09. BIS VINCIT QUI SE VINCIT IN VICTORIA
Silanna era molto grata a Galanár per la sua scelta di marciare dopo il tramonto. Come tutti gli Elfi Scuri, nell'ombra si sentiva più forte. Il sole di mezzogiorno, invece, la infastidiva. Nelle sue fantasticherie di un tempo avrebbe pensato a quella decisione di lui come a un segno del destino, o addirittura come un'attenzione nei suoi riguardi, ma dalla notte dopo la battaglia aveva di molto mutato la propria opinione sul principe.
Cercò di non soffermarsi su quel pensiero. Non le restava molto da fare, se non aspettare che accadesse qualcosa. Si alzò dal suo riparo improvvisato nella boscaglia e si passò una mano sulla tunica. Era piena di foglie e un po' sgualcita, ma qualsiasi disagio era preferibile al dormire nelle tende, con i suoi simili. Troppi occhi la scrutavano, fissando con curiosità o addirittura con riprovazione la sua carnagione. Gli elfi dell'esercito di Galanár provenivano per la maggior parte da Laurëlindon, e molti addirittura dalla capitale Laurëgil. Qualunque fosse il loro lignaggio, però, nessuno apparteneva alla tanto disprezzata stirpe degli Elfi Scuri.
Nel tratto d'erba che divideva la foresta dal punto in cui erano accampati, scorreva un rivo di acqua cristallina. Silanna pensò di approfittarne e si inginocchiò sul greto del fiume a rinfrescarsi prima di unirsi alla sua schiera e iniziare il cammino. Ebbe appena il tempo di raccogliere gli indumenti e coprirsi quando un'ombra si disegnò netta sul terreno, proprio al suo fianco. Senza una vera ragione, seppe subito che apparteneva a lui e non si mosse.
"Mia signora Silanna".
La voce le arrivò calda alle spalle, con l'accento morbido che tante volte aveva riprodotto nei suoi sogni e la obbligò a girarsi. Il sole che tramontava disegnava la sua sagoma scura e gli faceva brillare i capelli d'argento. Ricordando quanto sgradevole fosse stato il loro primo approccio, la consolò il pensiero che egli fosse almeno così piacente. Si era ripetuta più volte che quel dettaglio le sarebbe tornato utile: se i suoi piani si fossero realizzati come lei sperava, prima o poi si sarebbe dovuta concedere a quell'uomo.
Cercò di darsi un contegno, si levò in piedi e si inchinò con rispetto ma, appena Galanár si avvicinò, indietreggiò d'istinto. Il principe si irrigidì, contrariato da quella reazione.
"Non abbiate timore. Non sono qui per quello che pensate", puntualizzò.
Quelle parole, pur se pronunciate in tono piccato, le parvero sincere.
"Che posso fare per il mio signore?", chiese, sforzandosi di apparire dolce.
"Ho saputo che avete parlato con il mio capitano".
Il capitano!
Il capitano Mellodîn aveva agito proprio come lei aveva sperato. Chinò il capo e annuì per non dare a vedere quanto fosse soddisfatta: aveva giocato bene la sua ultima carta.
Galanár incrociò le braccia al petto e cercò di studiare la sua espressione. Lei continuava a tenersi a distanza e a comportarsi con incredibile deferenza, mentre lui, lui stava morendo dal desiderio di interrogarla e di poter leggere la verità sui suoi occhi. O sulle sue labbra.
"Ho sentito di voi cose molto interessanti, signora. Ditemi, dunque: chi siete? chi è vostro padre? dove siete stata educata?"
Silanna rabbrividì. Quelle domande la piombarono in un profondo imbarazzo e la fecero tremare. Strinse le mani sotto le ampie maniche della tunica.
"I miei natali sono troppo modesti per interessare vostra altezza. Quanto al mio addestramento, ho avuto l'onore di essere stata educata al monastero di Valkáno".
Galanár la osservò con maggiore interesse: l'eccellenza di quel luogo di magia era riconosciuta persino nelle terre degli Uomini. Notò anche che, per tutto quel tempo, lei non si era ancora scoperta il capo. Non riuscire a vederle il viso lo infastidì.
"Se è da lì che venite", continuò, "forse siete davvero un Daimonmaster, come dicono".
Lei sorrise di sotto al cappuccio.
"Forse", sussurrò maliziosa.
Galanár si sentì disorientato da quella risposta. E quando era disorientato, conosceva un solo modo per risolvere il problema.
"Bene, scoprirlo sarà faccenda piuttosto agevole: da questo momento vi ordino di lasciare la Schiera dei Guaritori. Cavalcherete in testa all'esercito e il vostro posto sarà accanto al vostro generale".
Lei fu così sorpresa da quella decisione inattesa che sollevò il capo di scatto e gli piantò addosso i suoi occhi dorati. Lui approfittò del suo smarrimento e le andò vicino, senza perdere il contatto con lo sguardo.
"Questo ordine ha effetto immediato. Stasera stessa vi voglio al mio fianco. E da oggi voi curerete me, solo me e nessun altro, fino a quando non mi avrete convinto del vostro valore".
"Generale", rispose lei in un soffio, sopraffatta dall'emozione, "quest'ordine non soltanto mi onora, ma mi riempie di gioia".
"Vorrei che fosse vero", ribatté il principe con un punta di tristezza nella voce, "ma con il volto coperto, così come siete adesso, è difficile distinguere la sincerità dall'adulazione".
Silanna ricordò a se stessa che la loro partita a scacchi era solo alle prime mosse e che lei era ben lungi dal poterla considerare vinta. Doveva stare attenta. Gli si accostò appena e, passandosi una mano sul collo, fece scivolare fuori una ciocca scura.
"Mi è stato detto di non togliere mai questo cappuccio, per non ingannare chi mi fosse stato di fronte. Era un vostro ordine anche quello".
"Infatti", confermò lui, con voce bassa e carezzevole. "Ma io, che non sono ingannato, io posso farlo. Io soltanto e ogni volta che lo desidero".
Afferrò il bordo ricamato e le scostò la stoffa dal capo, accompagnando il cappuccio fino alla schiena, poi restò immobile ad ammirare la scena. Lei non si era mossa e non era scappata, come aveva temuto. Restava docile, imprigionata in quella stretta, lasciandogli tutto il tempo di studiarle il viso.
La sua pelle era di un nero ambrato che non aveva mai visto prima di allora. Aveva i lineamenti minuti e gentili degli Elfi, ma la bocca più carnosa e gli occhi più grandi delle altre della sua specie. Inoltre, il colore dorato delle iridi era straordinario.
Forse presagio di grandi fortune. O di grandi sventure.
Se anche fosse stata sventura, il principe l'avrebbe ignorata: lei lo stava guardando come se dipendesse interamente dalle sue labbra, dalle sue parole, dai suoi desideri. Era un abbandono, quello, che avrebbe potuto fargli perdere la testa più di qualunque altra seduzione del corpo.
Con le mani che ancora le stringevano la schiena, Galanár si chinò verso di lei. Pensò di baciarla e di prendersi così una piccola rivincita sul loro primo incontro, ma d'un tratto cambiò idea.
Le vittorie, a volte, potevano assumere aspetti strani, così si limitò a sfiorarle il viso mentre avvicinava le labbra al suo orecchio.
"A più tardi, mia signora", sussurrò.
Assaporò il brivido che lei non riuscì a controllare, poi andò via senza attendere una risposta.
Mellodîn vide Galanár salire a cavallo e raggiungere spedito la testa dei suoi cavalieri. Lo affiancò, come era solito fare durante gli spostamenti. Quella sera il principe era così di buon umore che il sorriso sembrava non volerlo abbandonare. Il capitano non poté fare a meno di sentirsi contagiato da quella contentezza e considerò che anche a lui sarebbe giovato un pensiero felice cui abbandonarsi.
I ricordi luminosi di Arthalion presero a danzargli nella testa. In un istante, rivide le armi esposte al sole e i colori delle giostre, la foga dei suoi vent'anni e le folli idee di un giovanissimo Galanár, il sangue dei duelli e il tintinnare dei boccali di birra, e infine un sorriso che si accendeva nella notte, un attimo prima di affogare in un abbraccio che sapeva di lavanda. Mentre si lasciava cullare da quella memoria, che cancellava gli echi aspri delle battaglie, Mellodîn cominciò a intonare a bassa voce un'antica ballata.
Cantava le fanciulle in fiore e la festa di mezz'estate. Cantava le bandiere svettanti della rocca di Arthalion e le sue dolci colline. Cantava tutta la gioia e il sapore della vita. Galanár chinò il capo e sorrise, lasciandosi carezzare dalle suggestioni di quella musica che si levava così familiare in quegli spazi estranei che stavano attraversando.
"Ci farai venire il desiderio di tornare a casa, Mellodîn", esclamò d'un tratto, guardandolo con espressione spensierata.
"Non sarebbe certo un desiderio disonorevole, dopotutto", osservò l'altro con voce calma. "Specialmente dopo aver vinto una battaglia".
Galanár socchiuse gli occhi.
"Se fossimo a corte, farei venire i musici al castello e chiederei loro di suonare per tutta la notte, e canteremmo canzoni bevendo il vino del re. Io...".
Si trattenne un istante sul limite di quelle parole.
"... ho nostalgia di quelle serate".
"Galanár di Arthalion", scandì il capitano con voce divertita. "Sei senza alcun dubbio l'essere più illogico che io abbia mai conosciuto".
"Perché mai?"
"Perché ogni volta che restiamo a corte per più di un mese cominci a scalpitare come un animale in gabbia e a desiderare la battaglia, e adesso che sei qui mi vieni a dire che vorresti essere a casa a farti cantare ballate dai musici e dai poeti?"
Galanár esplose in una sonora risata e avrebbe di certo replicato con la sua solita celia, se una voce non lo avesse interrotto.
"Buonasera, miei signori".
Si girarono entrambi nello stesso momento a guardare colei che li aveva salutati. Su un piccolo palafreno grigio, Silanna li aveva raggiunti alla testa della colonna. Indossava sempre il cappuccio ben calato sul capo e cavalcava come un uomo, come già Mellodîn aveva avuto modo di osservare. Il capitano chinò il capo in un saluto rispettoso, ma Galanár tornò a guardare l'orizzonte davanti a sé, nascondendo un sorriso di soddisfazione.
"Siete in ritardo", sottolineò con tono che voleva essere di rimprovero.
Lei lo ignorò.
"Le mie cure arrivano sempre in tempo, il resto ha poca importanza", rispose, mentre guidava la propria cavalcatura accanto a quella del principe.
Il generale rise dell'arguzia di quella risposta e subito si voltò alla propria destra.
"Date il benvenuto alla nostra nuova compagna di viaggio, capitano Mellodîn. Se dobbiamo prestare fede a quanto sostiene questa signora, da stasera non avrete più motivo di temere per la mia vita".
I due uomini si scambiarono un cenno d'intesa: per l'ennesima volta il principe aveva accettato di sottomettersi ai consigli dell'amico. Alla sua maniera, beninteso.
Silanna li osservò con attenzione. Era stata accolta in quel ristretto cenacolo, ma era un territorio per lei sconosciuto. Era in compagnia di una coppia di amici che si conosceva così profondamente da poter comunicare senza parlare. Si sarebbe limitata a fare ciò che si aspettavano da lei: restare al loro fianco in silenzio e obbedienza.
D'un tratto Galanár fece scartare lievemente il cavallo e le si accostò.
"Non desidero che vi allontaniate dal mio fianco", sussurrò abbastanza piano da essere udito solo da lei. "Tuttavia immagino di non potervi ospitare nella mia tenda".
Un brivido attraversò Silanna: la sua risposta era fondamentale per non turbare l'umore del generale. Si obbligò a non girarsi per non incontrare i suoi occhi e far trasparire la sua incertezza.
"Siamo ancora in guerra, mio signore. Qualsiasi giaciglio è pur sempre un giaciglio, a condizione che lo si possa usare per dormire dopo uno spostamento così faticoso".
Galanár parve soddisfatto dalle sue parole. Fece un leggero cenno col capo, quindi proseguì ad alta voce.
"Guardate a est. In quella direzione c'è Laurëgil. Lì farò predisporre per voi la stanza migliore, con un vero letto e tutte le comodità che potreste desiderare. Saranno sette giorni di cammino, se non incontreremo ostacoli. Otto al massimo. Fino ad allora vi troverò una sistemazione conveniente. Voi preoccupatevi solo di assolvere ai vostri compiti, così scopriremo presto se siete falco o colomba".
Silanna non rispose. Era ormai chiaro che provocarla con le sue parole taglienti sarebbe stato il passatempo di quel principe annoiato dall'assenza del combattimento. Non poteva fare nulla per sottrarsi a quel gioco senza mettere in pericolo la precaria posizione che aveva appena guadagnato. In più, ricordò a se stessa per l'ennesima volta, era pur sempre una donna. Doveva rispettare quelle regole non scritte che la obbligavano a comportarsi secondo un protocollo tanto rigido quanto sciocco, anche se lei sapeva benissimo che avrebbe potuto disarcionare quei due uomini che le cavalcavano accanto con un solo gesto della mano.
Galanár, intanto, aveva ripreso a scrutare un punto a sud-est. Un sibilo tranciò l'aria della notte e qualcosa lo colpì come un pugno ben assestato, facendolo vacillare e obbligandolo ad aggrapparsi con forza alle redini. Il cavallo nitrì, sentendosi tirare, e si impuntò. Il principe si portò istintivamente una mano alla spalla sinistra e serrò tra le dita un dardo. In quel momento una seconda freccia attraversò lo spazio per colpirlo, ma fece in tempo a scartare e la freccia si conficcò sul terreno, a pochi passi dallo zoccolo dell'animale. Galanár smontò in un balzo e afferrò Silanna, trascinandola a terra.
"State giù", le intimò spingendola contro l'erba.
"Siete ferito!"
"Ci penserete dopo", rispose, mentre già estraeva Ariendil dal fodero, facendo cantare la sua lama affilata.
Mellodîn, intanto, spronò il suo stallone verso le file retrostanti, chiamando a gran voce il primo battaglione dei suoi arcieri. Gli uomini che si affrettarono a ubbidire, furono bloccati da una linea di frecce.
"Ci vogliono circondare!", urlò il principe al suo capitano, mentre con una smorfia di dolore risaliva a cavallo e gli andava incontro.
"Sono pochi", osservò Mellodîn. "Almeno a giudicare dalle frecce".
Si guardava attorno stringendo gli occhi per scrutare meglio, passando di albero in albero nella speranza di scorgere un colore o uno spostamento che potesse tradire la presenza del nemico.
"Il solo problema è che vedono noi, mentre noi non vediamo loro".
L'incertezza del momento fece perdere loro minuti preziosi. Un'altra ondata di frecce cadde sui cavalieri, che cercarono di sfuggirvi rompendo le righe e disperdendosi come potevano.
"Prima linea, andiamo!", ordinò Galanár, guardando i suoi uomini e sollevando la spada verso il lato del bosco da cui l'attacco sembrava provenire. "Li voglio tutti morti!"
I cavalieri, privi di qualsiasi altro ordine che non fosse quello di uccidere, sciamarono in quella direzione, seguiti dagli arcieri. Il principe si lanciò al galoppo ma, dopo aver percorso un breve tratto, dovette arrestarsi. Abbassò la mano armata, come se Ariendil fosse diventata un peso troppo grande da portare. Mellodîn lo affiancò.
"Resta qui, andrò io".
"Neanche per sogno! Tirami fuori questa maledetta freccia e andiamo".
"Non essere sciocco", protestò il capitano, mentre gli uomini sfilavano loro accanto, alla ricerca degli arcieri invisibili. "Vuoi forse morire qui?"
"Mellodîn!", urlò il principe, preso insieme dal dolore lancinante della ferita e dall'ira di vedere la sua volontà non rispettata. "Questo è un ordine!"
Il capitano lo liquidò con una imprecazione e assestò una frustata al cavallo d'argento del generale, rispedendolo indietro. Incapace di stringere la spada, il principe lo era ancor più di direzionare la cavalcatura a proprio piacimento. Mellodîn sapeva che l'animale, seguendo la sua istintiva intelligenza, lo avrebbe portato lontano dal pericolo. Si voltò quindi sull'altro fianco, a cercare il suo luogotenente.
"Bellator!", chiamò. "Prendi i tuoi uomini e portali a destra, io andrò a sinistra".
L'uomo gli fece un cenno di assenso col capo e si girò a impartire gli ordini. Si divisero, quindi, alla ricerca dei loro aggressori.
Galanár, al colmo della sua collera e urlando maledizioni al cielo, fermò il cavallo al limite della boscaglia. Fu l'ultimo sforzo che riuscì a compiere prima di crollare sul collo dell'animale. Le sue dita allentarono la presa e Ariendil gli scivolò dalla mano, restando sospesa a ondeggiare nel vuoto, stretta al suo polso dal nodo d'argento della dragona.
NOTA DELL'AUTORE
Bis vincit qui se vincit in victoria, ovvero Vince due volte chi nell'ora della vittoria sa vincere se stesso, è una frase di Publilio Siro: colui che, nel momento della vittoria, è in grado di controllare le proprie azioni ed emozioni, e di non approfittare dell'avversario, vince due volte 😉
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