19. SUPERIOR STABAT LUPUS
"Parlatemi dei Nani".
L'aveva detto con urgenza. Per impedire a lei di aggiungere altro. Per impedire a se stesso di pensare. L'elfa l'aveva guardato con timore. La sua espressione era diventata di nuovo fredda, la voce impostata su quel tono di comando che conosceva bene. Ubbidì, rinunciando mentalmente agli incantevoli momenti che le stava regalando quella notte.
Senza mai guardarlo negli occhi, raccontò di come Arandor avesse modellato i Casári dalla roccia per farne il proprio esercito nella battaglia contro Eär, e di come essi fossero senza cuore né coscienza, rispondendo esclusivamente alla volontà del loro creatore. Narrò che, una volta cessata la guerra, si abbandonarono sul terreno, privi di qualsiasi desiderio, finché la dea ebbe pietà del loro stato e gli donò un cuore di carne.
Galanár la lasciò parlare in silenzio, senza più interromperla con le sue facezie. L'ascoltava, o fingeva di farlo, ma era tornato a essere il principe irrequieto di sempre. Non si offrì nemmeno di accompagnarla e si congedò con un saluto gelido e frettoloso, che colmò Silanna di un'indicibile tristezza.
Non poteva restare. L'odore della notte e le parole sussurrate contro le stelle gli rendevano difficile resistere alla tentazione di confidarsi, una volta ancora, con Silanna.
Si lasciò cadere sul letto, strinse le palpebre e cercò il sonno che gli sfuggiva. Frammenti di discussioni e schegge di quei momenti trascorsi con lei si mescolavano tra loro.
Estinguere l'odio tra Uomini ed Elfi, come nemmeno gli dei erano riusciti a fare? Poteva davvero? Era scabroso pensare di potersi sostituire a un dio, eppure lui lo faceva spesso, e con leggerezza. Sarebbe stato all'altezza di quel compito? Poteva andare oltre le leggi imposte dal passato e riscriverle?
No, non doveva pensarci.
I Nani!
Quella era la sua unica preoccupazione: un nemico vero, reale, che a breve avrebbe dovuto affrontare.
I Nani!
Non aveva alcuna intenzione di scendere in campo e trovarseli di fronte senza avere la minima idea di cosa fare. Doveva sapere com'erano fatti, studiare un modo efficace per respingerli.
Voi pretendete di essere amato da un popolo di cui non conoscete nulla...
La conoscenza avrebbe potuto guidare diversamente la sua spada? Cambiare le scelte future? O quelle in passato?
Un brivido gelido gli attraversò la schiena e la vista gli si annebbiò per un istante.
Perché, secondo gli antichi Eldar, i Troll erano Atani un tempo...
Atani. Uomini.
Per anni aveva incitato i suoi soldati alla lotta, propugnando quella guerra giusta contro un popolo incivile e brutale, contro esseri che considerava di poco superiori agli animali. Li aveva fatti trucidare come le bestie, senza concedere loro neppure l'onore del campo, senza riservare ai prigionieri alcuna clemenza né possibilità di riscatto.
Li aveva fatti massacrare senza battere ciglio.
Si coprì gli occhi con una mano. Non riusciva a respirare, non riusciva a cancellare quella vertigine improvvisa che lo aveva colpito.
Non poteva più dormire.
"Aegis...".
L'incantatore sobbalzò, stupito nel vedere il principe in biblioteca a quell'ora della notte. Interruppe la lettura e fece per alzarsi, ma Galanár lo fermò con un gesto della mano, obbligandolo a sedersi di nuovo. Spinse contro di lui un libro e, con un dito, gli indicò un punto sulla pagina giallastra.
"Perché non ne ero al corrente?"
L'elfo analizzò il passo indicato, poi fissò il principe con uno sguardo sicuro.
"Queste sono le cronache degli Eldar, mio signore. Quelle che avete studiato voi erano le cronache redatte dagli scrivani di Arthalion. Nessuno di loro aveva interesse nel riportare simili informazioni sui Troll, spero che ve ne rendiate conto".
Udendo la voce alterata di Galanár, Mellodîn si fece attento. Aveva promesso al maestro elfo di aiutarlo a cercare notizie sugli armamenti nanici e sui leggendari carri da battaglia che avevano più volte sbaragliato l'esercito elfico del Nord. Mise da parte il volume illustrato che stava sfogliando e si girò a seguire quello scambio di battute.
"Aegis, prendi uno dei tuoi, uno di cui ti puoi privare in battaglia. Voglio che resti qui, a Laurëgil. Voglio che copi tutto ciò che non è stato riportato nei nostri libri".
All'udire quelle parole, l'elfo lo fissò sorpreso. Galanár intuì il suo dubbio inespresso e proseguì deciso.
"Quando tutto sarà finito e saremo di ritorno ad Arthalion, ordinerò agli scrivani di aggiornare le nostre cronache".
Mellodîn, a quel punto, non riuscì più a trattenersi e si avvicinò allo scrittoio dove Aegis sedeva con i due tomi ancora aperti. Seguì rapidamente i pochi tratti di inchiostro incriminati e una chiara espressione di disapprovazione gli si dipinse sul viso.
"Non c'è motivo perché tu lo faccia", dichiarò.
Il principe gli lanciò uno sguardo feroce.
"La mia gente deve forse ignorare la sua storia?"
Il capitano scosse il capo, trascurando la sua reazione.
"La sua storia? I Troll? Davvero, Galanár? Tu... proprio tu, non dovresti mai scendere a patti con la tua coscienza".
Il principe fu sul punto di cedere all'ira di fronte a quell'accusa che, proprio perché giusta, gli era sembrata ancor più intollerabile, ma un pensiero intervenne a fermarlo.
"Lo farò ugualmente", rispose con una calma innaturale. "Correrò il rischio. Voglio che mi amino perché mi conoscono. Così come sono, con tutte le mie ragioni".
"Tu vuoi che ti amino?", scandì il capitano, come se stesse parlando con un ragazzino che non aveva contezza dei propri desideri. "E come potresti mai distinguere l'amore dal timore?"
Galanár lo fissò, incapace di rispondere. Mellodîn si staccò bruscamente dallo scrittoio e, senza nemmeno uno sguardo, si limitò a riprendere la sua lettura. Sapeva come punire l'orgoglio del principe e, nel corso di quella permanenza a Laurëgil, aveva avuto tutto il tempo per perdere la pazienza. Prima quei discorsi inopportuni sull'importanza della cultura elfica, poi l'improvvisa ossessione di voler conquistare l'amore dei popoli. A completare il quadro, saltavano fuori pure gli scrupoli e i Troll!
Se c'era una debolezza che il capitano aveva sempre rimproverato all'amico era l'eccessiva influenza che le donne riuscivano a esercitare su di lui. Finché la donna in questione fosse stata la regina di Arthalion, avrebbe accettato di buon grado, per il rispetto e la lealtà che le portava. Ma se la donna era quella straniera, la situazione diventava preoccupante, Daimonmaster o no.
Galanár, intanto, si era lasciato andare su una sedia, vicino allo scrittoio su cui Aegis era tornato ad analizzare le pagine antiche, ed era sprofondato nei suoi ragionamenti. Avrebbe fatto trascrivere le Cronache ugualmente, perché a quel punto non si sarebbe rimangiato la parola, ma le parole di Mellodîn avevano sortito comunque un effetto: lo avevano fatto sentire sciocco, ingenuo e idealista. E falso.
"Aegis", scandì d'un tratto, con voce placata, "che cosa abbiamo trovato su quei carri da guerra?".
L'incantatore aggrottò la fronte, raccolse alcuni fogli sparsi e li porse al principe.
"Qualche incisione, qualche breve resoconto di guerra, ma è tutto qui. Nessuna trattazione tecnica che possa suggerirne il funzionamento o i meccanismi. E per quel che riguarda un piano di difesa concreto, possiamo solo fare supposizioni".
Galanár analizzò gli schizzi con scrupolo. Era evidente che quella biblioteca non gli avrebbe fornito nessuna mistica soluzione al problema, e lui non aveva più scuse: doveva risvegliarsi dal torpore beato di quel riposo e partire immediatamente. Doveva prendere congedo dal re e spostarsi nella locanda per gestire la sistemazione delle truppe e delle vettovaglie.
Il pensiero di Silanna fece breccia per un solo istante: no, lei sarebbe rimasta alla reggia fino alla partenza. Non era di nessuna utilità durante i preparativi. L'avrebbe tenuta a distanza, evitando di scambiare con lei più di un saluto.
Partirono in un'alba algida, in cui le mura di Laurëgil tremolavano biancastre nella foschia, quasi respingendo la luce del sole nascente. Sembrò loro un vago presagio, un assaggio di ciò che li attendeva a Foroddir.
Le terre di Laurëlindon avevano un clima simile a quello del regno umano di Amfalas, ma la zona che dovevano raggiungere era ben diversa. Lì, avanzando verso il confine con il regno nanico di Gonthalion, il paesaggio diventava montano e gli inverni rigidi. Quella terra, dove si intrecciavano ricami di laghi e percorsi di ruscelli, diventava inospitale e fredda già all'approssimarsi dell'autunno, e la luce di Laurëlindon sembrava sbiadire, aprendo le porte a notti interminabili.
I giorni di cammino si sommarono, indistinti e monotoni, mentre gli impercettibili cambiamenti nel paesaggio segnavano i progressi della marcia. Sebbene la distanza che separava la capitale di Foroddir da Laurëgil fosse quasi identica a quella che divideva quest'ultima da Arthalion, e sebbene la strada fosse di gran lunga più tranquilla dei tortuosi valichi dell'Ambit, a Galanár sembrava di non dover giungere mai.
Impose un ritmo quasi forsennato al loro andare, obbligando la colonna a poche e brevi soste. Avrebbero riposato a Formenos, nel castello di suo zio Anárion. Fino ad allora non sarebbe riuscito a placarsi, non sarebbe riuscito a sentirsi al sicuro.
L'esercito era sempre più silenzioso, segno che nessuno degli uomini aveva voglia di commentare. Il dubbio sugli intenti di quella spedizione cominciava a serpeggiare e Galanár sentiva l'urgenza di arrivare per quietare quel malumore ed evitare il sopraggiungere delle domande. Domande inevitabili quando l'entusiasmo delle vittorie scoloriva nelle marce, l'attesa dello scontro sbiadiva nella monotonia dell'andare e il cammino lasciava a tutti il tempo di chiedersi quali fossero le reali motivazioni di quell'alleanza, la cui singolarità era balzata agli occhi di tutti dopo la fredda accoglienza degli Elfi.
Se il lungo viaggio aveva concesso a Galanár il tempo di rimuginare su come rintuzzare ogni protesta, di certo non lo aveva preparato alla sorpresa finale. Nemmeno nelle sue più cupe fantasie avrebbe saputo figurarsi lo scenario di grigia desolazione che si trovò dinnanzi quando giunse in prossimità della capitale.
Il castello di Formenos era lontano dall'immagine eburnea di Laurëgil: nessuna torre aggraziata, nessun gioiello incastonato nella roccia, ma una costruzione diversa da qualsiasi altra architettura di sua conoscenza.
Era una fortezza tozza e robusta, più simile ai torrioni che a Aermegil si ergevano sulle scogliere assalite dalle onde, ma più ampia e imponente, di una fattura sconosciuta agli architetti della Lega. L'intreccio di pietre che ne cingeva l'ampio perimetro era realizzato con un doppio livello che nulla aveva della grazia delle costruzioni elfiche, ma che trasmetteva al primo sguardo una sensazione di sicurezza e stabilità. Confrontando quella vista con ciò che gli era stato insegnato, Galanár stimò in un'occhiata quale potesse essere la vera espressione di quel luogo: la lunga conoscenza con l'avversario aveva trasformato perfino l'aspetto di quella regione, e l'unico modo per sopravvivere a un nemico storico era stato quello di assumerne le fattezze.
Ciò che, tuttavia, rendeva il maniero ancor più angosciante era l'alone di abbandono che lo circondava. Sembrava una roccia lasciata alle intemperie più che un baluardo di salvezza. Si ergeva solitario e avvolto da un silenzio inquietante, inadatto a una capitale. Nessuna bandiera o stendardo sventolava tra i torrioni, segno inequivocabile che il re di Foroddir non era nella sua dimora.
Galanár entrò a spron battuto, seguito dai suoi ufficiali. Il rumore degli zoccoli sul selciato deserto attirò l'attenzione dei servi, che abbandonarono le proprie mansioni per accorrere nella corte. Nessuna guardia aveva ostacolato il loro ingresso, e zappe e forconi sembravano le uniche armi dalle quali avrebbero dovuto difendersi.
"Dov'è il vostro signore?", chiese con tono autoritario. "Dov'è re Anárion?"
Tutti i presenti, però, sembravano più interessati a studiarlo con stupore che a rispondere alle sue domande. Il generale gettò di lato le redini con un gesto sprezzante, dal momento che nessuno scudiero si era presentato per aiutarlo a smontare e prendersi cura della sua cavalcatura.
"Chi è che regge il castello? A chi devo presentare le mie rimostranze?", domandò ancora.
Scese da cavallo e sguainò la spada, avviandosi verso lo scalone che conduceva al mastio. Con un discreto cenno della mano, Mellodìn fece distendere una fila di arcieri alle sue spalle, ordinando loro di armarsi, ma senza puntare. Galanár attraversò lo spiazzo, mentre i servitori silenziosi si stringevano tra loro.
Un rumore di metallo suggerì l'apertura di un pesante portone. Due armigeri con lancia si fecero avanti. Dietro di loro veniva un elfo alto, le cui vesti curate tradivano un ruolo di discreta importanza. Il principe si arrestò e rinfoderò la spada, mentre l'elfo gli tributava un inchino.
"Sono Allodiar, il siniscalco, vostra altezza. Mi scuso profondamente per la misera accoglienza che vi è stata riservata".
Galanár lo guardò stranito. Quella circostanza cominciava a sembrargli sempre più assurda e innaturale.
"Voi sapete chi sono?"
Il siniscalco sollevò appena il capo, scoprendo un sorriso tagliente.
"Esistono, in Amilendor, altri Mezzelfi con le insegne di Arthalion, mio signore?"
Galanár si limitò a rispondere con una smorfia, si sfilò i guanti e li batté sul dorso della mano, con aria risentita.
Il siniscalco fece cenno a un giovane, che prese le redini del cavallo e lo tirò verso le scuderie. Il principe sollevò il braccio e i soldati scesero dalle loro cavalcature. In un attimo la corte risuonò di rumore di zoccoli e di esclamazioni colme di sollievo. Nel frattempo, il notabile e i due armigeri si erano fatti da presso.
"Dov'è re Anárion?", ripeté Galanár. "Il castello sembra abbandonato".
"Il sire Anárion non è qui. Si è accampato con l'esercito nella valle a una lega di distanza. Io reggo la casa in sua assenza e dirigo le attività dei contadini, dei mercanti e dei servi del castello, affinché nulla venga a mancare ai nostri uomini e alle loro famiglie".
"Mi sembra che a mancare siano le difese, onorevole signore".
"Vostra altezza, esistono difese invisibili all'occhio, ma ugualmente efficaci. Se siete passati indenni, è solo per via del vostro rango e della vostra missione".
L'elfo tacque un istante, studiando l'espressione perplessa del principe.
"Ci avevano detto che sareste arrivati", concluse pacato.
Galanár stabilì, a quel punto, di averne avuto abbastanza di quella discussione che stava alimentando la sua ira.
"Possiamo evitare i convenevoli e gli scambi inutili di carteggi, allora, e saltare alle conclusioni. Disponete delle stanze per me e per i miei capitani, fornite cibo per rifocillare uomini e cavalli. Disporrò che si sistemino attorno al castello per la notte, non recheremo disturbo ai vostri abitanti. Ci fermeremo qui uno o due giorni, giusto il tempo per rimettere in forze le truppe, quindi ci uniremo a nostro zio presso il suo accampamento".
Il siniscalco fece un profondo inchino, quindi cominciò a dispensare ordini. La corte deserta e abbandonata si animò di colpo e le vie della rocca si popolarono di voci e persone indaffarate.
A dispetto della fredda accoglienza, la gente di Formenos sembrò tornare in vita, come se il solo materializzarsi di quegli uomini avesse risvegliato di colpo le loro speranze sopite.
Galanár seguì le operazioni fino al calar del sole, rimuginando sulla stranezza del luogo e della situazione. Non parlò con nessuno, nemmeno con Mellodìn, se non per impartire disposizioni. Giunta la sera, consumò una parca cena in compagnia del siniscalco e si dileguò tra i corridoi del castello.
NOTA DELL'AUTORE
Superior stabat lupus (Il lupo stava più in alto) è una delle frasi con cui si apre la famosa favola di Fedro, Il lupo e l'agnello.
La locuzione viene utilizzata per indicare chi, sicuro della propria forza ma privo di una giustificazione per le sue mire, accampa una scusa qualsiasi per agire.
Vi riporto l'intera favola, che rileggerla fa sempre bene 😊
«Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, erano venuti allo stesso ruscello.
Il lupo stava più in alto e, un po' più lontano, in basso, l'agnello.
Allora il malvagio, incitato dalla gola insaziabile, cercò una causa di litigio.
"Perché - disse - mi hai fatto diventare torbida l'acqua che sto bevendo?
E l'agnello, tremando:
"Come posso - chiedo - fare quello di cui ti sei lamentato, o lupo? L'acqua scorre da te alle mie sorsate!"
Quello, respinto dalla forza della verità:
"Sei mesi fa - aggiunse - hai parlato male di me!"
Rispose l'agnello:
"Ma veramente... non ero ancora nato!"
"Per Ercole! Tuo padre - disse il lupo - ha parlato male di me!"
E così, afferratolo, lo uccide dandogli una morte ingiusta.
Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono gli innocenti con falsi pretesti.»
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top