33. DE ARTE VENANDI CUM AVIBUS

Impiegarono circa un mese per raggiungere Formenos, senza incontrare particolari ostacoli. Il tempo si mostrò inclemente solo mentre valicavano le montagne dell'Ambit, ma le terre degli Elfi si stavano preparando già all'avvento della primavera, così l'attraversamento dei boschi a nord di Laurëlindon fu tranquillo.

Da quando erano entrati in quel reame, l'irrequietezza nell'animo di Edhel si placò. L'elfo era immerso in uno stato di costante meraviglia e i suoi sensi sempre tesi come corde di un'arpa perché anche di giorno, in piena luce, riusciva a vedere gli invisibili nodi di potere che si irradiavano tra gli alberi. Lo stretto e antico tessuto magico collegava ogni cosa vivente e, pure dove sembrava scomparire, il giovane ne percepiva il pulsare sotto la terra su cui marciavano, attraverso le radici degli alberi antichi che si toccavano. Per la prima volta nella sua vita capiva cos'era davvero l'affinità arcana della sua razza ed era così affascinato da quella scoperta da lasciarvisi annegare.

Avrebbe voluto visitare Laurëgil, e così pure Aidan. Mentre il giovane arciere, però, era curioso di incontrare quel nonno mai visto in vita sua, l'incantatore sognava piuttosto le aeree architetture da leggenda e lo smisurato numero di volumi contenuti nella biblioteca di cui tanto si favoleggiava. Se lo confidavano durante le soste in tenda, unico momento della giornata in cui potevano stare insieme e parlarsi. Per tutto il resto del viaggio, si spostavano con i propri reparti ed erano troppo distanti per poter scambiare qualche parola.

Appena varcati i confini di Foroddir, la spedizione fu costretta a rallentare il passo e a procedere con cautela. Con l'arrivo della primavera i mille rivoli e laghetti ghiacciati di quel regno avevano iniziato a sciogliersi, trasformandosi in superfici infide e trappole invisibili. Quando infine giunsero in vista di Formenos, Galanár dispose che si sistemassero presso l'accampamento elfico, senza nemmeno passare dal castello. Solo Silanna fu spedita alla rocca, per riunirsi a Aegis e agli altri incantatori. Il generale l'accompagnò per incontrare gli ufficiali rimasti ed essere aggiornato sugli avvenimenti degli ultimi mesi senza avere re Anárion alle calcagna. Rimase con lei quella notte e tutte le successive, anche se ogni mattina all'alba galoppava puntuale fino all'accampamento dei soldati. Ormai tutti, Uomini ed Elfi, erano a conoscenza del fatto che l'erede di Arthalion e il Daimonmaster della Stirpe Scura erano inseparabili.

Non che Edhel fosse uno che sorrideva spesso ma, da quando erano arrivati a Formenos, gli serviva davvero un buon motivo per farlo. Seguire le attività di un reparto che non lo interessava, obbedire a disposizioni tanto distanti dalle sue abitudini e sopportare il malcontento di Galanár stavano diventando una specie di esercizio giornaliero. Era diventato quasi un maestro nel rispondere con cortese distacco, nel fare scattare il capo in segno di assenso e, in definitiva, nel diventare sempre più indifferente al sottile ricatto cui era sottoposto. L'unica remora che restava da superare era la vergogna di sé che provava ancora di fronte alla sua bravura nel mentire.

Edhel abbassò il libro che teneva davanti agli occhi, senza più riuscire a leggere oltre. Quando Aidan entrò nella tenda assieme a una folata di vento umido e freddo, intuì che era tarda notte. Gli rivolse un'occhiata veloce, poi finse di fissare le pagine.

"Pensavo che non saresti più tornato", mormorò a mo' di saluto.

"E io che tu dormissi da un pezzo".

"Che hai fatto?"

"Mi sono annoiato a morte", sbuffò l'arciere. "Evidentemente si chiama consiglio di guerra perché non fanno altro che litigare".

"Dovreste darci un taglio e prendere delle decisioni una volta per tutte. Quaggiù, nei ranghi bassi, stiamo invecchiando, capitano", lo canzonò.

Aidan ignorò quella provocazione.

"Tu non potresti invecchiare nemmeno se lo volessi", commentò distratto, mentre prendeva un robusto guanto di cuoio da una cassetta poggiata in un angolo. "E comunque non capisco a cosa ti riferisci".

"Mi riferisco al fatto che, tra i soldati, girano tante voci: che Galanár e Anárion non riescano a trovare un accordo, che la strategia militare faccia acqua da tutte le parti... insomma, che sarà una disfatta, come l'ultima volta".

Il gemello indossò con cura la protezione sulla mano sinistra, poi si fermò a osservarlo.

"Chi te le dice tutte queste sciocchezze?"

"Il privilegio di non essere un ufficiale".

L'altro non rispose. Si girò, aprì lo sportello della gabbia che ingombrava un angolo della tenda e, muovendosi con prudenza, sfilò il cappuccio dalla testa del falco appollaiato all'interno. Edhel, a quel punto, si mise a sedere sulla branda e adagiò il libro di lato.

"Non fare il sostenuto con me", continuò, anche se il gemello gli aveva voltato le spalle e sembrava badare solo al volatile. "Anch'io, a volte, ho l'impressione che stiate solo giocando. Ogni tanto dovresti mettere da parte i tuoi romantici ideali sulla guerra e sulla cavalleria, e aprire gli occhi".

Aidan piegò il braccio, chiuse la mano e attese che il falco saltasse. Appena l'animale ebbe agganciato il pugno, trattenne il respiro per non spaventarlo. Vedendo che era tranquillo, rinunciò a coprirgli gli occhi, e cominciò a passeggiare avanti e indietro per la tenda, fino a fermarsi davanti al fratello.

"Perché mi tormenti, Edhel?"

Dal tono desolato con cui aveva posto la domanda, l'elfo capì che non avrebbe ottenuto altro: qualunque fosse il suo reale pensiero, Aidan non avrebbe mai lanciato un'asprezza contro Galanár. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia, strinse le mani una sull'altra e vi affondò il mento.

"Sai, credevo che l'avrei sopportato", ammise a bassa voce.

"Cosa?"

"Tu sempre convocato al consiglio di guerra mentre io devo starmene qui da solo per ore".

Esitò un istante prima di aggiungere:

"Credevo che non mi sarebbe importato".

Aidan gli rivolse uno sguardo triste, disarmato. La capacità che aveva sempre posseduto di sentire il dolore del suo gemello lo faceva stare male. Il falco si agitò sul suo polso, reclamando la sua attenzione. Edhel si lasciò sfuggire una smorfia di disappunto, quindi allargò le braccia in segno di resa.

"Un giorno mi spiegherai perché hai deciso di portartelo fin qui, all'altro capo del mondo. È solo un premio per la giostra!"

"Un premio per la giostra che sto addestrando perché uno dei miei fratelli ha pensato di trasformarmi in un domatore di animali", ribatté, tirando fuori dalla tunica la pietra che Edhel aveva incantato per lui ed esibendola, prima di lasciarla ricadere sulla stoffa. "Ne ho abbastanza degli insetti, si muovono a scatti e mi fanno venire il mal di testa. E con questo freddo ti sfido a trovare uccelletti compiacenti. Se riesco ad ammaestrarlo come spero, saremo solo io e lui a usare la Vista".

L'elfo si passò una mano tra i capelli, estenuato.

"Tra poco dovrò chiedere a Galanár una tenda tutta per me, o non ci sarà più spazio per le mie cose".

"Galanár ci ha già dato la sistemazione migliore dell'accampamento, non credo possa fare di meglio".

"Oh, be'... tanto a lui che importa? È al castello, a dormire in un letto vero tra le braccia di una donna".

L'arciere decise che non avrebbe ascoltato oltre: se Edhel era di cattivo umore, non doveva essere per forza un suo problema. Tornò alla gabbia e cercò di fare scendere il falco sul posatoio.

"Non è un delitto avere una compagna", commentò secco.

"Uhm, no. Delitto è mettere a soqquadro un'intera dinastia, ma per allora potremmo anche essere tutti morti, quindi...".

Aidan recuperò un involto che aveva abbandonato vicino all'ingresso della tenda e cominciò a svolgerlo.

"Ecco, Menelok", si rivolse al falco come se il fratello non fosse più in quella tenda. "Spiacente, ma questo è il massimo che sono riuscito a recuperare... sempre meglio dei ratti dell'ultima volta, non credi?".

Edhel vide prima le macchie di sangue che impregnavano la stoffa, poi la testa mozzata di un pollo. Quella visione gli fece rivoltare lo stomaco. Si alzò in piedi, esasperato.

"Senti, Aidan... passo una metà della giornata a cavallo a tirar di spada fino a non sentire più il braccio e l'altra a cercare di riposarmi in una tenda senza il minimo agio! Non occorre che tu la trasformi anche in una topaia per sfamare quel pennuto!"

Aidan gettò il pasto dentro la gabbia e appallottolò gli stracci sporchi, quindi si girò a sfidare il fratello con la stessa espressione belligerante.

"Senti, Edhel... se hai voglia di litigare, scazzottiamo subito, così poi me ne posso andare a dormire".

Non avendo ottenuto risposta, stabilì che la discussione era definitivamente conclusa. Si girò a serrare il chiavistello della gabbia, ma lo scatto metallico fu coperto da uno schiocco di frusta. Una linea di fuoco lo sfiorò, così vicina da sentirne il calore sul braccio. Era un patto che avevano stretto anni prima, che Edhel non dovesse utilizzare la magia contro di lui, ed era l'unico impegno che il gemello gli avesse mai chiesto. Di fronte a quel gesto, Aidan perse la calma.

"Non lo fare con me, mai!", ruggì.

Si girò di scatto e cercò di colpire il fratello, che lo schivò per un pelo e subito rispose. Si afferrarono, cercando di sferrarsi pugni, poi l'elfo inciampò e rotolò fuori dalla tenda. Aidan, con un balzo, gli fu di nuovo addosso. Ghermendosi con foga, si rigirarono sul terreno, scalciando e cercando di prendere il sopravvento l'uno sull'altro, come due giovani cervi in amore.

Bastò quel rumore perché gli uomini di guardia accorressero a illuminare la scena con le torce. Un attimo dopo avevano fatto anello attorno a loro, assieme ai compagni svegliati dalle imprecazioni dei gemelli e dalle voci, e già cominciavano a girare le monete e le scommesse. Non capitava spesso che ci fosse uno scontro nel disciplinato accampamento di Galanár, ma vedere addirittura due principi del sangue che si rotolavano per terra dandosele di santa ragione era un evento del tutto eccezionale. I più erano pronti a giurare che l'arciere avrebbe avuto la meglio, ma in tanti pensavano che il risultato non sarebbe stato così scontato. Mentre i soldati li incitavano alla lotta, un uomo si fece largo tra loro, spezzando la formazione. Tutti si zittirono quando irruppe al centro dell'arena improvvisata e afferrò uno dei due ragazzi, trascinandolo di lato.

"Capitano Aidanhîn!", tuonò Mellodîn nel silenzio innaturale che si era creato di colpo.

Edhel, sentendo che il gemello sopra di lui aveva mollato la presa, indietreggiò scalciando sui talloni. Appena l'ebbe a portata di mano, il comandante agguantò anche lui. Lo tirò in piedi, poi trascinò entrambi verso la loro tenda. Giunto all'ingresso li lasciò andare. Era fuori di sé dalla rabbia. Nessuno dei due gemelli osava fare un fiato.

"Non mi importa se siete principi di Arthalion o ufficiali di questo esercito", sbraitò. "Vi allacciavo il giubbetto quando ancora non eravate in grado di farlo da soli, quindi per me non ha importanza quello che siete diventati adesso. Se vi ripesco a fare a botte a quel modo, vi spedisco da vostro fratello a calci senza troppi complimenti".

Passò dall'uno all'altro uno sguardo severo, fino a che non fu soddisfatto della loro espressione contrita.

"Per questa volta non sarete puniti, e non dirò nulla al generale della vostra bravata", mormorò.

Poi, a voce più alta, rivolgendosi a tutti:

"Chi è di guardia, torni al suo posto! Gli altri, tutti a dormire! Non voglio sentire volare una mosca, stanotte".

Rivolse ancora un'occhiata ai ragazzi: a guardarlo bene, sembrò loro più deluso che arrabbiato.

"Risparmiate le energie per la battaglia. Non mi occorrono due soldati malconci, adesso più che mai. E ora filate!"

Spinse Edhel per primo, lo fece seguire dal suo gemello, poi se ne andò con passo pesante, che si perse nel silenzio sospeso dell'accampamento.

Appena si ritrovò dentro la tenda, l'elfo si diede una rapida occhiata: era ammaccato, lacero, pieno di terra e graffi in ogni centimetro del corpo, e Aidan non era da meno. I due fratelli si scambiarono uno sguardo in cagnesco.

"Sei davvero un bifolco, capitano Aidanhîn".

"E tu sei solo un abominio elfico, principe Edheldûr".

Sostennero l'uno lo sguardo dell'altro e d'un tratto la tensione si sciolse, come se fosse finito l'effetto di un incantesimo. Entrambi scoppiarono a ridere nello stesso momento, senza riuscire a frenarsi. Si lasciarono cadere a terra sfiniti dalla lotta, spalla a spalla, e cominciarono a vantarsi delle ferite che si erano inflitti a vicenda.

Quando le risate si spensero, restarono distesi a respirare piano, finché la voce di Edhel infranse il silenzio della notte.

"Tu hai mai avuto paura di quello che sono, Aidan?"

Il fratello non rispose subito. Si prese tempo per riflettere: da come era stata pronunciata, quella domanda sembrava importante.

"No", disse infine. "Il fatto che io non comprenda le tue arti non significa che io debba temerle".

"Hai mai pensato di imparare la magia?"

"No".

Aidan rispose, quella volta, senza esitazione, quindi si girò su un fianco, si sollevò appena e appoggiò la testa alla mano per guardare il viso del fratello.

"A me piace essere ciò che sono. A modo mio, penso di essere unico", sorrise. "E anche se non sarò mai Galanár o Edhel, o un grande generale, o un elfo sapiente, io sono per me stesso tutto ciò di cui ho bisogno per essere felice".

Edhel si sentì toccato dalla spontaneità di quella confessione. Guardò il soffitto della tenda, cercando di farne proprio il significato. La serenità di Aidan contrastava con il caos che si portava dentro. Avrebbe voluto averne un pezzetto per sé. Forse, se fosse riuscito anche lui a vedere il mondo con gli occhi del suo gemello, forse...

"A volte mi chiedo, fratello, dove la trovi tutta questa felicità", mormorò.

"Non hai mai sentito dire che la felicità si diverte a sottrarsi dalla nostra vista? Devi smettere di cercarla con tanta insistenza, se vuoi davvero trovarla".

Edhel non rispose. Scrutò di nascosto il viso del fratello, poi distolse lo sguardo: nella sua mente si era affacciato il pensiero che, se anche fossero sopravvissuti a ogni battaglia futura, un giorno non l'avrebbe più avuto accanto. A quell'idea provò una dolorosa vertigine e si sentì precipitare. Si chiese se sarebbe stato mai capace, lui elfo, di esprimergli davvero quanto lo amava, e sperò che Aidan, nella sua umanità, lo sapesse già da sé.

NOTA DELL'AUTORE

De arte venandi cum avibus (L'arte di cacciare con gli uccelli) è un trattato scritto dall'imperatore Federico II di Svevia, il cui manoscritto fu commissionato dal figlio Manfredi nel 1260 circa.

L'opera è il più importante manuale sulla falconeria del Medioevo e descrive i sistemi per allevare, addestrare e utilizzare i rapaci (in particolare i falchi) nella caccia. Alcune delle operazioni che Aidan compie in questo capitolo per ammaestrare Menelock vengono proprio da questo testo 😉

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