13. AEQUAE CONDICIONES

L'udito fu il primo dei suoi sensi a risvegliarsi: il ronzio di un insetto che volteggiava nell'aria, il martello dello scalpellino che batteva sulle armature ammaccate, il basso nitrito dei cavalli, una voce femminile dal tono sommesso e il tramestio di qualcuno che sfaccendava poco lontano da lui.

Galanár aprì gli occhi e girò lo sguardo intorno. Non c'era nulla che non fosse familiare in quella tenda, eppure gli sembrava di essere ancora dentro un interminabile sogno. Provò a sollevarsi puntellandosi a un braccio, ma un dolore pungente lo trafisse e lui ricadde pesantemente sulla schiena. Il gemito che gli sfuggì dalle labbra fece cessare ogni rumore attorno a lui.

Quando si riebbe, vide Silanna ferma al centro della tenda, con le braccia incrociate sul petto. Stava passando lo sguardo sul suo viso e sul suo corpo, annuendo soddisfatta.

"Sembrate abbastanza in forma, generale", disse con aria brillante. "Ditemi, dunque: sono falco o colomba?"

Galanár non rise della sua arguzia. Non trovava affatto divertente quella situazione. Il pensiero di essere ferito, malato o comunque dipendente dalle cure di qualcun altro lo faceva solo andare in collera. Era abituato a considerarsi una creatura eccezionale e detestava ogni debolezza del suo corpo. Provò vergogna al pensiero che proprio lei avesse assistito a quel momento di fragilità. Quanto patetico e piccolo doveva esserle apparso, mentre era incapace di salvare da sé la propria vita!

Le rivolse uno sguardo aspro e, pur infliggendosi una terribile sofferenza, si mise a sedere, cercando di assumere l'espressione più fredda di cui era capace.

"Da quanto tempo sono qui?", chiese senza alcun preambolo.

Il sorriso si spense sul volto di Silanna. Non si aspettava di certo un palese ringraziamento, ma nemmeno tanta indifferenza. Inghiottì la propria delusione e ostentò un'espressione orgogliosa.

"Siete stato preda delle febbri per due notti".

"Due notti?", sbottò Galanár con voce carica di rimprovero. "Chi ha dato ordine di allestire l'accampamento? Chi ha permesso un simile ritardo?"

"Sono stata io", replicò l'elfa senza un tremito.

"Non dovevate. Noi dovevamo giungere a Laurëgil nel minor tempo possibile. E poi devo pensare che tutti i miei capitani siano morti nell'imboscata, se vi è stato concesso un simile potere. O li avete stregati con le vostre grazie?"

Lei non rispose. Lasciò che le scagliasse contro la sua ira, sollevò appena le spalle e lo guardò con sufficienza.

"Sembra proprio che non vi contentiate mai di quello che faccio per voi. Mi domando se abbiate davvero bisogno di un guaritore che vi salvi la vita, o piuttosto di un servitore che vi obbedisca ciecamente".

"Mi accontenterei di un guaritore che mi salvasse la vita senza contravvenire alle regole più banali".

Con uno sforzo enorme, si era rimesso in piedi, gettando lontano da sé le pelli con cui lei lo aveva riparato nella notte.

"Siete congedata", disse indifferente, prima di rivolgersi allo scudiero rannicchiato in fondo alla tenda. "Tu, dai ordine di far sellare i cavalli e torna a portarmi l'armatura".

Silanna, già sul punto di andar via, si arrestò e tornò sui suoi passi.

"L'armatura?"

Galanár la soppesò con lo sguardo, chiedendosi se davvero quella donna avrebbe avuto l'ardire, una volta di più, di discutere le sue decisioni.

"L'armatura e la spada, subito!", rimarcò al ragazzo, mettendogli fretta con il gesto della mano.

Lei scosse la testa.

"Non potete indossare l'armatura".

"Io arriverò a Laurëgil prima che cambi la luna, e questo è tutto".

L'elfa, di fronte a tanta ostinazione, ebbe l'impulso di urlare. Serrò le palpebre per impedirsi di lanciargli contro uno dei suoi incantesimi.

"Siete... testardo, generale!", esclamò con rabbia malcelata.

Si astenne dal fare ulteriori commenti e si impose di uscire. Avrebbe trovato qualcun altro in grado di parlargli nel tono che meritava. Andò a cercare il capitano Mellodîn e lo convinse a seguirla.

Quando giunsero alla sua tenda, si fermarono entrambi sulla soglia: Galanár aveva già indossato i cosciali e la giubba di pelle, e porgeva il braccio allo scudiero affinché potesse affibbiargli i bracciali. Appena li scorse, rivolse loro uno sguardo cupo.

"Buongiorno, Mellodîn", esordì senza dargli il tempo di proferire parola. "Grazie al cielo sei qui, così gli ordini per i battaglioni potranno partire immediatamente. Dobbiamo muoverci al più presto".

"Partiremo quando potremo farlo", rispose l'altro ponderando le parole. "Dama Silanna ha detto...".

"Dama Silanna", lo interruppe il principe senza battere ciglio, "porterà gli ordini per il maestro Aegis e per i suoi uomini. Visto che andrete da lui, signora, comunicategli che le vostre arti di incantatrice sono, da questo momento, al suo completo servizio".

L'elfa sobbalzò all'udire quelle parole. Non poteva credere che lui fosse in collera fino al punto di prendere quella decisione, che suonava solo come una punizione.

"Altezza, ritengo di potermi rendere più utile tra i guaritori che tra gli incantatori".

Il principe ignorò le sue parole e porse al ragazzo l'altro braccio da armare.

"Sono io che decido cosa è più utile al mio esercito, non voi. E il mio esercito ha bisogno di un altro Daimonmaster, o di qualsiasi cosa siate".

Silanna fece per rispondere, ma un'occhiata di Mellodîn le lasciò intendere che aveva già irritato il generale a sufficienza. Per la prima volta nelle sua vita, accolse quel silenzioso suggerimento e accettò che fosse lui a parlare.

"Tuttavia, finché non saremo in assetto da battaglia, ritengo che dama Silanna potrebbe comunque accompagnarci come curatrice".

Galanár sollevò il sopracciglio e la punta delle orecchie gli tremò un istante.

"Vedo che una sola notte è stata sufficiente per farvi alleare".

Non poté continuare a sfoggiare il suo disappunto, perché in quel momento lo scudiero gli poggiò gli spallacci per completare la sua vestizione e il principe non riuscì a trattenere un'esclamazione di vivo dolore.

Sollevò il braccio illeso, prese il pezzo ancora slegato e lo lanciò in terra. Silanna si lasciò sfuggire una smorfia. Mellodîn, invece, gli indirizzò un'occhiata preoccupata. Ripensava allo sguardo di sangue del capo tribù dei Troll e a quello sprezzante degli elfi che lo avevano ucciso nella radura. Raccolse il pezzo caduto e lo mostrò all'amico.

"Non puoi mettere questo e non puoi nemmeno cavalcare senza armatura. In troppi desiderano la tua morte perché tu possa guidare l'esercito senza protezione".

"Mellodîn, aiutami a legare quello spallaccio. È un ordine".

"Le pretese insensate non possono essere chiamate ordini".

Galanár chiuse gli occhi un istante, cercando di recuperare la calma.

"A me non piace essere disobbedito", puntualizzò.

"E a me non piace vederti morto!", sbottò il capitano che, con quelle parole, sembrò mettere fine alla discussione.

Galanár, in effetti, non replicò. Passò la mano sulla spalla con lentezza e per la prima volta si soffermò a osservare con attenzione la fasciatura perfetta che Silanna aveva applicato.

"Dammi il mantello", ordinò allo scudiero.

Il ragazzo obbedì e gli affibbiò la cappa. Il principe la fissò all'unico spallaccio che aveva indossato, poi la drappeggiò sulla spalla ferita, coprendo le bende che fuoriuscivano dalla giubba.

"Cavalcherò così", disse al capitano. "E tu potrai cavalcare alla mia sinistra, così avrò una protezione migliore di quanto non sia quella piastra".

D'un tratto sembrò ricordarsi di Silanna, che era rimasta a osservare la scena senza proferire parola.

"Potete venire anche voi", aggiunse. "Ho sempre desiderato portare un falco in battaglia".

Qualche ora più tardi, l'esercito si mosse. Il generale cavalcò, così come aveva deciso, vestendo un solo spallaccio. La strada fu per lui un tormento. La ferita gli doleva a ogni scossone del cavallo e la fasciatura gli toglieva il respiro, ma era troppo vicino al suo sogno per indietreggiare di un passo, per sprecare anche un solo minuto. Così, il giorno prima che la luna cambiasse, Galanár vide le torri dorate di Laurëgil stagliarsi contro il cielo chiaro e la luce del mattino.

La parte finale di quel viaggio non era stata agevole per nessuno: Galanár non si era fermato fino a quando non aveva scorto le mura della città, obbligando se stesso e i suoi uomini a una marcia forzata di sei giorni.

Nell'ultimo tratto, vedendosi prossimo alla meta, il generale diede l'ordine di non fermarsi. Proseguirono anche sotto la luce del mezzogiorno, che faceva risplendere di verde trionfante la rigogliosa natura elfica di quelle terre, e giunsero ai piedi della capitale al tramonto.

Galanár non voleva che lo spiegamento dei suoi soldati apparisse una minaccia agli occhi degli Elfi, quindi ordinò che si accampassero poco distanti dalla cittadina, permettendo solo ai vivandieri di recarvisi per rifornirsi. Con i suoi ufficiali prese stanza nella locanda più grande, per rifocillarsi dal viaggio e presentarsi nel migliore dei modi al cospetto di re Arantar, al quale aveva già fatto pervenire notizia del loro arrivo.

A Silanna, come promesso, riservò la stanza più confortevole. Glielo comunicò senza troppi convenevoli, ancora incapace di mostrarsi gentile nonostante si sentisse in debito nei suoi confronti. Non avevano più parlato molto da quando avevano ripreso il viaggio ma lei, senza chiedere alcun permesso, si era presentata ogni giorno sulla soglia della sua tenda per controllare la ferita e cambiare la fasciatura alla spalla prima di ripartire, ignorando il suo disappunto iniziale e la sua successiva, ostentata indifferenza.

Al loro arrivo, ancora ebbro di gioia per la meta raggiunta, Galanár disertò quell'inusuale appuntamento. Si impegnò subito a impartire ordini e la notte lo sorprese con ancora addosso la polvere del viaggio. Solo dopo aver siglato il suo ultimo dispaccio, il principe uscì all'esterno, nell'ampio cortile della locanda ingombro di vettovaglie.

Le mura bianche della reggia sembravano rifulgere di uno strano bagliore persino nell'oscurità, dominando con il loro profilo quell'altura. Vista da quel punto, Laurëgil aveva un aspetto singolare. Piccoli sprazzi di luce azzurra, rossastra o dorata si aprivano di quando in quando lungo le pareti eburnee e sulle cime delle alte torri, come piccole gemme splendenti poggiate ad arte a decorare una corona. Galanár rimase a lungo a osservarli, in piedi, con le mani intrecciate dietro la schiena e lo sguardo fisso su quelle sagome da favola che si disegnavano nel cielo puntellato di stelle.

Silanna, nascosta dietro uno dei carri, lo spiò con curiosità fino a quando uno scudiero gli portò una richiesta che lo fece allontanare. Era davvero un peccato, pensò lei, che qualcuno avesse infranto quel momento. Attese per qualche istante, poi si diresse con discrezione verso la sua stanza. Aveva ancora negli occhi l'immagine del principe, solo al centro di un cortile deserto, illuminato dai raggi della luna che gli piovevano addosso, con lo sguardo perso tra le luci della città degli Elfi.

 Galanár, con modi spicci e senza badare troppo alle formalità, l'aveva invitata a unirsi a lui e ai suoi ufficiali nella grande sala della locanda, per condividere il lauto pasto di carni e vino che aveva ordinato, ma lei aveva rifiutato. Era stanca per il viaggio e non avrebbe sopportato la compagnia rumorosa di quegli uomini, nemmeno per compiacere lui. 

Un vociare di battute scherzose coprì il rumore dei suoi passi mentre saliva le scale. Quella sera, di certo, non avrebbe pensato a lei.

Avevano preso posto sulle lunghe panche di legno nel tavolo migliore, vicino al grande camino. Tutti gli ufficiali sedevano a quella mensa. C'era Mellodîn, con i suoi due luogotenenti Bellator e Amalion. C'era Kolridge, il saggio comandante della Schiera dei Guaritori, con i suoi assistenti. Persino il maestro Aegis, che pure non amava né bere né tantomeno ubriacarsi, aveva accettato di partecipare a quel banchetto, sebbene fosse da solo e avesse lasciato i suoi aiutanti all'accampamento. Nessuno di loro poteva sottovalutare l'importanza di quella cena: sapevano quanto fosse importante stringersi attorno al principe in previsione di ciò che li attendeva. E proprio per quel motivo l'assenza di lei parve insolita agli occhi del capitano.

"Dama Silanna?", sussurrò discreto all'orecchio di Galanár, mentre gli altri erano occupati a conversare.

Il principe scrollò le spalle.

"Le ho chiesto di unirsi a noi, ma ha rifiutato".

Mellodîn annuì. Lasciò vagare lo sguardo intorno, sfiorando uno a uno gli altri commensali. A ben guardare, era meglio che lei non fosse lì. Era accaduto tutto troppo in fretta, e l'emergenza che avevano affrontato aveva impedito che fossero partoriti dubbi e alimentate domande. Restava comunque il fatto che non sapeva ancora quali pensieri avessero quegli uomini su di lei. Con Galanár non ne avrebbe parlato. A lui importavano raramente le opinioni degli altri, soprattutto quelle non richieste. Ma a Mellodîn sì. Il suo spirito militare lo spingeva a valutare in ogni occasione i pericoli e i vantaggi. E lui stesso non sapeva ancora dire con sicurezza a quale delle due categorie avrebbe ascritto l'incantatrice.

"Per tua fortuna", commentò dopo quella pausa di riflessione, "ha più saggezza di te".

Il principe lo squadrò con maggiore attenzione.

"A cosa ti riferisci?"

Mellodîn sorrise lievemente.

"Un Mezzelfo che vuole diventare re, un esercito di uomini armati fino ai denti e un Elfo Scuro, che è pure un Daimonmaster, alle soglie della reggia di Laurëgil... non credo che re Arantar riposerà tranquillo, stanotte!"

Nonostante il tono ironico dell'amico, l'espressione sul viso di Galanár si fece seria.

"Quel Daimonmaster non verrà con noi, domani", sentenziò.

Mellodîn non fece in tempo a udire l'intera frase, né poté in alcun modo chiedere spiegazioni, perché un coro di esclamazioni interruppe la loro conversazione. Alcune giovani elfe, sottili e silenziose, con i lunghi capelli chiari raccolti in nastri, erano entrate nella sala recando delle coppe, accolte dalle espressioni gioiose dei giovani ufficiali.

Galanár le osservò una a una, compiaciuto. L'ombra di preoccupazione era già sparita dal suo viso. Le fanciulle, sinuose e rapide, versarono nei calici un liquido dorato dal profumo intenso e speziato. Reso allegro dal vino e dalla compagnia, riscaldato dal fuoco e dall'idea di essere ormai all'ombra della rocca degli Elfi, il principe sollevò la coppa, brindò alle future vittorie e bevve il liquore tutto d'un fiato.

Quella sera, di certo, non avrebbe pensato a lei.

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