10. ALEA IACTA EST
Mellodîn si inoltrò per qualche miglio con la sua scorta e, quando vide che la boscaglia si diradava, fece segno di arrestarsi. Non c'era alcun rumore né movimento intorno, e da un pezzo avevano perso di vista Bellator e il suo contingente. Il capitano cominciò a temere che non avrebbero trovato nulla in quella direzione e che, proseguendo oltre, avrebbero soltanto perso tempo. Tuttavia desistere senza aver risolto il problema significava continuare la marcia attraverso il bosco sotto la continua minaccia di un attacco.
"Torniamo indietro", disse ai suoi. "E andiamo a destra. Cerchiamo di ricongiungerci all'altra truppa. Magari hanno avuto più fortuna e può servire loro una mano".
Cavalieri e arcieri si mossero per obbedire, ma non poterono fare un passo: una parete di frecce piovute dal nulla sbarrò loro la strada, mentre uno spostamento d'aria alle spalle gli rivelò infine la presenza del nemico. Un gruppo di guerrieri Troll balzò giù dagli alberi che costeggiavano la radura e costrinse in un cerchio gli uomini e il loro capitano.
Come Mellodîn aveva intuito, il loro numero non era elevato. Erano in pochi, sfuggiti al massacro nell'Ambit. Erano affamati e disperati, desiderosi di una vendetta che non avrebbe restituito loro i compagni morti o le terre perdute, ma che avrebbe almeno dato soddisfazione ai loro animi esacerbati. Perché, pur essendo un nugolo sparuto di guerrieri, erano sufficienti ad accerchiare e uccidere quei soldati separati dal resto dell'esercito.
Mellodîn, in cuor suo, maledisse la reazione istintiva di Galanár e il suo dissennato ordine di lanciarsi al galoppo per stanare gli assalitori. Avevano fatto esattamente il gioco dei Troll, che li avevano provocati con poche frecce proprio nella speranza che un piccolo contingente si muovesse alla loro ricerca. Pregò che i suoi non fossero troppo stanchi di vivere e smontò da cavallo.
"Sguainate la spada e combattete!", esclamò, mentre i cavalieri imitavano il suo gesto.
Si strinsero spalla a spalla, cercando di tenere dietro gli arcieri, e sollevarono le spade contro il nemico.
"Nessuno verrà in nostro soccorso", ricordò loro. "Combattete per la vostra vita fino all'ultimo".
In realtà sperava che Bellator avesse avuto la sua stessa idea, di tornare indietro e unirsi agli altri compagni. Sempre che il luogotenente e i suoi non fossero incappati, nello stesso momento, in un pericolo di eguale portata. Per non dare agli uomini false speranze, aveva tuonato quelle parole, un attimo prima che i Troll levassero un grido corale e si lanciassero contro il gruppo asserragliato.
I cavalieri iniziarono un feroce corpo a corpo. Gli arcieri misero gli archi sulla spalla ed estrassero i pugnali: la lotta era troppo convulsa e prossima alla loro posizione per poter utilizzare la loro arma di elezione.
Le spade cozzavano contro le asce robuste, generando uno stridio insopportabile alle orecchie. Due uomini caddero trafitti da un guerriero che, con gli occhi iniettati di sangue e la bocca che schiumava, aveva tranciato loro il petto e la gola con due colpi netti. Mellodîn si lanciò contro di lui, cercando di disarmarlo.
Il troll aveva una corporatura poderosa. Doveva essere stato un capo tribù, a giudicare dai disegni sacri che gli fasciavano i muscoli ben sviluppati e dall'ascia prodigiosa, contro la quale la lama di Mellodîn si infranse con violenza, spezzandosi in due tronconi.
Il capitano indietreggiò, stringendo ancora in mano ciò che rimaneva della sua spada e guardandosi rapidamente attorno alla ricerca di un'altra possibile difesa. Il gladio caduto a uno dei soldati uccisi giaceva abbandonato a pochi passi dal cadavere, ma Mellodîn stimò che non sarebbe riuscito a prenderlo senza scoprire il fianco all'avversario. Si preparò quindi a respingere come poteva il colpo d'ascia che l'altro stava per piazzare, sperando di riuscire a pararlo bloccando la lama nell'elsa.
Vide il troll che si sollevava per assestare il colpo e si concentrò sulla parabola che avrebbe dovuto respingere, ma il movimento del guerriero si interruppe a mezz'aria. L'enorme ascia scivolò ai suoi piedi e si conficcò nel terreno. Il grosso combattente si piegò, trascinando sotto di sé, in quella caduta, il corpo del capitano.
Silanna era rimasta sola, attorniata da un gruppo di cavalieri fermi in attesa di nuovi ordini. Aveva visto il generale e il suo capitano inoltrarsi con un manipolo di uomini all'interno della foresta, seguiti da un altro giovane ufficiale a cavallo, ma nella foga e nel disordine che si erano diffusi nella testa della colonna, li aveva persi di vista.
Si sollevò dall'erba, sistemandosi il mantello che le si era aperto e riprese le briglie del suo palafreno. Rimontò a cavallo e si girò per controllare la situazione da quell'altezza.
I cavalieri che non si erano lanciati all'inseguimento dei nemici si muovevano intorno, agitati, mentre gli armigeri si passavano di bocca in bocca la notizia dell'attacco a sorpresa. Qualcuno proponeva di seguire i compagni, ma i più ripetevano che gli ordini del generale erano andati solo a una truppa, e nessuno di loro si voleva trovare nella spiacevole condizione di contravvenire a un suo ordine, neppure per una giusta causa.
D'un tratto, nella confusione di parole umane e nitriti nervosi, si fece strada una voce imperiosa che chiedeva il passo. Silanna vide avanzare un cavaliere abbigliato con una tunica viola, che non indossava protezioni, né portava con sé alcuna arma.
Aegis squadrò la figura incappucciata da lontano e, mentre le si avvicinava, riconobbe in lei uno dei guaritori che aveva visto durante la battaglia. L'improvviso desiderio di sapere che cosa ci facesse lì quella donna, in testa alla colonna e così lontana dalla schiera dei suoi, lo avrebbe spinto a mille domande, ma non era quello il momento adatto per soddisfare la propria curiosità. Si limitò a spingere il cavallo fino a quello di lei.
"Cosa è accaduto?", chiese con tono duro, urgente.
"Ci hanno teso un agguato, maestro", rispose l'elfa, per nulla intimorita. "Il generale, il capitano Mellodîn e un altro dei suoi ufficiali si sono spinti nel bosco per stanare i colpevoli".
"Avete visto di chi si trattava?"
"No, ma a giudicare dalla fattura delle frecce direi che si possa trattare di Troll".
Aegis vide i dardi ancora conficcati vicino agli zoccoli del suo cavallo e scosse la testa.
"Accidenti!", esclamò inquieto. "Se quelle bestie hanno con loro gli sciamani, avranno bisogno degli incantatori".
Guardò Silanna con interesse, forse per la prima volta da quando le aveva rivolto la parola.
"Avete visto da che parte sono andati?"
L'elfa sollevò il braccio e puntò il dito con sicurezza. L'incantatore fece un cenno col capo.
"Venite con me", le ordinò. "Temo che ormai avranno solo bisogno delle nostre cure, ma forse facciamo ancora in tempo. Conoscete pure qualche incantesimo?"
"Tutti quelli che vi possono occorrere", rispose lei, chinando leggermente il capo.
"Buon per noi. Andiamo", la invitò, prima di rivolgersi al cavaliere più vicino. "Avverti il luogotenente Amalion, digli di rimettere in ordine la colonna e di attendere qui il nostro ritorno".
Spronò quindi il cavallo nella direzione che Silanna aveva indicato, e lei gli fu subito dietro.
Avevano percorso soltanto un piccolo tratto quando dovettero arrestarsi, perché si trovarono dinnanzi agli occhi una scena inaspettata: un cavallo d'argento brucava l'erba tenera della radura. Aveva le briglie lasciate da parte e sul suo collo era abbandonato il corpo del generale, mentre Ariendil si trascinava su un fianco dell'animale, sfiorando il terreno.
Silanna si lasciò sfuggire un gemito dall'ombra del suo mantello.
"Per gli Dei!", esclamò Aegis sgomento. "Che sciagura è mai accaduta?"
Smontò da cavallo e afferrò le redini dell'altra cavalcatura. Avvicinò a sé l'animale e sollevò il viso del generale. Respirava ancora, così Aegis poté ricominciare a farlo a sua volta, poiché la paura che il peggio fosse accaduto gli aveva tolto il fiato. Tirò il cavallo e mise le strisce di cuoio tra le mani di Silanna.
"Riportatelo indietro e cercate il maestro Kolridge immediatamente. Io andrò avanti da solo".
Lei non ebbe la forza di ribattere. Obbedì senza una parola. Il cuore le stava esplodendo nel petto per la paura di essere giunta, quella volta, davvero in ritardo.
Mellodîn si accorse che i rumori dello scontro erano di colpo cessati e temette che il peggio fosse ormai accaduto, che la lotta fosse giunta alla sua più nefasta conclusione.
Con uno sforzo, si svincolò dal peso massiccio del guerriero Troll ma, quando si fu liberato, rimase riverso sulla schiena, immobilizzato dallo stupore: tre creature lo sovrastavano, fissandolo con uno sguardo singolare. Erano slanciate e ben fatte. Indossavano una sottile cotta di metallo lucente, simile all'argento, sopra dei calzoni di un verde scuro, riccamente decorati di ricami lungo il gambale. Calzavano stivali di pelle morbida, di squisita fattura. Avevano lunghi capelli lisci e setosi, raccolti in una coda, dai colori che variavano, nelle tre figure, dal biondo cenere al dorato all'argento. Le orecchie sottili che spuntavano dalla capigliatura levarono qualsiasi dubbio al capitano: erano elfi. Avevano piantato le loro armi sull'erba con un gesto altezzoso e lo studiavano dall'alto della loro posizione con un'espressione che a Mellodîn non piacque affatto.
"Dunque è così", commentò la figura al centro, quella che sembrava avere più importanza a giudicare dagli abiti.
Il capitano si sollevò cautamente in piedi. Guardandosi attorno per accertarsi della salute dei suoi uomini, vide che la maggior parte di loro era ancora vivo, ma notò soprattutto che erano circondati da quelle eleganti figure. Gli elfi, a eccezione di quelli che aveva davanti, si erano fermati al limitare della radura, chi impugnando un arco, chi una spada. Ognuno aveva ai suoi piedi uno o più cadaveri. Il capitano comprese ciò che era accaduto, e come erano stati sul punto di perdere la vita, se non fosse giunto quel soccorso inaspettato. Tornò a guardare colui che aveva parlato, pronto a ringraziarlo per l'intervento, ma lo sguardo dell'elfo si era fatto più severo.
"È a causa vostra che queste bestie sono entrate nelle nostre terre, capitano della Lega?"
Sottolineò quel titolo con una nota di disprezzo, dopo aver studiato le insegne macchiate di sangue che Mellodîn indossava sulla cotta.
"Non era nostra intenzione arrecare disturbo alle terre di Laurëlindon. Li abbiamo seguiti fin qui proprio per completare l'opera che avevamo iniziato altrove".
"Un tentativo piuttosto maldestro, a giudicare dai risultati", commentò con ironia l'elfo più giovane che stava alla sua sinistra.
Mellodîn gli rivolse uno sguardo offensivo, ma poi decise di contenersi. Per quanto l'altro lo avesse apostrofato con insolenza e sarcasmo, il capitano non sarebbe mai venuto meno alle forme di riconoscenza verso coloro che avevano salvato lui e i suoi uomini.
"Ad ogni modo, capitano", continuò il più anziano, mettendo a tacere il compagno, "noi elfi siamo già abbastanza impegnati a salvaguardare i nostri confini. Non abbiamo il tempo di giocare con questi stupidi Troll. Rammentatelo la prossima volta che ve ne farete scappare qualcuno".
Il capitano si sforzò di chinare il capo con rispetto.
"Vi siamo grati di averlo fatto almeno in questa occasione".
Quella risposta pacata parve colpire il suo interlocutore, che tuttavia non rinunciò al suo tono aspro.
"Devo comunque chiedervi chi siete e quali autorità avete per spingervi così tanto nelle nostre terre".
Mellodîn accennò un sorriso mentre gli rispondeva fissandolo dritto negli occhi.
"Sono il primo capitano del principe Galanár, figlio di Maldor di Arthalion. Ho condotto qui i miei uomini per stanare questo gruppo di nemici, ma l'esercito del generale è a poche miglia, sulla strada per Laurëgil, dove siamo diretti con la benedizione di re Arantar".
A quelle parole, un'ombra scura si disegnò sul volto dell'elfo più giovane, che distolse lo sguardo.
"Il principe Galanár", mormorò tra i denti con disprezzo, prima di tornare a sfidarlo con occhi arroganti. "Al vostro principe guerrafondaio non erano più sufficienti le montagne dell'Ambit per giocare con le spade?"
Mellodîn perse la calma di fronte a quell'affronto e, dimentico di ogni forma di cortesia, fece per affrontare quel soldato insolente. La lama elfica del suo avversario gli si poggiò pericolosamente sulla gola e il capitano dovette frenare il suo impeto. In quel momento, un rumore di zoccoli gli giunse alle orecchie e un cavallo lanciato al galoppo sollevò un nugolo di polvere sottile, frenando al loro fianco.
"Fermatevi!", intimò la voce agitata del cavaliere.
Tutti si voltarono a guardarlo mentre scendeva dall'animale e si frapponeva tra i due contendenti.
"Che la luce vi accompagni, fratelli!", esclamò il maestro Aegis all'indirizzo dei tre elfi.
"E che possa illuminare il tuo cammino", rispose il più importante, intento a studiare l'aspetto del nuovo arrivato e i simboli che ne rivelavano l'alto lignaggio.
"Qualunque cosa possa avervi offeso, deve essere stato un malinteso", continuò Aegis con calma, mentre con il braccio allontanava discretamente Mellodîn dal gruppo. "Io e il capitano qui presente stiamo attraversando in pace le vostre terre, al seguito del principe Galanár. Egli ha avuto licenza dal vostro re di sostenervi nella guerra contro i Nani dell'Est".
L'elfo lo guardò con sospetto, poi i suoi lineamenti sembrarono distendersi.
"Avete un lasciapassare, Maestro?"
"Lo ha il nostro principe, ma in questo momento egli giace gravemente ferito. Vi prego di lasciare andare questi uomini e di darci il permesso di accamparci in questo territorio fino a quando non ci sarà possibile riprendere il cammino per Laurëgil. Potete venire con noi ad appurare la veridicità delle mie parole, se lo desiderate".
Mellodîn fissò Aegis allarmato, udendolo pronunciare quelle parole. Gravemente ferito? Era uno stratagemma per convincere quegli elfi arroganti o era davvero successo qualcosa a Galanár?
L'elfo chinò il capo con cortesia di fronte allo sguardo diretto dell'incantatore.
"Non esiste un motivo tanto valido per offendervi dubitando della vostra parola, Maestro. Disponete delle nostre terre per il tempo che vi sarà necessario".
Aegis lo ringraziò con lo stesso gesto.
"La luce illumini le torri di Laurëgil", disse.
"E la rocca di Arthalion", rispose l'altro elfo.
Poi fece un cenno con la mano e, con la stessa rapidità con cui erano apparsi alle spalle del nemico, gli elfi scomparvero, celati dalla foresta.
NOTA DELL'AUTORE
Alea iacta est (Il dado è stato gettato) è il famoso motto che, secondo Svetonio, Giulio Cesare ha pronunciato al passaggio del Rubicone, dando il via alle guerre civili romane.
L'espressione indica in generale una decisione che non ammette ripensamenti o l'inizio di un'azione irrevocabile.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top