quarantuno

La vista annebbiata di Golden Uvula mette a fuoco l'olio su tela che le si presenta davanti. Nove scarpe nere laccate, quattro destre e cinque sinistre. La solitaria è accompagnata da una stampella di metallo; l'immaginazione la porta subito sulla nave di un gruppo di pirati, John Silver ha trovato nel freddo e rigido metallo una gamba migliore. Due scarpe sono sospese, una sul tacco l'altra di lato, Uvula ne osserva le suole incredibilmente pulite. Altre quattro stanno ferme vicino ai muri, uno opposto all'altro. E infine un paio di calzature – taglia quarantasei a occhio e croce – la fronteggia impavido. La testa penzolante della donna si muove appena appena, un colpo di tosse sommesso graffia la sua esile gola, fino a che le due scarpe che le puntavano contro non decidono di ridurre le distanze. Indice e pollice le pinzano delicatamente il mento, rendendole forza necessaria a sollevare il capo e inquadrarne il proprietario.

Gli occhi a mandorla dell'uomo sorridono inquietanti, la linea morbida e rilassata delle labbra si schiude per pronunciare l'esordio della conversazione. "Fai la brava, cerca di tenere il mento alto." Afferma con fare paterno. Lei obbedisce, si costringe a non sprofondare di nuovo in un sonno profondo. Così lui torna al suo posto e ripone le mani nelle tasche del completo nero in lana di cammello. Ora Uvula li vede: sono uno meno rassicurante dell'altro, di diverse altezze, diversi tagli di capelli. John Silver è il più vecchio, ma è andato e probabilmente malaticcio. Quello seduto attira l'attenzione, coi suoi capelli lunghi accuratamente pettinati in una coda bassa, le fossette ai lati del sorriso, la giovinezza a cui Uvula darebbe al massimo vent'anni e per il coltellino che si rigira con maestria nella mano.

"Datele da bere." Ordina l'uomo al centro ai suoi sottoposti, nella sua lingua madre e spaventando così la donna, ora con uno degli uomini che le va in contro. Solo quando vede la bottiglietta d'acqua aperta rivolgersi alla sua bocca, comprende cosa sia stato detto. E dunque – come se avesse viaggiato nel deserto per giorni – si accinge a posare le labbra sul collo di plastica. Ne beve ogni goccia, causando ilarità nei presenti, meno che nell'uomo al centro della sala. Si riserva di trattenere un po' di quel liquido in bocca, sputandolo così sull'asiatico che l'affianca ridendo. L'espressione muta, sta per sollevare persino la mano per darle in cambio una severa punizione, ma il capo lo interrompe servendosi dell'ennesimo ordine in lingua madre.

Le rende poi il tempo di capire dove si trova e in che condizioni: legata come un salame su un morbido materasso, bianco asettico. Polsi dietro la schiena, in una morsa che le fa perdere sensibilità alle mani, un'altra alle caviglie posizionate sotto le natiche. Polpacci e cosce tenuti assieme dall'ennesima corda. Ora che i suoi muscoli si stanno lentamente risvegliando, il dolore diviene sempre più lancinante.

"Troppo strette?" domanda l'uomo riferendosi alle corde. Uvula annuisce in un lamento, con due occhi grandi e lucidi come quelli di un cucciolo abbandonato. "Ne sono desolato. Credimi. Ma è stato un trattamento necessario; dopo che hai staccato il dito al mio amico non potevamo permettere che accadesse di nuovo. Questo genere di barbarie non è nel mio stile."

Il dito? È quello il sapore metallico che sente sulle pareti della bocca? Uvula ascolta con attenzione il tono pacato e gentile dell'uomo che ha di fronte. La proposta che sta per farle diventa allettante a mano a mano che il dolore s'intensifica.

"Ho intenzione di slegarti e anche presto, ma vorrei assicurarmi che tu comprenda di non essere in pericolo fino a quando non mi darai un motivo per deciderlo."

È lui a decidere quindi se Uvula è in pericolo, be', l'aveva immaginato quando l'è stato risparmiato lo schiaffo per l'affronto di appena un minuto fa. "Non mi piacciono i tuoi amici." Afferma contrariata, azzardando quella richiesta.
"Sì, lo avevo intuito." Conferma lui, mentre una risata vibra leggera tra i suoi denti. Poi, con un altro ordine in quella lingua a lei sconosciuta, dà inizio a un breve scambio di battute. "Lasciateci soli." Dice rivolgendosi ai quattro uomini.
"Ma boss. È pericolosa." Risponde quello con la camicia bagnata.
"Vuoi supporre che io non lo sia?"

Uvula non sa cosa gli abbia domandato, ma lo sguardo che gli ha rivolto potrebbe benissimo averlo zittito senza l'utilizzo delle parole. Fermo e sicuro, il capo attende che venga chiusa la porta alle spalle dell'ultimo dei suoi sottoposti. Ed ecco che finalmente torna a parlare con un idioma comprensibile... anzi, impeccabile, fluido e corretto al punto da far sorgere dubbi a Uvula stessa sulla propria nazionalità. Conosce la sua madre lingua meglio di quanto faccia lei.

"Vorrei slegarti, ma dovrai promettere di non tentare la fuga." L'avverte, di nuovo con quel fare paterno, sedendosi sul materasso assieme a lei e avvicinandosi a sufficienza da poter abbassare il tono di voce e farsi sentire comunque forte e chiaro. "Ti consiglio di pensare attentamente alla tua risposta, per due ragioni. La prima è che tengo molto alle promesse, do loro un peso significativo e se tu dovessi infrangere la parola data io sarò lieto di punire la tua indisponenza senza riserve. Ti sto facendo una promessa a mia volta, voglio sia ben chiaro che la manterrò." Uvula non conserva dubbi. Sa per certo che l'avrebbe presa molto sul personale e che l'avrebbe fatta pentire dei suoi vani tentativi. Batte le ciglia, prende fiato un po' alla volta, rendendo palese il terrore che la scuote. Poi lui prosegue. "La seconda ragione riguarda l'impossibilità dell'impresa. Non sarebbe la strategia vincente, te lo garantisco. E non lo dico per spaventarti... una parte di me freme all'idea che tu possa tentare. Ma sono un uomo onesto, non voglio mentirti, tengo alla tua fiducia. Dunque ti avverto che a malapena sarai in grado di uscire da questa stanza. E anche se riuscissi, nel migliore dei casi... dopo aver superato tutti i miei uomini, meno galanti di me nei modi, se davvero riuscissi a fuggire miracolosamente, io saprei come trovarti. Credo di averlo dimostrato. Dico bene?"

Uvula non perde ulteriore tempo, non ci pensa nemmeno a contraddirlo. Annuisce subito. Poi mormora un "Lo prometto." e il giapponese si avvicina ancora un po'. È alto, altissimo, a vederlo così Uvula non faticherebbe a credere possa raggiungere i due metri. Non è grosso di stazza, ha i muscoli di un karateka, definiti ma ben celati sotto le vesti. Li nota ora che la vista le sta tornando, li nota quando le sue lunghe dita affusolate si accingono a sciogliere ogni nodo: danzano sotto la camicia ad ogni sforzo. Qualche ciuffo nero gli copre a malapena lo sguardo. E l'odore... sa di candeggina, il che provoca inquietudine in Uvula se accostato all'ambiente asettico che li circonda. Per un solo istante la stanza si riempie di cadaveri e la luce diventa soffusa. Necessita di un po' di tempo per eliminare quella visione dall'immaginazione.

Liberata dalla morsa delle corde, Uvula massaggia ogni parte del corpo a cui ha perso sensibilità. Lo fa come può, disperata sotto lo sguardo del suo rapitore. Lui non accenna ad aiutarla, conscio di quanto potesse risultare inappropriato un gesto simile, seppur di buone intenzioni. Quando i movimenti della donna rallentano, lo spilungone le sistema delicatamente un ciuffo ribelle di quel caschetto perfetto, fissandolo dietro l'orecchio. Questo supera il confine, ma non è programmato; spontaneo nel curarsi della capigliatura sorprendentemente impeccabile della mora, riesce persino a sortire l'effetto opposto a quello previsto, irrigidendola al contatto e rilassandola poco dopo. È allora che lei mormora la sua prima domanda, dando voce a un dubbio che l'attanaglia da un po'.

"Tieni alla mia fiducia?"

Il giapponese ritira la mano e allarga il suo sorriso. Sembra fiero di lei, quasi la conoscesse da tutta la vita. "Ti sei soffermata sul dettaglio più importante. Sapevo di aver scelto la giusta alleata."
"Non sono tua alleata."
"Non ancora." La interrompe inarcando le sopracciglia, rivolgendosi a lei come ci si rivolgerebbe a un bambino indifeso. "Ma tutti hanno un prezzo Tania."

Nella testa di Uvula risuona un eco assordante. Quel nome non lo sentiva pronunciare da anni. La minaccia è chiara e il piccolo viso del fanciullo si frappone tra i loro sguardi. L'espressione si fa seria, rigida, gli occhi già umidi per il dolore ora portano la sofferenza di quel ricordo. Come osa chiamarla con quel nome?
"Che vuoi esattamente?" domanda con tono gelido, pragmatico. E dunque lui taglia corto, giunge al nocciolo della questione, onesto come s'era professato d'essere.

"Vedi... ti osservo da un po'. So che sei in contatto con Joshua Fitzgerald. E so che se Joshua Fitzgerald è qui, si trova con Vasilisa Yokumura."
"Non è il suo cognome." Contesta Tania. Ma lui la ignora, fingendo di non aver sentito e prosegue nella farneticazione.
"Quei due non riescono proprio a staccarsi l'uno dall'altra. È irritante. Non trovi?" l'ennesima minaccia velata giunge alle orecchie della donna. Si sta vantando di sapere, di conoscere lei e i suoi sentimenti. Perché sì, trova irritante quella morbosa vicinanza, senza dubbio. E lui n'è consapevole, li riconosce gli occhi dell'infatuazione. Tania è concorde: quella reciproca attenzione che si danno Josh e Vasilisa è soffocante, esagerata e fuori luogo nel contesto d'amicizia in cui si trovano. "Voglio parlare con lei. Solo parlare." Sentenzia l'uomo. "Voglio un incontro."

"Non puoi farlo tu? Sei bravo a trovare chi vuoi, no?" replica Tania, rigirando le parole da lui pronunciate a suo sfavore. Ma quella lama non ha effetto. L'uomo è a conoscenza dei suoi limiti e delle sue debolezze, sa fin dove può arrivare e lo ammette senza alcun timore. È questo a spaventarla: la coscienza lucida di un uomo così palesemente malato.
"No, non lei." Risposte scuotendo il capo. "Lei è una Yokumura. La trovi solo se vuole farsi trovare."
"Non è stupida, capirà e non vorrà farsi trovare da te."
"Ma vorrà farsi trovare da te. E da mia figlia." Afferma puntandole un dito contro. Il piano si delinea, lentamente, sotto gli occhi di Tania. E con esso anche l'identità del suo interlocutore. Per ora si tratta di un mero dubbio, ma è quasi certa di non star sbagliando.
"Tua figlia?" domanda scettica.
"Nana."
"Non è tua figlia."
"Non biologica, purtroppo. Ma si riconoscerà come tale... lei è meno testarda della madre, meno influenzabile."
Influenzabile? "Ma di che parli?" sussurra Tania, incredula e sempre più convinta di sapere il nome di quell'uomo. Lui a malapena l'ascolta, non la degna di chiarimenti, forse perché conscio anche di quanto folle sia ciò che sta affermando. Dunque Tania torna a concentrare la conversazione su ciò che gli interessa, contestando il suo inutile teatrino. È su questo che ottiene una reazione, una delucidazione di ciò che lei non aveva messo in conto.

"Li avevi tutti lì, a tua disposizione, al Red Time. Ma hai fatto saltare l'appuntamento."
"Non andava bene. Troppo affollato. Dovrai separarle dai loro cavalieri."
"Credi siano loro il problema? Che tu debba temere loro?"
"No, so bene chi temere. Ma quei tre sono elementi di disturbo che non voglio tra i piedi."
"Io non capisco di che parli." Si ripete, Tania. Stavolta lo fa ad alta voce, scandendo le parole e interrompendo una conversazione a due sensi, trasformandola in un monologo sentimentale e malinconico, degno di uno psicopatico.

"Tu non hai conosciuto la Vasilisa di Tokyo. Tu non hai avuto modo di vederla, quella giovane e meravigliosa creatura. Con il suo sorriso, la sua gioia, il suo tormento e la passione. Non l'hai vista a cavalcioni sul suo aguzzino mentre scavava a mani nude nel suo petto, pronta a divorargli il cuore. Tu non hai visto Vasilisa al fianco di mio zio, non li hai visti regnare su Tokyo. Non l'hai vista a New York, una stratega sadica e impulsiva che rosicchiava territorio espandendosi a dismisura, ammaliando ogni uomo fino a impadronirsi delle loro anime. Non l'hai vista risorgere dalle ceneri e cercare vendetta... ogni. dannata. volta. con ferocia. Quella è la volpe bianca dalle nove code. Non l'amica di Joshua, né l'amante di Winston. E Nana... lei è seconda a una figlia mai nata. Se la prima fosse venuta al mondo sarebbe stata la parte peggiore di Vasilisa, la parte debole, umana, insignificante. Ma a seguito di quel trauma, la mia volpe ha dato alla luce la parte migliore, lo scarto malvagio del suo organismo. Nana non ha nulla di umano. Nana è destinata a essere il demone che Vasilisa ha ostinatamente soppresso in sé per colpa delle stronzate propinatele da quegli omuncoli. Quegli elementi di cui credi io non debba curarmi, sono la ragione della loro debolezza. Se non li avessero attorno, sarebbero immortali e feroci. Non rinnegherebbero il loro destino."

Non vi sono più dubbi. L'uomo che le sta parlando e nientemeno che capo della famiglia Yokumura. Non un tramite, di quelli che sono soliti usare, che si presentano sotto falso nome e recitano la parte a memoria. No, Tania lo vede in faccia, privilegiata e a rischio come pochi in città. Il nipote del macellaio, di Gonshiro Yokumura, suo erede. Il nuovo Nikuya.

"È follia." Afferma Tania.
"Il mondo è folle a sottovalutarle."
"Tu sei folle a parlare di lei ancora come se vi appartenesse." Sbotta d'indignazione lei, sull'orlo della furia.
"Tu credi ai miti, Tania?"

Il cambio d'argomento denota quanto debole sia il tasto appena toccato. "Non proprio." Afferma la mora, mentre lui si alza in piedi. Si allontana, cammina fino al fondo della stanza e, con la faccia al muro, si ferma. Trascorrono circa cinque secondi prima che torni a voltarsi e si appoggi alla parete bianca.

"Ce ne sono anche su questa città. Proprio tu dovresti comprendere ciò che dico. Conosci i Kray, vivi nel perimetro di una città maledetta."
Ma Tania è pronta a contraddirlo. Sembra di parlare con un uomo di fede, di religione, che prova a convertire una pecorella smarrita. Ed è stanca di sentirlo blaterare in merito al suo credo. "Quella maledizione si chiama dittatura, si chiama corruzione. Forse tu non la vedi perché sei abituato a crearla, perché sei della stessa pasta di Roger Kray e sei solito alimentare certe fantasie per trarne vantaggio. È una tecnica vecchia quanto il mondo, esiste da quando esistiamo noi esseri umani; i potenti usano la paura per controllare la folla. E mi spiace deluderti ma solo questa è la maledizione di Dustville. C'è una spiegazione logica a tutto, come vedi." Rivendica la sua verità con forza, quasi ringhiandogli contro. E ora, pronta a rivelare la sua intuizione e cercarne una reazione che possa smentire o confermare quel che in cuor suo è diventata una certezza, Tania giunge al dunque e costringe il giapponese a far lo stesso. "Piuttosto... visto che sono qui contro la mia volontà e visto quanto onesto sei, che dici di darmi una risposta reale e completa? Qual è il piano, Sōsuke? Cos'è che desideri davvero?"

Il ghigno dello spilungone si estende sul volto privo di rughe. La sicurezza con cui lei pronuncia il suo nome, convinta di aver di fronte il vero Sōsuke e non una sua copia fasulla, riempie l'uomo di gioia. La fama che lo precede appaga e sfama il suo immenso ego.

"Desidero ricostruire. E partirò da questa città, il perfetto materiale grezzo su cui lavorare."
Scuote la testa con decisione, reputandolo folle ancor più che in precedenza. Dev'essere matto se crede di poter dominare e controllare un luogo selvaggio come questo. E dev'esserlo per ritenere lei in grado di aiutarlo. "Non ti darò le chiavi di casa mia. E non ti darò le Yoshima."
"Ho sperato fino all'ultimo che non lo dicessi. Sai, è un peccato. Per Fred, intendo. Lui contava su di te."

Detto ciò, rivelato anche il nome di quel fragile infante, Sōsuke indica il comodino al fianco della donna. Quieto, attende che lei apra il cassetto precedentemente riempito e scopra la presenza di una busta. La mano già tremante l'afferra, la porta sul materasso e la apre. Al suo interno vi sono una dozzina di foto sviluppate. Raffigurano un luogo magnifico e colorato, un quartiere di Los Angeles che lei conosce bene. E poi un bambino di appena tre anni che gioca in cortile, che mangia la merenda e che sorride alla sua famiglia.
Tania freme di rabbia, ma è inetta dinanzi a quella minaccia.

"È così che speri di guadagnarti la mia fiducia?" domanda infine.
Lui non muove un muscolo, ma in cambio mormora quel che sembra un sinceramente dispiaciuto "Solo se necessario."

E cosa dovrebbe fare a questo punto? Condannare l'innocente Fred? Vanificando la morte di sua sorella per darlo al mondo e farlo scappare da Dustville? Tania ha le mani legate. Non ha scelta, non può improvvisarsi eroina. Dev'essere prudente. Lo deve alla sorella. Lo deve al suo nipotino. Così confessa a testa china. "Non so dove si trovi Colin, dove nasconda Nana. Non è facile seguirlo. Se vuole un incontro è lui a contattarmi."
"Ma sai come contattare Fitzgerald." La corregge Sōsuke, prontamente. "Parti da lì."

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