18. SICUTI CAELUM DEIS...
Silanna cominciava a domandarsi se la conversazione notturna con Galanár non fosse stata solo un sogno. Lui era sparito per giorni e lei non aveva la possibilità di aggirarsi a proprio piacimento tra le mura di quel castello, dove l'ostilità tra gli ospiti era sempre più palpabile.
L'attesa era una delle pratiche che aveva imparato a Valkáno, ma non rientrava tra le sue attività preferite. Così quella sera, quando il velo blu del cielo si era fatto abbastanza fitto da nascondere i segreti, decise di cercarlo.
La fortuna le fu amica, o forse Galanár aveva deciso di farsi trovare, perché lo scovò sulle mura esterne, poco distante dal luogo in cui avevano parlato l'ultima volta. Sedeva per terra, con la schiena appoggiata alla parete di pietra, ed evidentemente non lo interessava il pensiero di imbrattare la camicia che stava indossando. D'altronde era assai probabile, ragionò l'elfa, che ne possedesse un numero irragionevole e perfino superfluo.
Una gamba era piegata a fare da leggio e sorreggeva un volume poggiato sull'addome. Al suo fianco, un candeliere reggeva un grosso cero che gli illuminava le pagine. La fiamma danzava tra le increspature della carta e le ciocche dei suoi capelli sciolti. Era un'immagine distante ed estranea a quella che il principe proiettava di sé ogni giorno: in quell'atteggiamento, Galanár sembrava innocuo.
"I passatempi delle nostri corti devono sembrarvi parecchio monotoni, se preferite trascorrere la setata in questo modo", osservò Silanna con tono lieve.
Il principe sollevò le iridi azzurre dal libro e la luce della candela li fece guizzare di un vivo bagliore.
"A essere sincero, leggere mi annoia molto, ma qualcuno mi ha detto che questo sforzo era necessario se volevo essere amato".
"Una donna senza dubbio".
Galanár sorrise e la invitò a fargli compagnia con un gesto della mano. L'elfa raccolse le vesti e si rannicchiò vicino a lui. Da quella breve distanza, poté avvicinarsi per vedere il titolo del volume che stringeva tra le mani.
"Yénonótië Eldaiva", pronunciò a fior di labbra. "Le cronache degli Elfi".
Sollevò le ciglia stupita e delusa al contempo, e si ritrasse.
"Una lettura elementare", commentò. "Inadeguata per chi sostiene di essere stato istruito dal maestro Quenthar. Mi avete mentito, l'altra notte?".
Le labbra di Galanár si piegarono in una smorfia ironica e chiuse il libro con un colpo secco.
"Tre sono le fasi del tempo", iniziò a recitare alla perfezione, senza mai staccare gli occhi da Silanna. "Tre sono gli elementi che compongono gli esseri senzienti. Tre sono gli Antichi Dei. Vertici di una forma stabile e perfetta, gli Eterni che tutto sanno abitavano lo spazio quando Amilendor giaceva ancora silenziosa e vuota. Amaurëa, la maggiore tra gli Immortali, l'amò da subito e la desiderò come propria dimora, così disse ai suoi fratelli..."
Si interruppe e rimase in attesa, mentre si godeva la sorpresa di lei e, insieme, il suo imbarazzo per aver dubitato.
"Dividiamo lo spazio tra di noi", completò l'elfa con un filo di voce, "affinché ognuno sia libero di plasmare la materia secondo il proprio desiderio... Perché vi interessa questo libro, se lo conoscete a memoria?"
Il principe distolse lo sguardo e la linea che disegnava la sua bocca perse la sua grazia.
"Perché questo libro", enfatizzò battendo i polpastrelli sulla copertina robusta, "è scritto in maniera diversa".
Silanna scosse il capo come se lui avesse pronunciato una bestemmia.
"Questo libro non può essere scritto in maniera diversa, perché è l'origine di ogni altra storia. Chiedetevi piuttosto se non sia la vostra copia a essere stata tradotta in maniera errata".
Galanár prese fiato con difficoltà.
"È proprio quello che ho paura di scoprire".
D'impulso, Silanna poggiò le dita sulla sua mano, serrata attorno alla rilegatura e contratta dai dubbi inespressi che gli serpeggiavano nella mente.
"Non c'è nulla di terribile nella conoscenza. È l'ignoranza a dovervi spaventare", sussurrò con dolcezza.
Per tutta risposta, lui si tirò su e si sistemò più vicino.
"Aiutatemi a capire", le propose, disponendo il libro aperto tra loro. "Tutta la prima parte mi sembra identica: Amaurëa, dopo lo scontro tra i suoi fratelli gemelli, Arandor ed Eär, dispose che ognuno avesse il dominio di una parte di Amilendor".
L'elfa annuì.
"Esatto. Di Amaurëa è il cielo con le sue creature, di Arandor la terra e quanto contiene, di Eär le acque e i suoi fondali", elencò con tono pacato, come davanti a un allievo da ammaestrare. "Ogni Antico plasmò poi uno spirito che lo assistesse nella creazione. Amaurëa generò Vilya, colei che non può essere racchiusa. Arandor modellò Nór, che muove gli altri restando immobile. Eär diede vita a Nén, che prende la forma di ciò che la contiene. Quindi, unendo le forze, forgiarono Nár, l'Imparziale che mantiene l'equilibrio con la forza distruttiva".
"Ovvero i Quattro Grandi Daimon" concluse Galanár sicuro. "Aria, Terra, Acqua e Fuoco. Grazie a loro, Amilendor iniziò a risplendere di vita. Per Amaurëa, però, non c'era delizia in tanta meraviglia se nessuno poteva goderne, così si rifugiò sull'isola di Ernendir e creò gli Eldar".
Un'espressione divertita gli attraversò il viso e non sfuggì a Silanna, che gli rivolse un'occhiata accigliata.
"Trovate così spassosa la nascita degli Alti Elfi?"
Di fronte a tanta severità, Galanár non poté impedirsi di ridere.
"No, trovo ironico che la Dea vi abbia creati da una ciocca lucente dei suoi capelli e che si sia ispirata alle piume degli uccelli per dar forma alle orecchie. C'erano storielle migliori per spiegare il vostro aspetto".
"Siete irriverente!", sbottò lei, infervorandosi in quel discorso. "La Dea ha concesso agli Eldar vita immortale e profondità di spirito. Correvano come il vento, avevano la vista di un rapace, parlavano con le nuvole e dominavano le correnti. Amaurëa ha aperto loro la mente e li ha addestrati all'amore per la natura".
"Doni splendidi, ne convengo. Soprattutto l'immortalità", sogghignò. "Peccato che quest'ultima vi sia stata revocata".
"E di chi è stata la colpa?", brontolò Silanna, come se lui l'avesse colpita sul vivo.
Se qualcuno avesse osservato il principe e l'elfa in quel momento, avrebbe giudicato la scena inusuale: lui aveva un atteggiamento rilassato che non sfoggiava quasi mai, e sembrava molto compiaciuto dal cipiglio di lei.
"Di Eär, direi", ribatté con aria di celia, dopo aver finto di riflettere sulla domanda. "Ma pare che gli Dei siano infallibili... non è questo che predicate?"
"Non siate blafemo! È stato quel dio a plasmare gli Atani nelle profondità del mare, con l'aiuto di Nén. Lui vi ha instillato l'intelletto".
"Ma non l'immortalità", obiettò il principe. "Forse non era sicuro di volerci sopportare in eterno! E comunque ci ha abbandonati, quando si è stancato della nostra presenza. Dovrebbe meritare il mio rispetto per questo?"
Silanna sbuffò, esasperata: sembrava uno sforzo inutile, cercare di discutere con lui! Se non fosse stato tanto piacevole il modo in cui rispondeva con leggerezza ai suoi tentativi di farlo ragionare, avrebbe già inventato una scusa per congedarsi. Invece non riusciva ad abbandonare la conversazione. Era caduta nella trappola delle sue provocazioni e non voleva più liberarsi da quel laccio.
"Siete sopravvissuti, no?", ribatté con lo stesso tono superficiale. "Avete abbandonato il regno marino, vi siete adattati alla terra ferma e avete costruito le vostre città. Certo, la vostra vita è breve se paragonata a quella degli Eldar, ma siete una razza molto prolifica, in compenso. La stessa Amaurëa ha avuto pietà del vostro destino: vi ha insegnato il ciclo delle stagioni per coltivare la terra e il movimento delle stelle per guidarvi nella navigazione".
"E gli Atani benedirono il nome di Amaurëa nei secoli", recitò lui con enfasi. "O, almeno, fino all'arrivo degli Eldar, con la loro smodata sete di conoscenza e il desiderio di dominare ogni cosa".
A quelle parole, sul viso di Silanna si disegnò lo sgomento.
"Dominare ogni cosa? È questo che vi hanno insegnato?"
Galanár scosse il capo e sorrise.
"Suvvia, non vi alterate", scandì con dolcezza.
Nel piacevole abbandono di quel momento, in cui discutevano di un mondo che appariva distante da ogni loro reale preoccupazione, sembrava quasi un ragazzino. I suoi lineamenti elfici emergevano e raggiungevano infine la loro visibilità, mentre il principe avvicinava il viso a quello di lei con una confidenza che la sorprese, ma non la spaventò.
"Sapete che queste sono solo favole inventate per instillare la paura e alimentare l'odio tra le nostre razze, vero?"
Silanna pensò che sarebbe stato bello credergli e immaginare che fosse sufficiente cancellare ogni riga di quel libro per dimenticare e ricominciare. Guardandolo, capì che lui lo riteneva davvero possibile. Ma lei, lei doveva restare con i piedi per terra.
"Che amore potrebbero mai provare gli Elfi versi gli Uomini?", sussurrò con voce amara, ritraendosi appena. "Sono stati la causa indiretta della nostra caduta dalla grazia".
Senza un vero motivo, Galanár si sentì contagiato dalla sua malinconia. Era un sentimento estraneo per lui e non era in grado di decifrarlo, ma sentì ugualmente il desiderio di cancellarlo da quegli occhi dorati.
"E sia, allora", disse piano, prendendo tra due dita l'estremità di una delle sue ciocche nere. "Raccontatemi la vostra versione".
Lei lo guardò giocare con i suoi capelli con una discrezione che le parve incredibile, se paragonata all'idea che si era fatta di lui durante il loro primo incontro. Era incredibile pensare che fosse lo stesso uomo, quello che le stava accanto, timoroso perfino di sfiorarla.
"Quando il dio Eär scoprì che le sue creature avevano abbandonato il regno marino e veneravano il culto della Dea", iniziò con un filo di voce, "si vendicò traviando le menti dei figli di Amaurëa. Gli ispirò sogni in cui mostrava gli Atani e le loro terre, e alimentò la curiosità per quella civiltà. Agli Eldar era stato proibito di abbandonare l'isola, perché in Ernendir era stato posto un incantesimo che alterava il tempo. Grazie a quella magia, non morivano e non invecchiavano. Quando giunsero sul continente e vi si stabilirono per esplorarlo, ebbe inizio la Caduta. Lontani dalla luce della Dea, sui loro volti comparvero i segni dell'età: gli Eldar avevano perso la loro immortalità e, assieme alla conoscenza che avevano così fortemente desiderato, appresero anche i concetti di decadenza e morte".
Le parole di Silanna erano piume scure nella notte. Galanár socchiuse le palpebre ed ebbe l'impressione di sentirne il tocco sulla pelle mentre le ascoltava. Quando li riaprì si accorse che una minuscola lacrima era scesa a rigare il viso di lei. Le sfiorò la pelle con un dito e risalì a cancellare quel segno mentre si perdeva nella luce fragile dei suoi occhi.
"E Amaurea vide ciò che era accaduto ai suoi figli e pianse", mormorò con dolcezza, come se in lei avesse colto l'immagine stessa della Dea.
Silanna chinò il capo e il fragile contatto si interruppe.
"Quella sventura ha provocato una guerra fratricida tra gli Dei. Ha portato alla distruzione di Amilendor e all'affondamento dell'intera isola di Ernendir, assieme alla nostra definitiva condanna alla mortalità. Per questo non potrà mai esserci amore tra Uomini ed Elfi".
Si era spezzato il momento e il principe si ritrasse. Si passò una mano tra i capelli, come se quel gesto fosse necessario per rimettere in ordine un equilibrio che era stato alterato.
"Perché dare tanta importanza al passato, reale o immaginario che sia?", domandò, riprendendo il suo tono lieve. "Io preferisco pensare al mondo così come lo conosciamo".
Istintivamente, Silanna rise: quel principe era davvero ostinato e impossibile!
"Esiste qualcosa verso cui riuscite a provare rispetto?"
"Ho una certa soggezione nei confronti dei Daimonmaster, in effetti", scherzò lui. "Ma solo perché li ho visti all'opera di persona e non ne sfiderei uno a cuor leggero".
Lei gli rivolse un'occhiata penetrante.
"E degli Elfi Scuri? Di loro che pensate?", chiese diretta.
Galanár si strinse nelle spalle.
"Che non ne so molto, in verità".
Sfogliò un paio di pagine del libro e le mostrò un punto sulla carta.
"Dove si tratta delle razze inferiori... è corretta la traduzione?", chiese.
"È corretta".
"Non ho mai visto questa parte in nessuna delle copie che ho avuto tra le mani".
"Posso immaginarlo. Nessuno ha interesse nel tramandarla", sospirò lei. "In passato, alcuni Eldar cercarono di recuperare lo stato di grazia. Erano Daimonmaster ma, nel totale disprezzo del loro ruolo, iniziarono a praticare la magia proibita e cercarono di evocare i Quattro Daimon per far risorgere Ernendir e riavere l'immortalità. Amaurea lì punì mentre svolgevano il rituale, volgendogli contro il loro stesso incantesimo. Li trasportò sull'isola e li espose alla sua luce divina, bruciandoli. Non li uccise, ma gli inflisse indicibili dolori e incise sui loro corpi i segni del tradimento: la carnagione divenne scura e l'argento dei capelli mutò in inchiostro. Il marchio della maledizione di Amaurea affligge ancora oggi la loro progenie che, per quella antica colpa, non troverà mai posto nella società degli Elfi".
Lui la scrutò nel silenzio che era disceso tra loro. Avrebbe voluto chiederle cosa si provasse nel portarsi addosso quella ingombrante eredità, o almeno trovare qualcosa di saggio per chiosare la faccenda, ma non possedeva né il tatto né la profondità necessarie, così si limitò a esprimere l'unico parere di cui si sentiva sicuro.
"Non giudico la lealtà dal colore della pelle".
Lei, però, si fece ancora più triste.
"Un giorno, forse, vi costringeranno a farlo".
Galanár scosse il capo con sicurezza.
"I peccati da commettere preferisco sceglierli da me", dichiarò con la solita, affascinante insolenza.
Lei lo studiò con una punta di preoccupazione, come se quell'affermazione avesse risvegliato un'inquietudine che non aveva il coraggio di esprimere.
"E sapete anche come scontarli?", azzardò infine, schivando il suo sguardo.
L'espressione del principe si fece di colpa attenta.
"Che intendete?"
"Che esiste ancora una stirpe di cui si parla in quel capitolo. Si dice che fossero incantatori, o addirittura negromanti, che riportarono in vita il culto di Eär, e che per questo vennero scacciati e perseguitati. Si adattarono a vivere sulle inospitali montagne dell'Ambit e, col tempo, persino il loro aspetto mutò. Conservarono le proprie conoscenze della magia elementare, dei veleni e delle pozioni, ma i loro costumi degenerarono verso forme primitive".
"I Troll?", rise lui. "Non me ne darei pensiero. Non sono più una razza inferiore, ormai. Sono una razza estinta".
L'elfa tornò a fissarlo spaventata.
"Se fossi in voi, non me ne farei un vanto", suggerì, mentre il fiato le veniva meno.
"Perché mai?"
"Perché, secondo gli antichi Eldar, i Troll erano Atani in un tempo remoto della loro esistenza".
NOTA DELL'AUTORE
La citazione integrale è Sicuti caelum dei, ita terras generi mortualium datas: Come il cielo è per gli dei, così le terre sono per il genere umano (dal XIII Libro degli Annali di Tacito).
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