41. RADIOR GEMMIS
Si guardò intorno con circospezione. Dal momento che era rimasto solo, Edhel poteva anche confessare a se stesso di provare una paura enorme. La sua mente era sempre più confusa man mano che saliva le scale del torrione. Da un lato lo pressava la fretta, dall'altro la consapevolezza di non possedere i mezzi per salvare tutto. Avrebbe cercato di portare in salvo ciò che poteva, ma l'urgenza lo avrebbe senza dubbio spinto alla casualità... cosa lo avrebbe guidato nella scelta?
Quando giunse alla fine della rampa, la lingua gli rimase incollata al palato per lo stupore. La scala terminava al centro di una enorme sala rotonda. Le esalazioni, che giungevano dalle travi lignee intrecciate sul soffitto, avevano già invaso la stanza ma, oltre la cortina di fumo acre, Edhel vide la meraviglia: l'intera circonferenza era ricoperta di scaffali e ogni centimetro di quelle pareti ospitava un libro.
Provò un profondo senso di vertigine mentre si girava intorno, sbalordito da quella visione, e gli sembrò che il terreno gli mancasse sotto i piedi. Si aggrappò alla scala, poi costrinse se stesso a strapparsi da quello stupore e a pensare con maggiore efficienza. Si accorse con dispiacere che i volumi che occupavano la parte superiore dell'immensa libreria erano già andati distrutti. Le rilegature si erano sciolte e la pergamena era stata bruciata dal fuoco che aveva cominciato ad ardere dal soffitto. Eliminò dalla sua cernita tutti quei tomi, ma anche in quel modo la mole di conoscenza era troppa. Che cosa avrebbe portato con sé? Una voce interiore gli gridava con violenza che avrebbe dovuto prendere tutto o non prendere nulla.
Si portò le mani alla testa per impedire che gli esplodesse e nascose gli occhi per non piangere. Il respiro gli si era fatto affannoso, non riusciva a ragionare. Si sentiva stupido e incapace. Era giunto fino a lì, sovvertendo l'ordine naturale delle cose, inseguendo un sogno, una chimera, un'illusione senza alcuna consistenza, che lui aveva alimentato solo con la propria ostinazione.
D'un tratto percepì che qualcosa stava mutando nello spazio che lo circondava: i rumori sopra la sua testa si erano fatti inquietanti.
Edhel fissò il soffitto.
Non ce l'avrebbe fatta.
Lei non aveva colpa. Se lo ripeté per tutta la discesa. Aveva tentato, aveva tentato fino alla fine, che altro avrebbe potuto fare? La testardaggine di quel giovane elfo, la sua arroganza, la sua assoluta mancanza di ragionevolezza: quelle erano le cause della sua morte.
Silanna tirò le redini del cavallo per arrestare la sua corsa e Adwen dovette aggrapparsi all'animale per non cadere: Aidan aveva fermato il gruppo e la stava aspettando. L'elfa sostenne il suo sguardo senza un tremito. Quegli occhi azzurri e accigliati, sapeva bene che cosa volevano dirle: le stavano chiedendo perché non gli avevano obbedito, perché non lo avevano seguito e soprattutto perché erano tornate solo in due. Provò la tentazione di sfuggire a tutti quegli interrogativi, ma lei era Silanna e non si sarebbe fatta mettere in soggezione da quel ragazzo, così fu Aidan a dover distogliere lo sguardo per primo.
"Siete ferite?", chiese, appena lei gli fu accanto.
"No".
"Possiamo proseguire, allora?"
Silanna non riuscì a trattenere lo stupore. Anche Adwen fece per dire qualcosa, ma la sorella le strinse il braccio, suggerendole di tacere. Si avvicinò quanto più poté al giovane capitano, lo scrutò con i suoi occhi dorati, poi abbassò il tono della voce affinché solo lui potesse udirla.
"Non volete tornare indietro?"
Lui le ricambiò lo sguardo per un attimo, poi lo rivolse altrove, come se non sopportasse di essere esaminato così da presso.
"Mi date motivo di farlo?"
Silanna esitò, poi scosse il capo.
"Allora andiamo", fu la fredda replica del ragazzo.
Senza aggiungere altro, si rimise alla testa del gruppo. L'elfa lo vide sollevare il braccio e dare l'ordine di riprendere il cammino. Aidan si girò solo un istante per controllare la colonna, ma lei poté comunque cogliere il conflitto che lo dilaniava: c'era una profonda tristezza nei suoi occhi, ma nemmeno la più piccola traccia di esitazione nei gesti e nell'espressione.
Silanna percepì in lui una strana, intima somiglianza con Galanár. Fu l'abbaglio di un secondo, ma sufficiente a trasmetterle un brivido. Lo raggiunse in silenzio e si adattò alla sua andatura per cavalcargli accanto, come tante volte aveva fatto con suo fratello. Compì persino un gesto che l'avrebbe sorpresa tutte le volte in cui, in seguito, ci sarebbe tornata con la memoria.
"Ho disobbedito a un ordine", mormorò. "Vi chiedo scusa".
Aidan non si girò nemmeno, come se le parole di lei si fossero infrante contro la sua cotta di cuoio pesante.
"Non vi scusate", rispose, con la stessa voce impassibile con la quale poco prima aveva impartito gli ordini. "Cercate soltanto di restare in vita".
Silanna pensò di non poter sopportare quella freddazza. In una maniera per lei del tutto inspiegabile, sentiva che Aidan era vicino al suo spirito e aveva bisogno di condividere con lui quella sensazione.
"Sono spiacente per quanto è accaduto. So quanto vi costa questa scelta".
L'arciere trattenne il fiato, poi scosse il capo.
"Sono io che devo chiedervi scusa. Ho ricevuto un unico ordine per questa missione, ed ero così concentrato sull'idea di prendere le giuste decisioni che ho rischiato di venirvi meno".
"Un... unico ordine?", chiese lei, confusa da quella confessione.
Aidan sollevò finalmente lo sguardo su di lei e, in quel momento, le fece paura: i suoi occhi, di solito gioiosi, brillavano di una cupa determinazione mista a risentimento.
"Immagino che adesso possiate anche saperlo: l'unico ordine era quello di riportavi indietro sana e salva. E l'ordine era prioritario su ogni altro scopo di questa missione".
Il soffitto stava per crollare. Forse gli restava appena una manciata di minuti. Cercò una rapida soluzione e si chiese se, precipitandosi giù dalle scale, avrebbe fatto in tempo a uscire. Se il tetto si fosse abbattuto sul pavimento della sala, considerò, il piano non avrebbe retto al peso e le scale sarebbero crollate subito dopo.
Si figurò quella caduta e cercò tra i ricordi un incantesimo capace di proteggerlo, ma non gli venne nulla in mente: così abituato a utilizzare i suoi Arcani per distruggere, non aveva mai pensato a farne un diverso utilizzo. In ogni caso, se anche fosse riuscito a respingere con la magia la materia che si sarebbe precipitata in testa, lo schianto al suolo da quell'altezza gli sarebbe stato comunque fatale.
Si concentrò di nuovo: forse un modo esisteva. Di certo era rischioso, ma era pur sempre una possibilità. Guardò i libri attorno a sé. Se l'avesse fatto, tutta quella scienza sarebbe stata per sempre irrecuperabile, e non lo poteva accettare. Ma se fosse morto, e tutti quei testi fossero rimasti schiacciati nel crollo insieme a lui, cosa sarebbe cambiato?
Con le lacrime agli occhi, abbandonò ogni riserva e cominciò a evocare l'Acqua a bassa voce, ordinandole di riempire la torre. Scandì la preghiera con lentezza, più volte, fin quando non udì il gorgogliare dell'onda che saliva dalla tromba delle scale.
Edhel non era certo di quale fosse il limite di quell'evocazione. Gli sarebbe servita di certo molta acqua, forse troppa, perfino per la sua potente magia, e il Daimon si sarebbe potuto irritare per quella richiesta insistente, ma non aveva scelta: doveva colmare lo spazio sotto di sé fin dove gli era possibile.
L'Acqua, rispondendo docile al suo richiamo, invase le scale. Quando il soffitto cedette, Edhel ebbe appena il tempo di evocare uno scudo leggero che lo proteggesse dalle macerie. La roccia ai suoi piedi si spaccò e il pavimento franò. Edhel precipitò insieme al contenuto della stanza. I libri volteggiavano attorno a lui, mentre le pagine sfuggivano e volavano leggere, strappando un ultimo istante di esistenza prima della fine. L'elfo fissò quello spettacolo affascinato, e poi vide solo acqua.
Attorno a lui affondavano pietre e rovine, e volumi, e volumi ovunque. Lo scudo protettivo si sgretolò. La sua permanenza, pur breve, era stata necessaria. Edhel giurò a se stesso che, se fosse sopravvissuto, avrebbe prestato più attenzione alla magia protettiva degli Arcani. In fondo, di distruzione ne sapeva già abbastanza. Sospinto dalla forza di quel pensiero, si affannò a risalire in superficie, scostando gli oggetti che ostacolavano la sua risalita.
Emerse infine, e tornò a respirare. Annaspò, poi riuscì a restare a galla e a guardarsi attorno. Era sopravvissuto al crollo del soffitto, e quella era di certo una buona notizia, ma il passo successivo che avrebbe dovuto compiere non era molto allettante: l'acqua che teneva insieme con la forza del suo Arcano doveva defluire all'esterno. L'idea di abbandonarsi alla furia di quell'Elemento non lo allettava ma, più il tempo passava, più Edhel sentiva freddo e, anche muovendosi, non riusciva a riscaldarsi. Attorno a sé sentiva solo il rumore dell'acqua che sciabordava nelle sue orecchie e le forze cominciarono a venirgli meno. Chiuse gli occhi, rassegnato all'idea di lasciarsi andare, mentre gli tornavano in testa i primi insegnamenti ricevuti da bambino...
L'Acqua e l'Aria sono gli unici elementi che non possono essere contenuti... l'Acqua e l'Aria trovano sempre una strada...
"Nén, mia diletta...", si sottomise infine. "Trova la tua strada e libera il tuo Signore".
E l'Acqua trovò la sua strada. Si riversò con violenza da ogni varco e da ogni apertura. Si insinuò tra le crepe e le forzò, fino a spezzare il vincolo della pietra ed esplodere. Ciò che galleggiava fu scaraventato all'esterno, spinto dal flusso inarrestabile dell'Elemento.
Edhel cercò di rendersi malleabile tra le braccia di Nén. Poteva solo affidarsi al suo Daimon, e lo fece. Tenne le palpebre serrate per non vedere il vortice che si creava al centro della torre e per non assistere alla rovina che lo accompagnava. Innumerevoli oggetti di varia consistenza e natura cozzarono contro il suo corpo, finché l'acqua lo sommerse ed Edhel non percepì più nulla, del tutto in balia della furia che aveva scatenato.
Me lo sono meritato, fu l'ultima frase che gli venne in mente.
Quando aprì gli occhi, giaceva riverso sulla neve. Aveva le mani e il volto ghiacciati. Provò a muoversi, ma impiegò parecchio tempo prima di poter distendere le braccia e piegare le dita. Con uno sforzo enorme, riuscì infine a mettersi in ginocchio e osservò con sgomento lo spettacolo che lo circondava. La torre, di fronte a lui, era stata squarciata, come se la mano di un gigante l'avesse divelta dal suolo in cui era piantata. Attorno c'erano solo macerie, travi annerite e libri. Libri spaccati, libri lacerati, pagine e fogli strappati.
Edhel si alzò, provò a prenderne uno, poi un altro e un altro ancora, muovendosi frenetico ad afferrare tutto quello che aveva a portata di mano, ma la pergamena, consunta dal fuoco e dall'acqua, si frantumava tra le sue dita. Ricadde in ginocchio e, per la prima volta, si arrese al pensiero che era davvero finita. Iniziò a piangere e le sue lacrime si trasformarono in cristalli lucenti e si mescolarono con la neve.
Rimase in quell'atteggiamento per un tempo infinito, fino a quando il suo stesso corpo non fu simile a una statua scolpita nel ghiaccio. Indifferente al dolore e al freddo pungente, Edhel pianse la perdita del suo sogno.
Per un attimo lo sfiorò l'idea di restare per sempre in quel luogo: la sua volontà era così fiaccata da impedirgli di prendere qualsiasi altra decisione. Quando la sua mente stava per arrendersi a quel pensiero, qualcosa attirò la sua attenzione e lo distolse da quell'apatia. Vide uno scintillio in mezzo alla neve, un baluginio tra le macerie che la furia di Nén aveva rigettato fuori dalla torre. Si concentrò su quella fuggevole impressione e aguzzò la vista. Sembrava il luccichio di un piccolo diamante o di una pietra di simile splendore. Brillava solitario sulla fosca distesa, come se lo stesse chiamando.
"Elemmirë", mormorò Edhel, colmo di stupore.
Si trascinò sul terreno ghiacciato fino a fermarsi davanti a ciò che aveva attirato la sua attenzione. Da quella distanza comprese che non si trattava di una pietra. Il brillio proveniva dall'unica parte visibile di qualcosa che giaceva sotto la neve e la pietra. Edhel iniziò a scavare. Le dita gli sanguinavano per il freddo e per la violenza con cui le affondava nei sassi appuntiti, ma non si fermò finché non riuscì a estrarre l'oggetto dal terreno e a stringerlo tra le mani: era un libro.
L'elfo cercò di calmare il battito del cuore prima di decidersi a esaminarlo. Sì, era proprio un libro! La rilegatura sembrava di cuoio, ma era stranamente rigida. Edhel vi passò sopra la mano più volte e capì che l'anima di quel rivestimento era di metallo, resistente come una corazza, ma così sottile da risultare leggero. Gli angoli erano rinforzati da quattro gioielli e proprio uno di quei vertici aveva attirato il suo sguardo. Se tanta ricchezza era stata profusa nella sua realizzazione, Edhel pensò che quel libro dovesse essere di enorme importanza. Cercò di decifrare l'incisione all'esterno, che era stata in parte rovinata.
"Parma Eldaëalaron", lesse piano. "Il libro dei Daimon elfici".
Senza alcuna esitazione, si tolse il mantello e vi avvolse il volume con cura. Non aveva potuto salvare tutto, ma aveva salvato un libro e lo avrebbe protetto a qualsiasi costo. Non ne aveva mai sentito parlare in tanti anni di studio e non ne conosceva il reale valore, ma di una cosa almeno era certo: quel volume doveva avere una grande importanza se persino il Daimon dell'Acqua lo aveva risparmiato.
NOTA DELL'AUTORE
Radior gemmis è una improbabile acrobazia linguistica che mi sono concessa, quindi vi chiedo perdono in anticipo 😅 Non è altro che un goffo tentativo di tradurre con un'espressione latina (che significa "risplendente di/come gemma") l'esclamazione in elfico di Edhel, Elemmirë, che grosso modo significa "Stella gioiello" o "gioiello di stella".
Quello che mi piace raccontarvi, invece, riguarda la biblioteca di Valkano. Se vogliamo provare a immedesimarci nel comportamento e nella disperazione di Edhel, possiamo pensare all'evento reale che ha ispirato la distruzione della mia immaginaria biblioteca, ovvero il rogo della Biblioteca di Alessandria.
L'idea della sua costruzione venne ad Alessandro Magno, che si era prefissato, com'era nel suo stile d'altronde, un obiettivo decisamente ambizioso: raccogliere tutta la conoscenza del mondo!
Sul rogo che l'ha distrutta e sulla quantità dei volumi andati perduti non esistono notizie certe, perché gli storici del tempo non hanno riportato dati concordanti. Tra l'altro, la biblioteca pare si sia incendiata più volte nel corso della storia, ma si presume che l'evento drammatico entrato nella leggenda sia quello avvenuto nel 48 a.C., durante la spedizione di Cesare contro Pompeo.
Le scoperte scientifiche degli ultimi anni ci hanno permesso di stabilire che il rogo fu, in realtà, parziale e le perdite non tanto ingenti quanto ci tramanda il mito. Tuttavia, almeno fino alla fine del XX secolo, la distruzione della Biblioteca di Alessandria è stata collegata all'idea di un brutale arresto evolutivo nella storia della conoscenza umana:
"È come se un'intera civiltà sia stata sottoposta a una sorta di chirurgia cerebrale autoinflitta, in modo che la gran parte dei suoi ricordi, scoperte, idee e passioni venisse irrevocabilmente spazzata via. Il danno fu incalcolabile" (Sagan, 1980)
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