29. COGITATIONIS POENAM NEMO PATITUR
"Per il cielo, Edhel! Cosa ti è saltato in mente?"
La domanda rimase sospesa nel silenzio. Aidan aveva fatto irruzione nella stanza e, sulle prime, aveva pensato che fosse vuota. Edhel era sul davanzale e fissava con ostinazione il nero oltre le ogive. Lasciava che l'aria notturna gli gelasse la faccia e sembrava così distante da quel luogo che l'altro pensò che non lo avesse udito, finché non gli giunse all'orecchio una risata sommessa.
"Mi dovevi un favore, no? Adesso siamo pari".
Il giovane biondo allargò le braccia e si lasciò sfuggire un sospiro rassegnato: il gemello, alle volte, era davvero impossibile.
"Sì, d'accordo, questo me lo segno. Adesso vuoi dirmi perché lo hai fatto?"
L'elfo si limitò a puntargli gli occhi addosso,. Per tutta la serata erano stati torbidi come l'acqua di uno stagno. Di certo gli accadeva qualcosa che Aidan non riusciva a capire.
"Quella strega ti ha fatto un incantesimo", considerò, scuotendo la testa.
"Non dire sciocchezze, Aidan!", sbuffò Edhel, esasperato. "Sono un Daimonmaster, sono immune a questi stupidi giochetti da incantatori".
"A quello che dicono, lo è anche lei, ma in ogni caso non mi piace".
"Non piace nemmeno a me".
"Allora perché diamine l'hai toccata a quel modo?"
Gli occhi di Edhel si accesero di fiamma. Abbandonò la penombra del suo rifugio, balzò giù dal davanzale e lo fronteggiò.
"Perché non è giusto, Aidan! Non è giusto che lui abbia sempre ogni cosa solo perché lo desidera: il titolo, il regno, l'esercito, le donne! Deve imparare, prima o poi, che non è tutto a sua disposizione, che l'universo non procede sempre nel verso che piace a lui".
Il fratello lo fissò basito: quel modo di ragionare gli era del tutto estraneo.
"Sul serio, Edhel?", chiese cupo. "Sul serio faresti un torto a Galanár solo per dimostrargli questo?"
Il tono con cui aveva posto quella domanda gli spezzò il cuore. Era riuscito, in un solo momento, a farlo vergognare dei propri pensieri e a farlo sentire indegno del suo affetto. Si pentì dello scatto d'ira che aveva avuto e delle parole pronunciate. Le iridi gli si schiarirono, i muscoli contratti si distesero.
"Voleva solo essere uno scherzo", replicò in tono sommesso. "Non potrei mai".
Aidan si appoggiò allo scrittoio che aveva alle spalle e rimase in attesa, senza smettere di guardarlo con sospetto. Sapeva sempre quando Edhel non gli diceva tutta la verità.
"Va bene, confesso", capitolò il gemello. "Volevo fargli dispetto e dargli una lezione dopo il suo comportamento al torneo. Mi dispiace averti coinvolto".
Nonostante la spiegazione, il fratello continuava ad avere un'espressione perplessa.
"È l'amante di Galanár", disse infine, come a sottolineare il passo falso del gemello.
"Sì, è solo la sua amante. Ed è stato stupido usarla a quel modo".
Aidan, a quel punto, lasciò cadere la conversazione. Si girò e afferrò il cofanetto che aveva lasciato sullo scrittoio. Lo aprì e si concesse finalmente il tempo per esaminare i due pugnali che aveva maneggiato durante il banchetto. Li sollevò uno alla volta e se li rigirò davanti agli occhi, ammirandone il peso perfetto, la curvatura, l'eleganza della fattura.
Edhel, nel frattempo, aveva ripreso posto sul vano della finestra, con un ginocchio stretto al petto, l'altra gamba che penzolava distratta lungo la parete e lo sguardo perso nella notte. Lo scricchiolio dei ceppi nel camino era l'unico suono che riempiva la stanza.
"Non ho mai visto nulla di tanto bello", mormorò Aidan infine, mentre muoveva una delle lame facendovi oscillare sopra il riflesso della fiamma. "Forse dovremmo dargli un nome..."
"Chiamale come ti pare", replicò il fratello, indifferente.
"Come si dice sole e luna in elfico?"
"Se avessi studiato con impegno, te lo ricorderesti", osservò Edhel con una risatina.
Aidan non si scompose, non se la prendeva mai per le battute del suo gemello e, in ogni caso, era troppo impegnato a seguire il filo dei propri pensieri per arrabbiarsi davvero.
"Anar e... Isil? È giusto?".
L'altro annuì.
"Quale vuoi?"
L'elfo si voltò e si ritrovò il fratello accanto, con le palme aperte e una lama appoggiata su ognuna. Le guardò brillare sulle sue mani e pensò che quella volta l'entusiasmo di Aidan aveva davvero un fondamento: sembravano forgiate dalla stessa materia delle stelle. Aveva fatto bene a dar loro un nome così celeste. D'istinto, allungò le dita verso il pugnale che il fratello reggeva a sinistra, ma poi si ritrasse.
"Tienile tu. Io non so che farmene".
Aidan fece per dire qualcosa, ma anche lui si trattenne. Sospirò, tornò a sedersi accanto al fuoco e prese ad avvolgere le armi nella stoffa con diligenza.
"Lei non va a genio nemmeno a te, vero?", riprese, come se non avessero mai interrotto il precedente discorso.
Edhel ci pensò su prima di rispondere con lo stesso tono di confidenza.
"No. È un Elfo Scuro. Quelli come lei non dovrebbero nemmeno esistere, ma nostro fratello è troppo ignorante per comprendere certe cose, o non avrebbe osato concederle tanti onori".
"Forse vede in lei qualcosa che noi non vediamo".
"Non c'è nulla da vedere. Ci sono cose, in natura, che vanno rispettate e altre che vanno temute. E poi ci sono cose che vanno evitate e basta. Non portano mai a nulla di buono".
"E l'amore, Edhel? Il desiderio? Non contano nulla?"
Il fratello scosse il capo, come se quella considerazione non lo riguardasse. Continuò a cercare le stelle, ma non le vedeva più.
"Tu sei un Uomo, Aidan, e io sono un Elfo. È nella natura stessa delle cose che tu riesca a trovare tutto così entusiasmante".
L'arciere si lasciò sfuggire un sorriso.
"Ahinoi, povera Arthalion!", scherzò enfatico. "Sarà davvero un'ardua impresa trovare colei che potrà impalmare il principe Edheldûr!"
L'elfo rise di rimando.
"Per fortuna penserà il principe Aidanhîn alla discendenza del regno", commentò, facendo il verso al fratello. "Quanto a me, devo ancora trovare qualcuna che sappia innamorarmi più della magia".
Nemmeno la magia era riuscita a venirle in soccorso. Silanna non sapeva come placare la mente. Era rimasta al buio, stretta sotto le coperte, sforzandosi di afferrare ogni rumore. Pensava che Galanár sarebbe ritornato, ma si era sbagliata.
Di notte le immagini scorrevano più libere, le sensazioni tornavano a galla vive e palpabili, e lei si trovò presto sopraffatta dalle proprie fantasie. Allentò la presa sulla stoffa e si portò una mano alle labbra. Toccò con un dito l'interno della bocca. Che cosa aveva fatto? O cosa gli aveva permesso di fare? Edhel era un ragazzino, non c'era da fidarsi di lui! Troppa acqua, e l'acqua non può essere contenuta, per quanto ci si provi. E troppo fuoco! Forse non era nemmeno abbastanza grande da capire quanti problemi aveva provocato aizzando a quel modo la gelosia di Galanár.
Galanár...
Tremava al solo pensarci. Non era stato mai così rude, così violento. Si sforzò di razionalizzare quanto accaduto poco prima nella stanza, ma non riuscì a liberarsi dall'angoscia. Se chiudeva gli occhi, sentiva ancora il fruscio tagliente della stoffa che cadeva, il freddo della parete contro la schiena, la stretta sul suo corpo, la sua paura, la sua immobilità.
Le era già accaduto di sperimentare quella orribile sensazione, quando era appena una ragazzina che non sapeva ancora come difendersi. Non conosceva nulla del suo potere, all'epoca: come avrebbe potuto ribellarsi?
Due uomini l'avevano braccata nel bosco, le avevano puntato al collo i loro pugnali... il fruscio tagliente delle vesti strappate, il freddo della pietra che le feriva la schiena, la lama contro la gola, le loro voci che sghignazzavano parole volgari e la offendevano per il colore della pelle.
Il suo Maestro l'aveva salvata. Con una semplice magia aveva immobilizzato quei due delinquenti e li aveva puniti per il crimine che volevano commettere, poi l'aveva rassicurata, l'aveva presa con sé e condotta a Valkano. Le aveva concesso i privilegi e le opportunità che agli elfi come lei erano di norma negati. L'aveva addestrata e l'aveva creata Daimonmaster.
Se quell'incidente le fosse accaduto appena qualche anno dopo, Silanna avrebbe saputo liberarsi di quei manigoldi con un soffio. Avrebbe potuto fare lo stesso anche con Galanár, ma l'idea non l'aveva nemmeno sfiorata: la ragazzina aggredita nel bosco era senza colpa, la Silanna di quella notte invece si era sentita in qualche modo responsabile della rabbia di Galanár.
Era abbastanza onesta da ammettere che i suoi sentimenti non erano del tutto sinceri, quando lo aveva avvicinato per la prima volta. Voleva solo attirarlo, legarlo a sé. Con il tempo aveva imparato ad apprezzarlo, forse quasi ad amarlo. Lo ammirava, lo temeva e non poteva più immaginare la vita senza di lui, ma quelli erano i sentimenti più sinceri che poteva confessare. Di contro, aveva provato piacere nel catturare lo sguardo di un altro e nel frustrare la gelosia del principe. Lui, però, aveva dimostrato di esserle superiore, perché aveva avuto la forza di lasciarla andare. Non sarebbe stata leale se non l'avesse ricompensato con la stessa devozione.
Sì, lo avrebbe amato. Come lui desiderava.
Chiuse gli occhi esausta, mentre una linea distante, all'orizzonte, si imperlava.
Mellodín fissò il chiarore che si spandeva a Est, poi guardò in basso, a seguire i movimenti della corte che si svegliava. Una guardia attraversò il cortile con aria stanca e il rumore dei suoi stivali risuonò sul selciato lucido. Un valletto sgattaiolò oltre un'arcata, tenendo in mano un secchio d'acqua. In lontananza udì la voce roca del cuoco che, dalle cucine, iniziava a impartire gli ordini per quella giornata.
Il capitano si sorprese a pensare quanto facilmente gli uomini si adattino alle situazioni contingenti: erano appena tornati ad Arthalion e già si era assuefatto all'idea di un letto morbido, del buon cibo, del riposo e di lei di nuovo tra le sue braccia.
Le lanciò un'occhiata fugace, come se temesse di soffermarsi troppo a lungo su quell'immagine. Alis dormiva ancora. I capelli biondi le ricadevano disordinati sul collo e sulla schiena. Tutto ciò che le apparteneva sembrava emanare un'aura di tranquillità.
Fuori le stelle erano ormai invisibili, cancellate dal chiarore. Davanti agli occhi gli si disegnò l'immagine di un altro mattino. Il luogo era lo stesso, così come l'ora del giorno. Aveva soltanto qualche anno di meno. Era a cavallo, nel cortile, e gli zoccoli dell'animale echeggiavano sulla pietra con quel rumore che gli era familiare. Rivedeva i colori dei vessilli, il viavai nervoso degli alfieri, mentre la luce soffusa si infittiva di voci baldanzose e nitriti di giovani puledri. Alis era alla finestra dove si trovava lui in quel momento. Da quell'altezza gli aveva indirizzato un timido cenno della mano. Galanár si era messo a ridere. Il capitano sentiva ancora la risata argentina e il tono allegro dell'amico risuonargli nelle orecchie, come se fosse stato lì: "La pazienza è una buona qualità in una donna. Dovresti sposarla".
Forse nel suo scherzo aveva avuto ragione, o forse no. Mellodín non aveva mai voluto riflettere abbastanza su quella frase. Lui era uno che partiva, e che partiva per la guerra. E se avesse continuato a seguire Galanár, così come aveva intenzione di fare, sapeva che sarebbe partito mille volte ancora, perché il principe non conosceva altro. Non aveva requie e i suoi uomini erano votati allo stesso destino. Lui per primo lo era, perché non lo aveva avuto in sorte solo come comandante, ma lo aveva scelto come amico. Per questo non aveva mai fatto ad Alis alcuna promessa. L'aveva sempre lasciata libera di scegliere cosa fare, se attendere o andare. E lei lo aveva atteso, con quella pazienza che Galanár ammirava.
Guardò il chiarore del giorno e la vita che si moltiplicava nel cortile, sotto i suoi occhi. L'avrebbe sposata forse, un giorno, quando sarebbe tornato ad Arthalion dalla sua ultima battaglia. Ma fino ad allora doveva proteggerla da tutto quel dolore.
Un altro giorno...
La notte era stata breve e senza riposo, e si era volatilizzata senza che lui avesse potuto impedirlo. Di nuovo decisioni, ordini, discorsi, ospiti, accordi da tessere in pubblico e in privato... e si sentiva così lontano da Silanna!
Galanár si passò una mano tra i capelli e chiuse di nuovo gli occhi, mentre lasciava che un pallido sole, entrando dalla stretta finestra, tentasse di scaldarlo. Distese le braccia, cercò di sciogliere i muscoli contratti. Nonostante avesse seguito i propri desideri, non si sentiva per nulla appagato. Al contrario, era ancora più scontento, se era mai possibile. E troppo, troppo lontano da lei!
Le poche ore di sonno non erano state sufficienti a cancellare gli avvenimenti della sera prima e, all'ira del giorno precedente, doveva già sommare l'insoddisfazione di quello appena iniziato.
Sbuffò. Aveva bisogno di lavarsi e di fare una cavalcata, ma prima doveva uscire da lì.
Si girò a cercare i propri vestiti. Mentre i suoi occhi vagavano per la stanza, inciamparono sulle lenzuola disordinate e sul letto disfatto.
Dannazione!
Per un breve istante aveva dimenticato la follia che, dopo aver lasciato Silanna, lo aveva spinto ad affogare il proprio turbamento tra le braccia di un'altra donna. Che terribile impiccio, dover aggiungere anche quella discussione alla lista delle questioni da affrontare!
Quel pensiero servì soltanto ad aumentare il suo cattivo umore. Sua madre, poi, non gli avrebbe lesinato i suoi rimproveri, come faceva da anni: gli avrebbe fatto la solita predica, gli avrebbe ricordato il suo ruolo e la sua posizione, infine gli avrebbe domandato perché mai non cercava i suoi divertimenti altrove. Ci teneva così tanto alle sue dame di compagnia!
A lui non sarebbe bastato giustificarsi dicendo che dama Roselyne gli aveva aperto spontaneamente la porta, il cuore e anche qualcos'altro.
No, non sarà sufficiente...
La regina si sarebbe adirata comunque.
Che terribile, immenso impiccio!
Si fermò un istante a guardare la ragazza. Fece scivolare lo sguardo sui suoi capelli biondi, poi sulla schiena candida che si sollevava appena nel respiro lieve del sonno. Era molto carina, e dolce senza dubbio, ma in definitiva non ne era nemmeno valsa la pena. Troppo inesperta. Dopo tutto ciò che era accaduto quella notte, lui non era certo alla ricerca di carezze e di dolcezza.
Si passò un dito sulle labbra. Avrebbe trovato una soluzione ed evitato ogni altra inutile discussione sull'argomento. Pensò di darla ad Aidanhín, visto che sembrava divertirlo tanto, ma ricordò di avere altri progetti per il futuro del giovane principe.
Ci pensò su un attimo ancora, poi scosse il capo.
Sì, l'avrebbe data in sposa a qualche nobile del regno e tutti sarebbero stati soddisfatti. Doveva solo trovare il candidato adatto, ma una questione, almeno, era stata risolta.
Poteva andare a cavalcare.
NOTA DELL'AUTORE
Cogitationis poenam nemo patitur (ovvero Nessuno può subire una pena per i propri pensieri) è una locuzione tuttora in uso nel Diritto Penale.
Secondo questo principio, non c'è reato (e di conseguenza non può essere inflitta una pena), se la volontà di commettere un crimine non viene realizzata materialmente. Insomma, è il motivo per cui non commettiamo reato quando pensiamo che vorremmo uccidere qualcuno 😂
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