44. SINE MORE
"Devi avere per forza un motivo per farlo?"
Edhel fissava il gemello con le braccia incrociate sul petto e uno sguardo carico di disappunto: stava perdendo un sacco di tempo mentre Aidan, ancora seduto al centro del letto, lo guardava tranquillo come se la sua ansia non lo toccasse.
"Non devo avere un motivo, Edhel... ma di certo mi piacerebbe averne uno".
"Ho bisogno che tu legga qualcosa che io non riesco a leggere", rispose d'un fiato.
Aidan, a quel punto, lo scrutò con sospetto.
"Di che si tratta?"
"Non fare sempre domande!"
L'arciere distolse lo sguardo e scosse il capo con disapprovazione.
"Dunque, lasciami ricapitolare: mi svegli alle prime luci dell'alba e mi chiedi di usare la Vista con Menelok per leggere qualcosa che tu hai tentato di decifrare per tutta la notte, ma non vuoi dirmi di che si tratta".
Edhel si sorprese: Aidan aveva davvero notato la sua assenza notturna o aveva solo tirato a indovinare?
"Non sto facendo nulla di scorretto o di pericoloso, se è questo che temi. È un libro che mi serve per i miei studi".
"Un libro...", rifletté l'altro a bassa voce. "Il libro, vuoi dire. Quello che hai rubato a Valkano".
"Non l'ho rubato. Semmai l'ho salvato".
Aidan annuì in silenzio. Quella accorata difesa in Edhel equivaleva sempre a una mezza confessione.
"Sei sempre il solito: imprudente e sconsiderato", concluse con un mezzo sorriso. "E io... io sono uno sciocco!"
Ancor prima di completare la frase, si era alzato in piedi, aveva aperto la falconiera e stava sfilando il cappuccio dalla testa del suo rapace. Edhel appoggiò il volume sul tavolo, sotto la grande finestra, dove la luce avrebbe agevolato l'operazione. Si fece da parte e lasciò il fratello libero di agire. Trattenne il fiato per tutto il tempo in cui l'altro era sprofondato nell'incantesimo ma, appena Aidan si staccò dalla Vista, lo investì con la violenza delle sue domande. Il ragazzo sbatté le palpebre, confuso da quella raffica di parole, ma alla fine gli rivolse un sorriso.
"Hai ragione: c'è un disegno inciso nel gioiello".
Esitò, come per riorganizzare le idee mentre Edhel restava sulle spine, bramando il seguito di quella frase.
"Non è proprio un disegno... sembra sospeso all'interno della pietra, come se avesse sostanza propria".
"Che forma ha?".
"È simile a una sottile asta ricurva nell'estremità superiore", e tracciò il segno nell'aria.
Edhel lo seguì con lo sguardo e di colpo l'immagine assunse nella sua testa una consistenza familiare.
"Nén!", esclamò.
A quelle parole, un bagliore azzurro parve lampeggiare sull'angolo del tomo.
"Parma Eldaëalaron...", recitò l'elfo, mentre in viso lo stupore iniziale cominciava a tramutarsi in consapevolezza. "Avrei dovuto capirlo subito!"
Guardò il fratello con aria trionfante, prese il libro e fece per andar via. Si trattenne solo un istante sulla porta.
"Grazie", disse in fretta, poi sparì prima che Aidan potesse chiedere altro.
Salì di corsa in cima alla torre. Illuminata dal sole, la stanza appariva diversa: più grande, ma anche più spoglia. Una strana sensazione lo colpì appena entrato, come se si fosse trovato nel posto sbagliato, ma subito tornò a concentrarsi sul volume che stringeva tra le mani: da dove avrebbe cominciato?
Aidan gli aveva fornito un indizio fondamentale, ma non conosceva comunque la giusta procedura. Aveva una sola certezza e a quella si sarebbe aggrappato. Sedette in terra, incrociò le gambe e vi poggiò il libro.
"Vieni Nén... lascia che io ti veda!", mormorò, cercando di concentrarsi sul suo Arcano.
Mentre ripeteva quella preghiera, Edhel iniziò a ricordare con crescente chiarezza gli insegnamenti ricevuti. Realizzò chi era e qual era lo scopo della sua esistenza. Abbandonò ogni opposizione e lasciò al suo Daimon la libertà di emergere e di entrare in comunione con lui.
Nén iniziò a cantargli nelle orecchie e a fluttuare nella sua testa. La pace dell'Acqua si impossessò del suo corpo ed Edhel se ne lasciò cullare. Un lampo di un azzurro intenso gli ferì lo sguardo: proveniva dal gioiello che aveva fatto osservare ad Aidan. Al centro del cristallo, la Runa dell'Acqua fluttuava, emanando un bagliore soffuso.
"Nén, lascia che io veda la conoscenza", supplicò con la voce rotta dalla meraviglia, mentre apriva il libro.
Appena ebbe sollevato la pesante copertina, un lampo balenò fuori dalle pagine e si disperse nell'aria. Edhel corse a cercare il punto in cui la sua lettura si era interrotta: il foglio, bianco in precedenza, era vergato di fitte scritte in blu. Il nuovo capitolo parlava di Nén e delle sue meraviglie, ed elencava ogni incantesimo possibile al suo Daimonmaster.
Curioso di verificare le sue supposizioni, Edhel saltò alla fine della sezione: il trattato sul Daimon dell'Acqua si concludeva con una elaborata incisione, poi le pagine scorrevano di nuovo candide. Era senza dubbio la migliore magia protettiva che gli Alti Elfi avessero potuto elaborare. Il libro sarebbe rimasto inviolabile agli occhi di tutti. Solo colui che possedeva l'Arcano poteva evocare la conoscenza del proprio Elemento, e unicamente di quello.
Non gli restava altro da fare che chiamare Nár. Lo spirito delle fiamme giunse violento e irruente, secondo la propria natura. La gemma rossa iniziò a brillare e un fascio di luce color rubino sostituì il lampo azzurro, mentre le pagine si riempivano di parole di fuoco. Ancora una volta, Edhel le sfogliò fino alla fine, per trovare conferma alle sue teorie.
Girò l'ultima pagina e poggiò la mano sul foglio vuoto con un sospiro: non avrebbe mai avuto modo di vedere il resto. Mentre cercava di rassegnarsi al pensiero, dalla sua mano si irradiò un lieve bagliore. Dal punto in cui le sue dita premevano la carta, delle scritte dorate si arricciolarono e andarono a riempire il bianco. Apparve un altro capitolo che Edhel non si aspettava di trovare e del quale non riusciva a immaginare il contenuto.
Di norma, alle creature scelte dagli Dei come futuri Fëantúri, viene concesso un unico Arcano, nonché la custodia di un unico Daimon, perché un potere troppo grande non dovrebbe mai albergare in un solo individuo.
Si tramanda, tuttavia, nella millenaria storia degli Elfi, l'esistenza di alcuni esseri dotati di una speciale grazia: essi possiedono più di un Arcano.
In modi e con motivazioni differenti, sono generati per imperscrutabile volere divino, allo scopo di compiere meraviglie agli occhi del mondo, financo di riscriverne la storia.
Seguiva un elenco di istruzioni e di incantesimi, sotto una dedica ben specifica a indicarne la destinazione: Al Supremo Daimonmaster.
Edhel distolse lo sguardo. Era troppo agitato per riuscire a prestare la giusta attenzione a quelle righe. La sua testa era un caos di domande: perché Vargas non gliene aveva fatto parola? Era possibile che ignorasse quel dettaglio?
Se dettaglio, poi, lo si può chiamare...
Un dettaglio che lo rendeva più che speciale.
Lo rendeva unico.
Quando tornò da Aidan, sul far della sera, l'umore del gemello era del tutto cambiato rispetto al mattino. Lo trovò intento a sistemare le sue armi, cupo, scontroso e poco incline alla chiacchiera.
"Dov'eri finito?", gli chiese senza troppi convenevoli.
Edhel lo squadrò un istante, punto da quel tono inquisitorio, e non rispose.
"Galanár ha chiesto di te, e Mellodîn, e persino Aegis!"
"Non ho tempo per loro", cercò di tagliare corto.
"Dovrai trovarlo!"
In qualsiasi altro momento, Edhel avrebbe cercato di scoprire i motivi di quell'atteggiamento, ma, preso com'era dalle sue scoperte, gli sembrò solo un fastidioso impedimento.
"Non posso occuparmi di piani e battaglie adesso... prendi tempo per me".
"Non posso giustificare in eterno le tue assenze. E non voglio farlo!"
Di fronte a una resistenza cui non era abituato, Edhel prese fuoco.
"Invece lo farai!", sbottò, prima di ripiegare su un tono più conciliante, nel tentativo di toccare il cuore di Aidan. "Perché io ho bisogno di te".
Il fratello gli girò le spalle, come se non avesse nemmeno aperto bocca. Prese un arco dalla parete, si sedette e iniziò a lucidarlo. L'elfo lo fissò sconvolto, sconcertato dall'idea di essere stato ignorato a quel modo.
"Che succede?", chiese a quel punto. "Non vuoi nemmeno sapere perché ti chiedo aiuto?"
"No. Chiedere il mio aiuto è per te una pratica così normale da essere diventata orribile".
Edhel non riuscì a replicare, perché l'espressione di Aidan si era fatta di colpo dolente.
"Perché?", proseguì l'arciere con voce ferita. "Perché io devo sempre aiutarti, mentre tu non ti curi affatto di mettermi nei guai?"
L'altro scosse il capo, come per respingere quell'accusa. Gli si avvicinò di qualche passo, restando comunque a distanza.
"Da quando siamo tornati da Valkano ti comporti in modo strano", commentò. "Non ti riconosco più".
A quelle parole, il ragazzo mise l'arco da parte.
"Io non sono strano. Sono solo stanco di comportarmi secondo quello che tu e Galanár vi aspettate da me".
Si alzò in piedi e in un attimo gli fu di fronte, inchiodandolo con uno sguardo duro.
"Perché continuate ad agire come se non fosse accaduto nulla? Tu che sfuggi a una morte quasi certa e ti preoccupi soltanto di salvare un libro, Galanár che non esita a chiedermi il sacrificio dei miei uomini purché io riporti indietro la sua amante... ed entrambi vi sorprendete del mio turbamento? Come se io dovessi per forza considerare tutto questo come una vittoria!"
Edhel fece una smorfia.
"Io e Galanár non agiamo alla stessa maniera", puntualizzò.
"Non è vero", lo contraddisse l'arciere. "A volte penso che tu e Galanár siate fatti della stessa pasta. Anzi, tu sei il peggiore, perché almeno Galanár, nonostante le sue discutibili scelte, segue delle regole. Ma tu, Edhel... tu non possiedi nemmeno quelle!"
L'elfo rimase di sasso di fronte a quell'esclamazione. Gettò su un piatto della bilancia dolore e delusione e vi oppose la propria risolutezza e i propri obiettivi, soppesando la differenza.
"Ti saluto, Aidan", concluse quindi con freddezza. "Dì pure di non avermi visto".
Una volta non sarebbe andato via a quel modo, ma anche Aidan, una volta, non lo avrebbe fatto andare via senza un chiarimento!
Edhel cercò di allontanare il bruciore di quella ferita e si obbligò a restare concentrato. Aveva avuto la visione del posto che voleva occupare. Era tutta la vita che l'aspettava e non avrebbe rimandato di un giorno. Doveva affrontare la Prova prima di consegnarsi di nuovo alla battaglia.
Andò nel bosco, appena fuori dal castello. Nelle sue passeggiate solitarie aveva scoperto un rivo che attraversava la macchia, in una radura nascosta da un fitto fogliame. Vi si diresse a passo svelto, portando con sé il libro nascosto sotto al mantello. Alla cinta aveva affibbiato un borsello di cuoio, dove le sue Rune scricchiolavano lievi al ritmo del suo passo.
L'erba era tenera e rugiadosa lungo il greto del ruscello, ombreggiata dalla cima degli alberi che lasciavano appena spazio a un pezzetto di cielo. Il cuore di Edhel batteva all'impazzata per la paura e l'ansia di ciò che stava per fare. Si tolse il mantello e lo stese ai suoi piedi. Poggiò il suo tesoro sulla stoffa e vi si inginocchiò davanti, quindi prese le pietre magiche e ne dispose quattro attorno a sé.
Osservò il quadrato magico appena formato: Nén, Nár e i loro Aspetti gemelli, Helca e Cálë, il Ghiaccio e la Luce. Controllò la posizione delle Rune finché la trovò soddisfacente, quindi estrasse un piccolo involto di stoffa dal borsello. Lo aprì e ne versò il contenuto nella palma aperta. Fissò con repulsione le bacche nere che brillavano lucide, le portò alla bocca e le inghiottì con un gesto repentino. Chiuse gli occhi e attese, pregando di non essersi sbagliato.
Edhel aveva studiato quella pianta. Era chiamata Nuruilë dagli Elfi e le sue bacche velenose erano utilizzate per causare la morte. Tuttavia, se assunte in piccole quantità, inducevano in chi le masticava una grande serenità. Gli incantatori umani ne avevano sempre una piccola scorta: ne facevano uso per liberarsi dai pensieri ed evocare agevolmente la magia. Edhel non aveva fatto ricorso a quel genere di aiuto, non aveva mai sentito la necessità, ma l'occasione richiedeva un totale abbandono. Quella pianta lo avrebbe aiutato a superare la paura che lo attanagliava, anche se non lo avrebbe mai ammesso.
Una forzata sensazione di tranquillità cominciò ad avvolgerlo. Se la dose ingerita fosse stata eccessiva, sarebbe morto ma, nello stato di beatitudine in cui si trovava, si accorse che perfino quel pensiero aveva perso valore. Con un gesto della mano, accese attorno a sé un cerchio di fuoco, appena oltre l'invisibile campo magico delimitato dalle Rune.
Aprì il libro alla pagina in cui iniziava la descrizione della Prova e cominciò a recitare la formula introduttiva. Era una lunga invocazione, scritta in una lingua elfica così arcaica che Edhel, sulle prime, stentò a pronunciarla con correttezza. La ripeté ancora e, quando le parole iniziarono a fluire spontanee dalle sue labbra, riuscì infine a coglierne il significato: stava ordinando i suoi Daimon di presentarsi al suo cospetto nella loro forma visibile.
Comprendere e iniziare a tremare fu un tutt'uno per lui: aveva chiesto mille volte l'aiuto di Nén o di Nár, e i Daimon avevano sempre risposto alla sua chiamata, ma non avrebbe mai osato domandare loro di presentarsi ai suoi occhi di persona. Conscio che ormai era troppo tardi per pentirsene, recitò l'invito per l'ennesima volta. Se non poteva tornare indietro, tanto valeva correre incontro al suo destino. Gridò il suo nome contro la volta scura della notte.
"Fuoco, Acqua, io sono Edheldûr, figlio di Maldor, Signore di Spiriti... io sono il vostro Custode! Voi siete i miei Daimon, vi voglio in questo luogo per mio comando!"
Scagliò le ultime parole verso le altezze con una audacia che gli procurò un brivido di piacere mai sperimentato prima. L'aria vibrò per qualche istante, poi una quiete improvvisa scese ad avvolgere quel luogo.
Edhel tese l'orecchio, attento a ogni mutamento. Quel silenzio era innaturale: la foresta aveva smesso di respirare e il gorgogliare dell'acqua si era spento. Le fiamme del cerchio vacillarono, il cielo si chiuse di nuvole oscure sopra la sua testa. Tutto attorno a lui si era cristallizzato nell'attimo in cui la sua voce si era spenta e sembrava condividere la sua stessa attesa.
Dopo un ultimo, disperato singulto, le lingue di fuoco si estinsero e il buio della notte si riversò sulla radura. Edhel trattenne il fiato. I suoi occhi cercarono di adattarsi all'oscurità. Non sapeva cosa stesse per accadere, né quali forze avesse risvegliato. Non poteva permettersi il lusso di perdere il contatto con ciò che lo circondava.
All'improvviso, nell'oscurità, un lampo di luce si accese e tracciò una scia di fuoco che si precipitò contro di lui.
NOTA DELL'AUTORE
La locuzione sine more, che alla lettera si traduce con "senza moralità", significa "contro ogni buon diritto", quindi "illegalmente" 😁
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