45. ARCANA IMPERII

Edhel non ebbe il tempo di reagire. Un colpo violento, come un pugno assestato allo stomaco, lo spinse contro l'erba umida. Con una smorfia di dolore, provò a rialzarsi e allora lo vide, materializzato di fronte ai suoi occhi e splendente nel buio. Non aveva apparente consistenza, né sembrava possedere una forma stabile. Sembrava esistere solo in virtù dell'aria che incendiava.

Il Daimon del Fuoco avanzò verso di lui fluttuando con eleganza e decisione insieme. Aveva assunto l'aspetto di una miriade di piccole vampe che si muovevano ondeggiando compatte. Edhel ebbe persino l'impressione che le fiamme più esterne lo rivestissero come una corazza. Avevano assunto, all'estremità di quello che sembrava un braccio robusto, l'aspetto di una lunga spada fiammeggiante, mentre sul suo petto si allargavano come uno scudo. L'elfo rimase paralizzato di fronte a quella visione. D'istinto aprì una mano per allontanare da sé quell'essere, ma Nár gli scagliò contro un'altra sfera che lo ustionò, strappandogli un grido di dolore.

Edhel fu sbalzato fuori da quello stato di inerzia che gli aveva paralizzato i sensi e capì che sarebbe morto in qualche orribile modo se non avesse raccolto le forze e non si fosse difeso. Si obbligò a rimettersi in piedi, proprio mentre una nuova palla infuocata rotolava verso di lui. La schivò con un balzo e la minaccia finì alle sue spalle, disperdendosi in una esplosione di luce rossastra. Il ragazzo non si fece distrarre da quel bagliore. Distese il braccio e respinse un nuovo attacco.

Il Daimon si arrestò di fronte a lui. L'aria intorno cominciò a frusciare e si animò di faville che schioccavano come ramoscelli spezzati. Sollevate da due invisibili mani, le scintille si elevarono e aumentarono di dimensione. Piccole pietre infuocate presero a ruotare intorno al corpo di Edhel, che le osservava circospetto. D'un tratto, come satelliti attirati dalla forza di una stella, si precipitarono su di lui.

L'elfo si sentì perso, ma subito si disse che non poteva finire in quel modo. Chiuse gli occhi e prese fiato. Non provò a guardarsi attorno, ma si concentrò sugli spostamenti che percepiva nell'aria, e all'improvviso cominciò a lottare.

Un colpo, un altro, un altro ancora... respinse ogni sfera, muovendo le mani con una precisione che non pensava di possedere. Non stava più ragionando e, in realtà, non stava più nemmeno combattendo: per la prima volta, si stava abbandonando al piacere stesso del combattimento.

In cuor suo tributò un ringraziamento all'assiduo esercizio cui Mellodîn lo aveva sottoposto. Spostarsi con agilità, bilanciare il peso sulle gambe, prevedere la direzione dell'attacco: tutto gli veniva dalla spada. Nello stesso tempo, nella sua mente, prese forma un altro ricordo, in cui le braccia si intrecciavano con maestria, con un movimento calmo e deciso allo stesso tempo. Un'immagine che, infine, balzò fuori in tutta la sua familiarità: non c'era nulla che potesse ispirarlo meglio, nulla che potesse aiutarlo di più, nulla che assomigliasse tanto a quelle movenze quanto la danza delle spade di Aidan!

Edhel si lasciò guidare da quel pensiero e, quando non ci fu più nessuna sfera da contrastare, si fermò al centro della radura e fronteggiò con sguardo feroce il suo Daimon. Non sapeva quanto tempo fosse durato quello scontro, né per quale motivo fosse iniziato. Nulla aveva più importanza, tranne il fatto di uscirne vincente.

Un Daimon non si può distruggere. Può solo mutare di forma, ma è eterno.

Edhel lo sapeva e, tuttavia, era più che mai deciso a batterlo, con ogni mezzo in suo possesso. Si preparò a ricevere l'onda d'urto di una nuova magia e distese le braccia davanti al viso. Orientò le palme aperte secondo una precisa linea verticale e cominciò a evocare l'incantesimo distruttivo più potente che conosceva.

Nár rimase impassibile, con lo scudo di fuoco sollevato. Edhel continuò a recitare la formula a denti stretti ma, un attimo prima di liberare il suo potere, si sentì afferrare e trascinare a terra. Perse l'equilibrio e la magia si interruppe, mentre il suo sguardo sorpreso correva a fissare le gambe.

Delle escrescenze lucenti si erano avviluppate attorno a lui, per poi ritirarsi. L'elfo fissò allora, alla destra di Nár, una sagoma sottile e flessuosa: Nén, colei che prende la forma di chi la contiene, era apparsa, modellata secondo un'immagine del mondo. Il suo corpo trasparente e lucido aveva le fattezze e il volto di una donna bellissima. Piccoli getti cristallini si avviluppavano tra di loro, intrecciandosi in una folta capigliatura. Le mani si muovevano come in una danza, senza celare i seni torniti e la vita sottile, ma la parte inferiore era come di pesce. La coda ondeggiava flessuosa, rilucente di scaglie, dividendosi infine in una miriade di tentacoli.

Edhel comprese che avrebbe dovuto fronteggiarli entrambi. Rimpianse di non essere tornato da Aidan e di non essersi riconciliato con lui, e gli balenò anche in testa che gli sarebbe piaciuto baciare di nuovo Silanna, per riprovare un'ultima volta la sensazione che aveva sperimentato. Poi riuscì solo a pensare che non ce l'avrebbe fatta e che la strada che aveva imboccato era senza ritorno.

Guardò i due Daimon che per anni aveva evocato e comandato secondo il suo capriccio. Si rese conto che troppe volte li aveva chiamati per il personale piacere di esibire il suo potere e che quella notte avrebbe pagato anche per lo scarso rispetto dimostrato, e si preparò a combattere.

Come se il suo spostamento avesse mutato gli equilibri, i due spiriti gli scagliarono contro, all'unisono, la propria potenza. La danza ricominciò, più veloce e più ossessiva. La grazia del movimento nascondeva la fatica estrema, la tensione dei muscoli, l'affanno del respiro. La trance indotta dalle bacche lo liberava da ogni paura e la cadenza dei colpi era dettata dai battiti del cuore. 

Edhel si abbandonò a quella lotta come un uomo vinto tra le braccia di un'amante, ma alla fine dovette comunque arrendersi all'evidenza: gli attacchi incrociati dei due Daimon l'avevano messo alle strette, tutti i suoi sensi erano indirizzati a prevenire i colpi e lui non riusciva a essere offensivo in alcun modo.

Perdonami, Aidan...

I lampi di fuoco gli ferivano la vista, mentre i tentacoli schioccavano implacabili come fruste, sempre più vicini al suo corpo. Il rumore di una violenta pioggia di fuoco tuonò nelle sue orecchie, con lo stesso suono di distruzione a lui tanto familiare.

Perdonami, Aidan...

Urlò un incantesimo contro il cielo. Un fragile scudo gli permise di sfuggire a quell'attacco e di osservare con angoscia la minaccia che lo circondava.

No, non è vero... non mi pento, non mi pento, non mi pento!

Edhel stramazzò al suolo. Una nuvola di luce cangiante si muoveva sopra di lui, sfaldandosi alle estremità come stoffa lacerata. Incapace di sopportare il bagliore e la stanchezza, chiuse gli occhi e si abbandonò.

Sbatté le palpebre con difficoltà. C'era ancora troppa luce che gli impediva di vedere. Provò a farsi schermo con la mano, ma non ci riuscì: non aveva più controllo sul suo corpo e gli parve di non esistere più sul piano fisico. Solo la vista e l'udito erano amplificati al massimo. Con la coda dell'occhio, vide le Rune disposte nel modo in cui le aveva lasciate e comprese di essere disteso al centro del cerchio magico. Il chiarore sopra il suo capo giungeva intermittente a bruciargli gli occhi e i pensieri. Di colpo fu di nuovo buio nella sua mente. Un buio senza fine e senza speranza, dove sopravviveva solo un suono.

"Chi sei tu?"

"Sono Edheldûr, figlio di Maldor".

"Cosa vuoi?"

"Io sono Signore di Spiriti e...".

"Non si direbbe, dal momento che hai perso il tuo scontro".

"Sono Signore di Spiriti!"

"Sei stato sconfitto, sei stato dominato!"

"Non sono dominato... io sono il dominatore! E avrò tutta la conoscenza del mondo, perché è per questo che sono qui!"

"Sei ostinato, Edheldûr Maldorion, ma sul tuo cammino stanno per sorgere gli spiriti che tu hai liberato. Mira, dunque, Signore di Spiriti!"

La voce che risuonava nella sua testa, pronunciò quel titolo con una vena di pesante ironia, prima di spegnersi nell'eco di una risata. 

Quando pensò di essere solo, l'elfo, si sforzò di aprire gli occhi, con curiosità e paura insieme. Riverso sulla schiena e ancora incapace di qualsiasi movimento, poté fissare solo lo schermo del cielo che lo sovrastava.

Il buio fu squarciato da un lampo improvviso. L'etere prese fuoco e divampò di fiamme. Edhel si sentì circondare dalla luce scarlatta del sole al tramonto, nonostante la luna fosse ancora alta nel cielo e la notte profonda. Spostò lo sguardo da Oriente a Occidente e i suoi occhi si riempirono di meraviglia: sopra il suo corpo disteso stava scorrendo il mattino, l'alba, poi di nuovo la notte, seguita da un altro tramonto. In un tripudio di rosso, di oro, di indaco acceso, vide il tempo accelerare il suo corso, svelandogli il passato. In una sequenza incoerente e sconvolgente, frammenti di immagini si spezzettavano nella luce, come se una mano li stesse sbriciolando sotto il suo sguardo.

Edhel cominciò a tremare. La sua mente, presa d'assalto da quelle visioni, non aveva il tempo di comprenderle, né la possibilità di sfuggirle, perché realizzò di non poter più abbassare le palpebre. Cominciò a urlare per il dolore pulsante alle tempie che gli provocava quella sequenza furiosa. Urlava e urlava, e intanto i giorni regredivano.

Vide Uomini ed Elfi, eserciti e sangue. Vide Galanár tagliare la gola di un nemico, i bardi sognare l'Idra di fiamma, poi suo padre, di nuovo giovane, piangere sui cadaveri dei suoi soldati. Vide volti e luoghi che non conosceva: gli Elfi che costruivano le torri di Laurëgil, le possenti mura di Valkano e la sua immensa biblioteca ancora intatti, e gli Antichi Maestri che scrivevano, ispirati dagli dei.

Il cielo di zaffiro, limpido e sereno, si contorse e mutò in una volta infernale, contaminata da vapori di fuoco, per ricomporsi nel chiarore della luce. L'isola di Ernendir gli apparve, risorta dalle acque, ed Edhel ammirò le prime vestigia del mondo, quando solo gli Eldar, ancora immortali, camminavano tra le foreste.

Catapultato sempre più indietro nel tempo, tutta la conoscenza del mondo si stava riversando nella sua testa senza che lui potesse opporsi. Indietro, ancora indietro, quando la terra si contendeva gli spazi con il mare, e Aria e Fuoco combattevano nelle volte del cielo, l'incantatore vide infine i Quattro Grandi Daimon nella loro essenza primigenia, mentre forgiavano l'anima del mondo.

Le pupille dilatate, gli occhi asciutti, Edhel smise di urlare, allucinato da quelle scene che si erano moltiplicate e scontrate con la sua inerme volontà. Resistette fino a quando le forze gli si prosciugarono del tutto, e finalmente riuscì ad abbassare le palpebre.

"Ora, Fëantúr... ora hai avuto ciò che avevi richiesto: tutta la conoscenza del mondo!", tuonò  la voce, colma di oscuro sarcasmo.

Una lacrima scivolò dagli occhi di Edhel, un attimo prima che perdesse i sensi.

"Herunya...".

Edhel fu scosso da un sussulto improvviso al petto, come se l'aria gli fosse entrata per la prima volta nei polmoni.

"Herunya Edheldûr?".

La voce di donna somigliava a una carezza, ma lui si rifiutò di aprire gli occhi. Tremava al solo pensiero di sollevare le palpebre. Dubitava perfino di essere ancora vivo.

Una mano leggera, ma fredda, gli sfiorava i capelli. Si fece coraggio e si decise a guardarsi attorno: giaceva nell'erba umida e il suo capo poggiava sulle ginocchia di Nén o, meglio, su quello che si era materializzato come il corpo liquido di Nén. Il Daimon gli passava le dita trasparenti tra le ciocche fulve, con dolcezza. Il volto mutevole si era increspato in un sorriso materno. Nár fluttuava ancora di fronte a lui, ma non aveva né lo scudo, né la spada fiammeggiante.

Non sapendo cosa attendersi dalla strana compagnia in cui si era ritrovato, Edhel si sollevò e indietreggiò strisciando. Con suo enorme sollievo, si accorse di aver ripreso possesso del proprio corpo. Aprì piano le mani, che aveva tenute contratte per tutto quel tempo fino a farsi sanguinare le palme, quindi si limitò a passare lo sguardo sui due Spiriti, senza osare fare un fiato.

"Tu sei un essere eccezionale, Edheldûr, figlio di Maldor".

La frase sgorgò dalle labbra lucide e trasparenti di Nén come lo scroscio di una sorgente di acqua pura. Era la stessa voce che lo aveva risvegliato. L'elfo la fissò con stupore, nell'udirla parlare nella lingua degli Uomini.

"Hai dimostrato di essere degno del titolo di Custode, noi ti riconosciamo come nostro Daimonmaster".

La figura si fletté in un lieve inchino, mentre la forma vaga di Nár si agitava, aumentando l'intensità della sua luce in segno di approvazione.

"Il tuo potere è grande, giovane Elda", osservò ancora il Daimon dell'Acqua. "Sono passati molti secoli dall'ultima volta che un Custode ha manifestato la tua potenza e da quando l'ultimo supremo Daimonmaster ha superato una simile prova".

Nár si accese di scintille dorate. La sua voce, quando parlò, aveva l'allegro scoppiettio e il calore della legna che arde in un camino, ma il suo tono era severo, mentre aggiungeva:

"Ma il tuo potere, rammentalo, è il tuo maggior pericolo. Hai sfidato gli dei come nessuno avrebbe osato fare e con la tua tracotanza hai rischiato di distruggere te stesso".

"Tuttavia, hai superato la prova", lo interruppe Nén, benevola, "e adesso siamo qui, e abbiamo preso questa temporanea forma visibile, per presentarci a te e sottometterci alla tua custodia".

Edhel sentì che la sua lingua era ancora incollata al palato. Non sarebbe riuscito ad articolare un suono. Si limitò ad annuire con un movimento nervoso.

"Come usano fare nel vostro mondo i re e i loro vassalli", proseguì Nár, "noi siamo qui per stringere un patto di lealtà e fiducia, di soccorso e difesa. E, proprio come vassalli, i Daimon offrono un dono al proprio signore, a suggello di questo patto inscindibile".

Pur non distinguendo in lui un volto umano, Edhel sentì che Nár lo stava osservando in maniera penetrante.

"Quindi, Herunya Edheldûr, quale dono domandi ai tuoi Daimon?"

Edhel aprì le labbra, sul punto di rispondere, ma le richiuse. Sentì che l'occhio severo di Nár era ancora su di lui ed esitò.

"Non avere fretta", aggiunse quest'ultimo. "Scegli con giudizio il dono da richiedere".

L'elfo abbassò le ciglia, come per riflettere, poi levò sui Daimon uno sguardo pieno di sicurezza.

"Poiché questo dono sancisce la nostra unione fedele, io voglio per me... i quattro Ëalamir".

Quella parola tremò nel silenzio ed Edhel, per un unico istante, ebbe quasi paura di averla pronunciata. Nén si girò verso il suo compagno con uno scroscio d'acqua che sembrava rivelare un moto di sorpresa.

"Non è quello che ha desiderato...", suggerì con urgenza e preoccupazione.

Nár reagì con la stessa inflessibilità mostrata all'inizio.

"No", replicò, "ma è quello che avrà. Il Daimonmaster ha parlato".

Edhel non ebbe il tempo di chiedere spiegazioni. Il cielo si riempì di nuovi colori e le forme che i due Daimon avevano acquisito si distrussero in una scintillante esplosione. Una miriade di piccole gocce brillanti cominciarono a ruotare attorno all'elfo, assieme a centinaia di lapilli di fuoco. Erano così rapidi che lui riusciva a distinguere solo la scia luminosa che circondava il suo corpo come una spirale. Le minuscole particelle parvero infine convergere e collassare l'una sull'altra in un'unica massa, che si scagliò contro di lui.

Edhel provò un dolore lancinante al braccio sinistro, come se un colpo di spada gli avesse trapassato il bicipite da parte a parte. Sollevò la manica, cercando una ferita, ma non trovò nulla di ciò che aveva temuto: sulla sua pelle erano state incise le quattro Rune dei suoi Daimon e dei loro Aspetti gemelli.

Mentre ancora esaminava i contorni rossastri di quelle figure, un tripudio di gocce liquide e di fiamme lo obbligarono a serrare le palpebre, per non restare accecato dallo splendore esploso davanti ai suoi occhi. Quando li riaprì, al centro del cerchio magico, era stato depositato un piccolo ciondolo. Due volute di metallo lucido, appena forgiato nel fuoco, si intrecciavano tra loro e reggevano quattro gemme. Erano la riproduzione perfetta e miniata degli angoli del libro. Edhel stese subito la mano per prendere il monile e, appena lo sfiorò, due pietre lanciarono un bagliore, azzurro e rosso, mentre le altre rimasero inerti. L'elfo se lo strinse al petto come se fosse stato il suo unico tesoro e fissò lo spazio vuoto davanti a sé, dove prima fluttuavano le forme visibili dei suoi Daimon.

"Adesso sono più della mia stessa sapienza!", esclamò. "Il patto di fedeltà è stabilito".

Chinò il capo di fronte al creato che lo fronteggiava, in segno di rispetto, e la radura si rianimò dei rumori della notte.

Un attimo prima che il tempo ricominciasse a scorrere nel giusto verso, due voci nel vento dispersero le loro ultime parole prima di sparire:

"Salute al nuovo Supremo Daimonmaster!"


NOTA DELL'AUTORE

Arcana imperii indica letteralmente "i segreti del potere" o "i principi del potere". L'espressione la troviamo nelle Historiae e negli Annales di Tacito. Il termine è entrato a far parte, in seguito, del linguaggio politico, andando a identificare i "segreti di stato", ovvero il funzionamento segreto di ogni governo.

L'appellativo elfico che i Daimon utilizzano alla fine nei confronti di Edhel, Herunya, si traduce invece con "mio signore".

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