fossero una treccia lenta o una coda bassa. Intrecciando e spazzolandomi la chioma ondulata, fra un morso e l'altro al suo panino al formaggio, Dee mi fermò sulla testa due grosse trecce.

Quando fu soddisfatta del lavoro tirò un lieve fischio d'apprezzamento, in linea con la sua personalità esuberante, e insieme andammo verso gli spogliatoi per prepararci prima dell'ora di educazione fisica. 

Sostituii i jeans e il cardigan con una tuta leggera e sospirai riflettendo sull'ora di agonia che mi attendeva.
Poiché la mia malattia veniva considerata da molti come immaginaria, non avevo alcun tipo di deroga dallo sport.
Dee mi lanciò un'occhiata, la solita espressione impotente che le attraversava il viso.

“  Hai già usato la scusa del ciclo? “
Sbuffai, portandomi a fatica lo zaino sulle spalle per conservarlo.

“  Dieci giorni fa”

“  Faccio finta di sentirmi male così mi accompagni in infermeria?”

“  L'abbiamo già fatto tre settimane fa.” dissi sconfitta, dopodiché ci dirigemmo verso la palestra.

Val, diminutivo di Valerian Murphy,  i lunghi riccioli biondi legati in una coda bassa, ci raggiunse poco prima di entrare.
Lo conoscevo da così tanto tempo che non facevo neanche più caso agli occhi verdi incredibilmente scuri e profondi, come un bosco stregato. Da bambini eravamo soliti giocare alle fate e ai folletti e lui interpretava sempre l’anziano saggio che aiutava noi bambine nelle imprese, finendo invariabilmente per inciampare nel pesante bastone che insisteva nel volersi portare dietro. Sorrisi sovrappensiero, ricordando quei vecchi sprazzi di felicità con nostalgia.

La professoressa, una severa rossa di mezza età, ci fece correre in cerchio e, dopo, ci divise in due gruppi.
Grazie al cielo ero capitata con Dee e Val, sennò non credo che sarei stata in grado si supportare quel supplizio.
Non che io sia durata molto, comunque.
Iniziai a correre e scattare seguendo il percorso che ci era stato assegnato, fermandomi per saltare la corda e stendendomi per gli addominali.
Repressi una lacrima ripensando a quanto adorassi quei percorsi fino a pochi anni prima.
Quando giunsi alla fine tirai un sospiro di sollievo, che tuttavia mi si smorzò in gola quando l'insegnante ci incitò a ricominciare.
Val mi seguiva solidale, il fisico tonico e allenato che non lo faceva sembrare nemmeno un po' affaticato.
Al terzo giro mi voltai verso Dee ansimando.

“  Non ce la faccio più.” 

Sperai che Val non mi avesse sentita; eravamo sempre stati grandi amici, ma non so perché mi ero sempre sentita a disagio a confidargli della mia malattia e alla fine non c’ero mai riuscita.
Asciugandosi il sudore, la mia amica mi fece cenno di avvicinarci alla professoressa.

Mentre ancora protestavo, ben consapevole del responso che avremmo ottenuto, Dee ne richiamò l'attenzione.

“  Prof, Cecy avrebbe bisogno di una pausa per favore.”

La donna si girò con gli occhi spiritati e, col veleno nella voce, puntò gli occhi su di me.

“  Cecily, ne abbiamo già parlato mille volte, non ti giustificherò per la tua malattia immaginaria.”

Incassai il colpo in silenzio e posai una mano sul braccio di Dee, già pronta a fare guerra.

“  Non preoccuparti, andiamo.”

Riprendemmo a correre, cercando di riprendere fiato quando la professoressa si distraeva.

Feci il quarto giro, poi il quinto.
Dopo un po' Dee mi guardò apprensiva.

“  Sicura di farcela?” 

Feci per rispondere, ma l'aria mi mancò nei polmoni.
Come se lo sentissi da lontano, udii il tonfo del mio corpo che cadeva a terra, prima di serrare gli occhi e scivolare nell'incoscienza. Immaginai che Val mi avrebbe presa al volo, eppure l'ultima cosa che vidi furono un paio d'occhi di ghiaccio scavarmi nell'anima.

L'infermeria, una piccola stanzetta con le pareti verdi e un lettino, era diventata il mio posto preferito negli ultimi cinque anni, tanto d'avere la nomina di quella che si fingeva costantemente malata fra i professori. Purtroppo fra tutti i docenti, solo in tre credevano realmente alla mia malattia, tutti gli altri erano fermamente convinti che si trattasse di semplici dolori della crescita che una  '' ragazza fragile'' come me non riusciva a gestire. Ero certa, tuttavia, che se un ragazzo della mia classe avesse accusato gli stessi sintomi gli avrebbero immediatamente creduto tutti.
A volte essere una ragazza era tremendamente esasperante.

Dopo i primi istanti di smarrimento mi guardai intorno, cercando Dee.
Non mi era mai successo di svenire a scuola, ma di solito era sempre lei ad accompagnarmi quando stavo troppo male per restare in classe.
Quando puntai gli occhi sulla sedia nell'angolo la scoprii occupata.

“  Che ci fai tu qui? Dove sono Dee e Val?”

Vincent mi guardò per un istante, le labbra arricciate in un sorriso beffardo. Sembrava divertito dal tono implorante con cui avevo chiesto dei miei amici e la bocca gli si incurvò ancor di più quando udii il nome di Val uscirmi dalla bocca. Lo immaginai con facilità come uno di quei sadici ragazzi che strappavano le ali alle libellule per mero divertimento.

“ Bentornata fra i vivi, Bella Addormentata”. Mi osservò ancora, squadrandomi tutta. “ La professoressa non ha voluto che venissero, pensa che tu abbia finto lo svenimento solo per saltare la sua lezione. Dee le ha gridato contro così forte che penso che passerà il resto dell'anno a fare flessioni nell'angolo della palestra”.

Mi sorprese il modo lungo e articolato con cui rispose, probabilmente perché il personaggio che gli avevo affibbiato comunicava solo con versi e grugniti.
Strabuzzai gli occhi, improvvisamente infuriata.

“  Perché mai dovrei fingere di svenire, quella...”.

Trasalii quando mi resi conto dell'insulto di proporzioni epiche che stavo per sventolare ai quattro venti.
Lui sghignazzò ulteriormente e, mentre mi tiravo su a sedere, mi tese una mano.
Per quanto rude, immaginai che quello fosse il suo modo di presentarsi.

“ Vincent” disse, la voce roca e incredibilmente profonda. Non capii il motivo, ma all'improvviso mi ritrovai a reprimere un brivido.
Gli tesi la mano a mia volta.

“  Cecily “.

Lui sembrò riflettere un istante su ciò che voleva dire, poi parlò:
“  Quindi da queste parti è normale che una ragazza sia così poco allenata da non gestire una corsetta? O è solo colpa del mio fascino che ti ha stordita?”.

Mi infiammati immediatamente, come se mi avesse buttato addosso una tanica straripante di benzina e io fossi stata un fuoco impetuoso.

“  Come osi, io sono m-mal-” mi bloccai, d'un tratto incapace di terminare la frase.
Gli avrei detto che avevo una malattia, e poi?
Sarebbe stato realmente saggio provare a fargli capire qualcosa di così profondo come una malattia invisibile o si sarebbe limitato a scuotere la testa dandomi della bugiarda?
Alla fine comunque, non dovetti decidere perché scelse lui per me.

“  Malata? Stai cercando di dire questo?” aveva assunto un tono di voce e una calma studiata che mi fecero infuriare ancora di più.

Nonostante la collera però, non riuscii a dire altro se non:
“  Una cosa del genere, sì”.

Non mi piaceva raccontare agli altri della mia malattia, anche perché sapevo perfettamente non avrebbe creduto che ero svenuta dalla stanchezza dopo qualche giro di percorso. In passato avevo provato a dirlo ai miei compagni e amici, ma in pochi avevano pensato che la mia malattia fosse reale, a maggior ragione senza una diagnosi a sostenere la mia tesi.

“  Da quanto era spazientito la prof, direi che ti senti male molto spesso” Azzardò lui, continuando imperterrito a trattarmi con una pazienza e un'inflessione nella voce che avrei ritenuto esagerati anche nei confronti di una bambina.

Lo fulminai con lo sguardo, incurante di quanto potessi sembrargli maleducata.
Mentre mi sollevavo, determinata a concludere il più  velocemente possibile quell'incontro, Vincent si alzò a sua volta dalla sedia.
Contemporaneamente la porta dell'infermeria si aprì e Lottie, la dolce infermiera della scuola, entrò nella stanza.

“  Oh Cecy meno male, ti sei svegliata”. Disse con la sua voce melodiosa, i lunghi capelli castani raccolti in una coda di cavallo. Dato tutto il tempo che passavo lì ormai eravamo diventate amiche, anche perché non era molto più grande di noi. Peraltro la minuta infermiera era anche una delle poche persone che credevano davvero che fossi malata, facendo sì che si guadagnasse immediatamente la mia simpatia.
Vincent  lanciò un'occhiata a l'una e all'altra prima di decidere di congedarsi.

“  Beh, immagino di poter tornare in classe finalmente. Ci vediamo in giro, Bella Addormentata”.

Dopodiché salutò Lottie e uscì nel corridoio.
L'infermiera mi guardò sorridente.

“  Cosa?” chiesi confusa.

Per tutta risposta lei, venendomi vicina con fare cospiratorio, mi diede un leggero colpetto al fianco.

“  È carino, vero?”.

“  Lottie!” esclamai indignata “  È un gran cafone, vorrai dire” dopo abbassai la voce.

“  Tu non dovresti visitarmi?” continuai mettendomi le mai sui fianchi e scoccandole una scherzosa smorfia di rimprovero.
Lei sbuffò e mi fece sdraiare, perfettamente consapevole dell'inutilità della visita.

Stesa com'ero, mi lasciai andare ai miei pensieri e scoprii con sorpresa come questi fossero indirizzati completamente a un’insolente sguardo azzurro.

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